Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. Con citazione 19 marzo 1997, la Curatela del Fallimento A. s.r.l. citò la Professional D.L. – divenuta nel seguito del giudizio, dopo varie vicende, la B. Leasing s.p.a. – davanti al Tribunale di Massa, per la revocazione dei pagamenti eseguiti dalla società in bonis a favore della convenuta in esecuzione di un contratto qualificato come leasing traslativo. La convenuta resistette alla domanda.
Il giudice istruttore, respinte le istanze istruttorie della curatela, con ordinanza 16 marzo 1999 invitò le parti a precisare le conclusioni. Il collegio, con ordinanza 26 novembre 2001, dispose l’assunzione di una consulenza tecnica, e a tal fine rimise la causa sul ruolo disponendo la comparizione delle parti davanti al giudice istruttore per l’udienza del 15 gennaio 2002, poi differita al 12 febbraio 2002, di giuramento del consulente contestualmente nominato.
Il 21 gennaio 2002 la società convenuta chiese la revoca dell’ordinanza, perchè il giudice monocratico – al quale solo, per la natura del giudizio, competeva di disporre la consulenza tecnica – non poteva essere nominato nella persona del giudice delegato al fallimento, come era stato fatto. La causa seguì, ciò nonostante, il suo corso, e il 22 ottobre 2002 le parti precisarono nuovamente le loro conclusioni. La convenuta chiese il rigetto di tutte le domande proposte dalla curatela, dichiarando di non accettare il contraddittorio su eventuali domande nuove.
2. Con sentenza 18 novembre 2003, il Tribunale, in persona del giudice monocratico, accolse la domanda attrice e provvide di conseguenza.
La Corte d’appello di Massa, con sentenza del 18 novembre 2005, respinse l’appello proposto dalla B.-P. Leasing s.p.a..
Esaminando uno dei motivi del gravame, la corte territoriale escluse che la coincidenza personale del giudice delegato al fallimento della società attrice e del giudice unico della causa di revocazione avesse vulnerato, come denunciato dall’appellante, i principi della parità tra le parti e della terzietà e imparzialità del giudice, sanciti dall’art. 111 Cost., comma 2; principi che nel processo civile sono tutelati dagli istituti dell’astensione e della ricusazione, nel cui ambito deve verificarsi in concreto la sussistenza di atti del giudice idonei a pregiudicare la decisione ai sensi e per gli effetti dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4.
Richiamando la giurisprudenza di legittimità e quella costituzionale su casi analoghi, la corte respinse anche questo motivo.
3. Per la cassazione di questa sentenza, notificata il 9 marzo 2006, ricorre la società soccombente, con atto notificato il 4 maggio 2006, per due motivi, illustrati anche con memoria.
Il fallimento resiste con controricorso notificato il 9 giugno 2006.
Motivi della decisione
4. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, per avere la corte territoriale qualificato terzo e imparziale il giudice monocratico che ha deciso la causa in primo grado, e che era il giudice delegato al fallimento che aveva proposto la domanda di revocazione. Secondo la ricorrente, il nostro ordinamento processuale, se demandasse solo all’art. 51 c.p.c., come ritenuto dalla corte genovese, lo strumento attraverso il quale stabilire se un giudice sia terzo e imparziale, "consentirebbe" anche alla parte interessata di astenersi dal ricusare il giudice non terzo e non imparziale, e quindi consentirebbe al cittadino Europeo di essere giudicato da un giudice non terzo e non imparziale. L’art. 51 c.p.c., infatti, attiene solo a casi in cui l’attività del giudicante potrebbe essere influenzata da vicende personali del medesimo, che lo hanno portato in contatto con le parti, con i difensori o con i fatti di causa in modo da poterne pregiudicare la sua imparzialità. La preminenza del diritto comunitario su quello interno, affermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, avrebbe imposto al giudice di merito di disapplicare l’art. 51 c.p.c., perchè questa disposizione limita il diritto stabilito dall’art. 47 della Carta cit.. La ricorrente chiede pertanto a questa corte di affermare il principio che il giudice delegato al fallimento non può ritenersi giudice imparziale, precostituito per legge, della causa ordinaria promossa dal curatore del medesimo fallimento.
Con il secondo motivo si denuncia la nullità del procedimento e della sentenza di primo grado per la mancanza d’imparzialità del giudice monocratico in applicazione dell’art. 47 della Carte Europea dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Si censura l’impugnata sentenza per non aver rilevato la nullità della sentenza di primo grado, e del relativo procedimento, perchè emessa da giudice non imparziale. Si chiede quindi alla corte ai affermare il principio di diritto che, per la prevalenza su tutte le norme interne dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il giudice delegato al fallimento per le funzioni ad esso affidate dalla legge fallimentare non può essere ritenuto il giudice imparziale precostituito per legge della causa ordinaria promossa dal curatore del medesimo fallimento e che sono nulli i procedimenti e le sentenze poste in essere in violazione di questo inderogabile principio di diritto comunitario Europeo.
5. Il primo motivo è infondato. Decisivo, per il suo rigetto, è il rilievo che la società ricorrente, pur avendo chiesto la revoca dell’ordinanza collegiale del Tribunale di Massa di rimessione della causa sul ruolo della Dott.sa D., che era al tempo stesso giudice delegato al fallimento attore, non ha poi ricusato il giudice che avrebbe dovuto decidere la causa. La ricorrente giustifica questa omissione con l’argomento che l’art. 51 c.p.c. non contempla la fattispecie di causa tra i motivi di ricusazione del giudice. La disposizione appena citata contempla al comma 1, n. 4 come motivo di astensione obbligatoria – e quindi, ex art. 52 c.p.c., anche di ricusazione – il caso del giudice che abbia dato consiglio o prestato patrocinio nella causa o deposto in essa come testimone, o ne abbia conosciuto come magistrato in altro grado del processo o vi abbia prestato consulenza come consulente tecnico. Secondo l’interpretazione restrittiva, tradizionale nella giurisprudenza ed evidentemente fatta propria dalla ricorrente, le prime ipotesi contemplate nell’art. 51, comma 1, n. 4 si riferiscono ai rapporti privati che possono esservi stati tra il giudice e la causa, mentre quelle successive si riferirebbero tassativamente alla conoscenza del magistrato in un "grado" diverso del processo, e quindi la norma non includerebbe il caso in esame, perchè il procedimento fallimentare non è un grado della causa di revocazione.
Ora, è proprio in questa interpretazione che la norma si porrebbe – secondo la tesi della società ricorrente – in contrasto con la norma comunitaria invocata nel ricorso. Ciò, se fosse vero, avrebbe però come sola possibile conseguenza quella di porre il giudice, investito della decisione sulla ricusazione, di fronte all’alternativa tra l’adozione di una diversa interpretazione della disposizione interna, costituzionalmente orientata, o – quanto meno al tempo della pubblicazione della sentenza impugnata – la rimessione della questione alla Corte costituzionale (la quale, tuttavia, con la sentenza 389 del 1999 in tema di reclamo avverso il decreto pronunciato ex art. 28, comma 1 dello statuto dei lavoratori, ha mostrato come il tenore letterale dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4 non costituisca ostacolo invalicabile a un’interpretazione costituzionalmente orientata). Peraltro, essendo stato conferito alla Carta nel dicembre 2009, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, lo stesso effetto giuridico vincolante dei trattati – al qual fine la Carta era stata modificata e proclamata una seconda volta nel dicembre 2007 – nel presente giudizio la norma interna dovrebbe essere semplicemente disapplicata, nella parte in cui si ritenesse che essa escluda l’astensione obbligatoria, e quindi anche la ricusazione, in un caso in cui la Carta Europea le impone.
Ma la discussione sulla supposta portata limitativa dell’art. 51 c.p.c., rispetto alla disciplina dell’Unione Europea, è del tutto ininfluente nel presente giudizio, perchè non tocca la vigenza dell’art. 52 cpv., disposizione che, nell’affermare la necessità che la ricusazione sia presentata in ogni caso prima dell’inizio della discussione, esprime un distinto principio processuale, inteso non soltanto a prevenire un inutile dispendio di attività giurisdizionale che risulterebbe a posteriori viziata e da rinnovare, ma altresì a prevenire la possibilità che la decisione di ricusare sia presa, dalla parte interessata, secundum eventum litis, con evidente scorrettezza nei confronti dell’altra parte, e con gravi riflessi – non meno evidenti – sul condizionamento del giudice ricusabile. La legittimità costituzionale di questa disposizione, che assicura il giusto processo, sotto il profilo del carattere terzo e imparziale del giudice, attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione, è stata già riconosciuta dalla Corte costituzionale. La ricorrente, ignorando questo tema, peraltro decisivo nel presente giudizio, non illustra le ragioni per le quali l’art. 4 della Carta di Nizza, laddove stabilisce che ogni individuo "ha diritto" a che la sua causa sia esaminata da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge, vieterebbe di rimettere all’iniziativa dello stesso titolare del diritto lo strumento per farlo valere.
Nella presente fattispecie, in conclusione, il dubbio sulla portata effettiva del contenuto precettivo dell’art. 51 c.p.c., comma 1 non dispensava la parte interessata dall’onere di presentare una tempestiva istanza di ricusazione, così preservando la possibilità d’impugnare il suo eventuale rigetto, motivato con un’interpretazione restrittiva dell’art. 51 c.p.c., unitamente alla sentenza sfavorevole pronunciata dal giudice ricusabile. L’omessa proposizione dell’istanza di ricusazione esclude che la supposta incompatibilità si traduca in un vizio della sentenza emessa all’esito del giudizio.
La sentenza impugnata, che ha escluso la nullità in parola, è pertanto immune da censure.
6. Il secondo motivo è inammissibile. Oggetto nel presente giudizio è la sentenza pronunciata in grado di appello. La supposta nullità del giudizio di primo grado avrebbe soltanto comportato, se riconosciuta dalla corte territoriale come richiesto dal motivo, la rinnovazione del giudizio in grado di appello e il riesame ab imis della domanda del curatore, non ricorrendo alcuno dei casi di rimessione al giudice di primo grado.
L’interesse alla questione della nullità del primo giudizio postulava, dunque, che la ricorrente indicasse le questioni di merito che il giudice d’appello non avrebbe affrontato, a causa del rigetto del motivo concernente la nullità della sentenza di primo grado e della conseguente limitazione del suo esame alle questioni specificamente devolute con l’appello.
8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 16 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2012
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