Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con sentenza pubblicata il 29.4.2008 la Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta da C.G., e coltivata in appello dalle eredi di lui, P.F. e C.M.R., di rilascio di un immobile a destinazione abitativa sito in (OMISSIS), accogliendo l’eccezione di usucapione proposta dai convenuti appellanti, P.M. e A., C., M. e P.S..
Questi ultimi, osservava la Corte territoriale, erano componenti della famiglia di fatto di P.F., proprietario dell’immobile, che fin dagli anni 50 in esso aveva vissuto more uxorio con P.M., e con i figli avuti da lei, tra i quali, appunto, A., C., M. e P.S., fino alla sua morte, avvenuta il (OMISSIS). Successivamente, nell’immobile avevano continuato a vivere la predetta compagna e i figli mantenendo un potere di fatto sulla res qualificabile come possesso. E considerato quale dies a quo della possessio ad usucapionem il 20.6.1954, giorno della nascita del primo figlio, alla data del (OMISSIS), allorquando era stata notificata la citazione introduttiva di un precedente e analogo giudizio, poi estintosi, era già maturato in capo a P.M. il ventennio necessario per l’acquisto per usucapione della proprietà dell’immobile.
Per la cassazione di detta sentenza ricorrono P.F. e C.M.R., formulando tre motivi di ricorso.
Resistono con controricorso A., C., M. e P.S..
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
P.M. non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. – Preliminarmente va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dai controricorrenti per asserita non corrispondenza tra i quesiti di diritto e la ratio della sentenza impugnata, i primi essendo incentrati sulla questione relativa alla qualificazione giuridica del potere esercitato dal convivente more uxorio sull’immobile di residenza familiare, la seconda avendo qualificato come autonomo il possesso esercitato da P.M., e non già sostenuto che la ridetta convivenza costituisca o possa costituire prova del possesso.
1.1. – Contrariamente a quanto affermano i controricorrenti, il senso complessivo della sentenza impugnata conclama con evidenza solare che la decisione si fonda, essenzialmente ed esclusivamente, proprio sul fatto che P.M. abbia posseduto l’immobile in questione in quanto compagna e convivente del proprietario, P.F., cioè condividendo il possesso iure proprietatis con lui. Non è per nulla affermato, invece, che ella abbia esercitato un possesso "autonomo" (aggettivo che compare a pag. 7 del controricorso, ma non nella sentenza impugnata, salvo a pag. 7 di quest’ultima, dove si parla della prosecuzione, anche dopo la morte di F. P., del godimento del bene "in pienezza di autonomia e di esclusività"), espressione atecnica e tautologica (l’autonomia può essere predicato della sola detenzione) da tradurre in possesso distinto e tendenzialmente antagonista rispetto a quello esercitato dal coniuge di fatto (e del resto non si vede come potrebbero logicamente ipotizzarsi possessi antagonisti all’interno di un medesimo nucleo familiare di cui, pure, non si deduce la dissoluzione ante mortem). Si legge, infatti, nella sentenza impugnata che "deve giudicarsi che il godimento dell’immobile ininterrotto, sin dagli anni 50, esclusivo ed indisturbato, da parte della sig.ra P. M., in virtù della convivenza more uxorio con il sig. P., integra quella relazione di fatto con la cosa, esplicazione di signoria sulla res, idonea ad integrare il possesso (…). La relazione di fatto con la res da parte della sig.ra P. (recte, P.: n.d.r.) costituiva, dunque, esplicazione di dominio sulla res, dominio condiviso con il compagno sig. P., ma sicuramente espressione di signoria e cioè di possesso".
A nulla rileva che tale potere sulla cosa possa, in ipotesi, essere divenuto autonomo, cioè non dipendente dalla predetta relazione di convivenza, dopo il (decesso di P.F., in quanto la Corte territoriale ha affermato che "l’usucapione in favore di P.M. si è perfezionata allo scadere dei vent’anni decorrenti dal 20.6.1954 (data a partire dalla quale ha ritenuto senz’altro esistente e formato il nucleo familiare di fatto), sicchè il possesso per quasi l’intero ventennio rilevante ai fini dell’usucapione è stato esercitato, secondo la Corte d’appello, vivente P.F. (deceduto il (OMISSIS), si legge in sentenza).
Conclusivamente, la decisione impugnata, sebbene non parli in maniera esplicita di compossesso, ha chiaramente derivato l’affermata usucapione della proprietà dell’immobile in favore di M. P. da un possesso non "autonomo", ma "condiviso" con P.F., e dunque da un compossesso (giacchè tertium non datur, come meglio si vedrà infra, tra questo e il possesso esclusivo).
Allo stesso modo irrilevante, ai fini dell’eccezione in parola, è il fatto (non risultante dalla pronuncia impugnata, ma affermato nel controricorso) che P.F. fosse solo comproprietario del bene, atteso che i quesiti che il ricorrente ha l’onere di formulare ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. (applicabile alla fattispecie ratione temporis) devono essere calibrati in rapporto alle ragioni della decisione, che ne descrivono la cornice di riferimento.
2. – Il primo motivo d’impugnazione denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140 e 1158 c.c., terminando con il seguente quesito di diritto: "se, secondo l’art. 1140 c.c., la convivenza more uxorio, generatrice della costituzione di una famiglia di fatto, protrattasi per oltre venti anni determina in capo al convivente superstite non proprietario dell’abitazione della convivenza una relazione di detenzione con il bene e non pone di per se (sic!) in essere un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene e quindi valido all’acquisto della proprietà per usucapione".
3. – Il secondo motivo, che deduce la violazione a falsa applicazione degli artt. 1141 e 1144 c.c., sfocia nel seguente quesito; "se, secondo gli artt. 1141 e 1144 c.c., nel caso di convivenza more uxorio, generatrice della costituzione di una famiglia di fatto, gli atti del convivente non proprietario della casa di abitazione della famiglia di fatto devono intendersi compiuti (e sono compiuti) con la tolleranza del convivente – proprietario e determinano in capo al primo una relazione di detenzione con il bene sicchè egli non pone in essere un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene e quindi valido all’acquisto della proprietà per usucapione".
4. – Il terzo motivo denuncia la contraddittorietà della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla durata del possesso utile per l’usucapione. Sostiene parte ricorrente che la Corte territoriale, avendo fatto discendere il possesso di P.M. dalla convivenza di lei con P.F., non ha tratto la logica conclusione, così contraddicendosi, che alla morte di quest’ultimo, intervenuta anteriormente allo scadere del ventennio, sia venuto meno quel "dominio condiviso" su cui si sarebbe formato il possesso della convivente. In altri termini, afferma parte ricorrente, se è vero che il godimento dell’immobile in questione da parte di P.M. si caratterizzava per essere istituzionalmente legato al vincolo di affetti, di vita e di comunione di intenti che legava la donna al suo compagno, allora si deve ritenere che con la morte di quest’ultimo si sia interrotto il godimento esclusivo, indisturbato e pubblico, e non già che esso si sia protratto anche successivamente.
5. – I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la comune inerenza al tema del potere del convivente more uxorio sull’immobile di residenza familiare di proprietà del partner, sono fondati.
5.1. – Dottrina e giurisprudenza, sia di merito, sia di legittimità, si sono occupate del possesso e della detenzione nella famiglia di fatto essenzialmente per due fini, quello della tutela possessoria tra conviventi e verso i terzi, e quello della successione mortis causa del convivente – conduttore nel rapporto di locazione di immobile urbano.
Il progressivo radicamento sociale di situazioni di convivenza al di fuori del matrimonio, che pur vissute sotto il segno della riconferma quotidiana presentino stabilità interna e, soprattutto, riconoscibilità esterna, e il conseguente profilarsi di nuove situazioni giustiziabili, hanno contribuito, o quanto meno occasionato, il superamento di teorie che riguardavano allo stesso modo anche la posizione del coniuge e degli altri familiari conviventi, un tempo considerati quali meri strumenti del potere esercitato dal possessore sulla res, o alla stessa stregua degli ospiti, in quanto tali non legittimati attivamente all’azione possessoria (passaggio intermedio, in dottrina, fu quello di ipotizzare in favore del familiare convivente del possessore un non meglio concettualizzato godimento mero sulle medesime cose).
L’evento che ha segnato il deciso incamminarsi verso una più ampia tutela del c.d. coniuge di fatto, è dato dalla sentenza n. 404/88 con la quale la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’arto della L. n. 392 del 1978, nella parte in cui detta norma non prevedeva) tra i successibili mortis causa nella titolarità del contratto di locazione il convivente more uxorio del conduttore.
Equiparate, sia pure al limitato fine di consentire una continuità di protezione rispetto ad un bene di primaria rilevanza costituzionale, le figure del coniuge e del convivente che si comporta come tale, resta tuttavia inalterato il problema qualificatorio dei poteri di fatto esercitati, nel senso che la posizione dell’uno e dell’altro verso il detentore o il possessore si atteggia in termini affatto analoghi, non potendosi ipotizzare che al convivente more uxorio sia riconoscibile una tutela poziore rispetto a quella che compete al coniuge.
5.2. – La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di affermare che il solo fatto della convivenza, anche se determinata da rapporti intimi, non pone di per sè in essere nelle persone che convivono con chi possiede il bene un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene o come una sorta di compossesso (Cass. nn. 1745/02, 8047/01 e 2555/74).
Quanto alla posizione del coniuge, si è definita detenzione qualificata, ai fini dell’esercizio dell’azione di spoglio, la situazione di potere di fatto del coniuge convivente sui beni che arredano la casa coniugale, sia quelli necessari per il normale godimento di essa, sia quelli che vi si trovano per rendere più gradevole il soggiorno nella stessa, escludendo solo i beni non destinati all’arredamento della casa, ma portativi con una diversa e ben distinta destinazione (n. 73 3/79). Sempre in tema di tutela possessoria, è stato ritenuto che la stipulazione di un contratto di locazione di un alloggio, da parte del marito, non esclude, una volta intervenuta la separazione personale fra i coniugi, la sussistenza di un titolo di detenzione autonoma da parte della moglie, tutelabile con l’azione di reintegrazione nel possesso nei confronti del marito, ove si accerti, per effetto di tale separazione, l’esistenza di eventuali ragioni di credito della moglie per mantenimento proprio e dei figli alla stessa affidati che costituiscano titolo per tale detenzione (Cass. n. 511/82). La dipendenza della posizione dell’un coniuge rispetto a quella dell’altro avente diritto ad occupare l’immobile adibito a luogo di residenza familiare, si coglie in una sentenza che, in tema di rapporto di portierato estinto per la morte del portiere, considera senza titolo la detenzione del coniuge superstite (Cass. nn. 7162/91).
Anche in tema di locazione di immobile, i precedenti di questa Corte risolvono in termini di detenzione qualificata la successione del coniuge del conduttore nel rapporto di locazione (v. Cass. n. 6804/93), non potendo il primo, che in base alla L. n. 392 del 1978, art. 6 è titolare soltanto di una mera aspettativa alla successione nel contratto di locazione, vantare nei confronti del proprietario dell’abitazione una situazione soggettiva più forte della detenzione qualificata spettante al conduttore stesso (Cass. n. 24456/11).
Secondo una pronuncia resa in materia di IRPEF, ai fini delle detrazioni L. n. 449 del 1997, ex art. 1, comma 1, invece, il rapporto di coniugio non determina una situazione di compossesso di tutti gli immobili di proprietà di ciascun coniuge, ma solo di quello (o quelli) concretamente utilizzato anche dal coniuge non proprietario, alla data di inizio lavori, a nulla rilevando la circostanza che le spese di ristrutturazione siano eventualmente sostenuto dal coniuge non proprietario; con la conseguenza che anche nel caso di convivenza more uxorio può dirsi sussistente il possesso o la detenzione dell’immobile solo nel caso in cui il contribuente vi abiti stabilmente con il convivente proprietario, fermo l’onere di dimostrarne il possesso o la detenzione sin da epoca anteriore all’inizio dei lavori (Cass. n. 26543/08).
5.3. – Escluso che a quest’ultimo precedente, data la specificità della materia tributaria, possa attribuirsi una potenzialità espansiva, deve negarsi che il rapporto di coniugio o il menage di fatto siano idonei a configurare a favore dei coniugi o dei conviventi un compossesso della casa di residenza familiare, con l’effetto che la morte dell’un possessore consolidi il possesso nelle mani del solo superstite (e il discorso deve ritenersi valido per ogni altro familiare che conviva stabilmente col possessore). Oltre all’art. 1146 c.c., comma 1, che regola la successione nel possesso come continuazione nell’erede del potere già esercitato dal de cuius, e all’assenza di norme che autorizzino a ipotizzare fenomeni di consolidamento o accrescimento in materia possessoria, depone ed è decisiva la circostanza che il compossesso non è l’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria (ipotesi che, del resto, rimanderebbe ad una nozione di comunione diversa da quella, per quote ideali, accolta nel nostro ordinamento e derivata dal diritto romano), nè esso può atteggiarsi a contitolarità del potere di fatto (il che costituirebbe una contraddizione in termini, la titolarità inerendo al diritto, lì dove il possesso attiene alle situazioni di fatto), ma è il fenomeno della confluenza su di una stessa res di poteri plurimi, corrispondenti nella loro estrinsecazione ad altrettanti diritti tra loro distinti, di identico o di differente tipo, fra loro variamente coordinabili (si pensi al possesso iure proprietatis e iure servitutis avente ad oggetto il medesimo fondo, o al possesso esercitato dai comproprietari di uno stesso bene).
L’esclusione di un compossesso famigliare appare vieppiù manifesta nelle unioni di fatto, in cui la relazione del convivente con le res possedute dal partner è ancor più necessariamente mediata – assente il carisma del vincolo matrimoniale e con esso ogni astratta possibilità di derivarne poteri di fatto muniti di una propria autonomia perfetta – dal titolo da cui dipende detto possesso, il cui venir meno travolge le basi della tutela accordabile al convivente more uxorio.
Se dunque non vi può essere solidarietà nel medesimo possesso, è evidente che, posto un possessore iure proprietatis, al convivente more uxorio che con lui goda dei medesimi beni debba riconoscersi una posizione dipendente e recessiva, riconducibile alla detenzione autonoma, (qualificata dalla stabilità della relazione familiare e protetta dal rilievo che l’ordinamento a questa riconosce).
Con il che resta ovviamente esclusa ogni ipotesi di usucapione.
6. – L’accoglimento dei predetti motivi assorbe l’esame del terzo.
7. – Per quanto sopra, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro, che deciderà nel merito attenendosi al seguente principio di diritto: "il compossesso non consiste nell’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria, ma è il fenomeno della confluenza su di una stessa res di poteri plurimi, corrispondenti nella loro estrinsecazione ad altrettanti diritti tra loro distinti, di identico o di differente tipo.
Pertanto, il convivente more uxorio del soggetto possessore iure proprietatis dell’immobile in cui risiede la famiglia di fatto, non è, in ragione di tale sola convivenza, compossessore con lui dell’immobile stesso, che dunque non può usucapire, ma detentore autonomo".
8. – Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Reggio Calabria, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 marzo 2012.
Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2012
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