Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 08-06-2012) 16-07-2012, n. 28532 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 12 luglio 2010 il Tribunale di Parma, quale Giudice dell’esecuzione, determinava in anni 5 di reclusione, invocando l’istituto di cui all’art. 671 c.p.p., la pena complessiva applicata a B.C. in virtù di due sentenze emesse nei suoi confronti dallo stesso Tribunale ex art. 444 c.p.p.; in particolare si trattava delle pronunce:

– n. 1147/2008 R. Sent., relativa al processo n. 837/2008 R.G. Dib.

(al quale era stato riunito il n. 941/2008);

– n. 1148/2008 R. Sent., relativa al processo n. 942/2008 R.G. Dib..

Entrambe le sentenze erano state emesse in data 11/12/2008, ed avevano portato alla definizione del giudizio a carico del B. e di altri imputati che, nell’ambito del più complesso procedimento relativo ai fatti accertati a seguito della dichiarazione dello stato d’insolvenza della Parmalat S.p.a., avevano presentato richieste di patteggiamento, incontrando il consenso dell’ufficio del Pubblico Ministero. Quanto al B., in ambedue le occasioni la pena applicata era stata di anni 3 di reclusione, previo riconoscimento della continuazione tra i fatti contestati: nel processo n. 837/2008, il fatto più grave veniva individuato nell’addebito di cui al capo E, paragrafo 1.1, sub A), mentre nel processo n. 942/2008 la pena base era riferita al capo G) di quella rubrica.

Il Tribunale di Parma, investito da una richiesta difensiva a seguito del passaggio in giudicato delle pronunce, ravvisava identità di disegno criminoso fra tutti i reati contestati al B., sottolineando l’omogeneità delle contestazioni e la chiara permanenza del proposito delittuoso in capo all’autore, peraltro in stretta consequenzialità temporale; confermava quindi l’indicazione del reato più grave in quello già ritenuto tale nella prima sentenza, determinando la relativa pena base in anni 4 e mesi 3 di reclusione (previo giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alle aggravanti contestate) ed operando un complessivo aumento in continuazione, per tutti gli altri addebiti, pari ad anni 3 e mesi 2 di reclusione. Perveniva conclusivamente ad una pena finale di anni 5 di reclusione, dichiarata in parte estinta nella misura massima consentita ai sensi della L. 31 luglio 2006, n. 241.

2. Avverso la richiamata ordinanza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma, denunciando:

– inosservanza ed erronea applicazione di legge, per essere stata applicata la disciplina della continuazione oltre il limite di 3 anni di reclusione, imposto invece dal combinato disposto dell’art. 188 disp. att. c.p.p., e D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 2 ter, comma 6, (introdotto dalla legge di conversione 24 luglio 2008, n. 125).

L’ordinanza oggetto di ricorso aveva peraltro rigettato in via preliminare un’eccezione spiegata dal Pubblico Ministero, volta a far dichiarare l’inammissibilità dell’istanza difensiva, fondata sugli stessi argomenti riproposti nell’atto di impugnazione;

– violazione di legge ed omessa motivazione con riguardo:

a) alla ritenuta congruità della pena applicata al B., malgrado il diniego di consenso da parte del P.M., espresso ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.p.;

b) alle modalità di determinazione degli aumenti di pena ex art. 81 cpv. c.p.;

c) alla mancata considerazione, ai fini della suddetta determinazione degli aumenti di pena base, dei reati oggetto del processo n. 837/2008, ulteriori e diversi da quello rubricato al capo E).

3. La Corte di Cassazione, Sezione 1^, con sentenza n. 486 dell’08/02/2011, annullava l’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Parma, ritenendo fondato il motivo di gravame concernente i singoli reati in continuazione ed i relativi aumenti di pena. Dopo avere infatti disatteso il primo motivo di ricorso, escludendo che il limite di 3 anni introdotto dalla normativa del 2008 potesse avere incidenza alcuna sulla disciplina dettata dall’art. 188 disp. att. c.p.p., e sul generale limite di 5 anni ivi previsto per il patteggiamento in sede esecutiva, la Corte rilevava testualmente come fosse "assente (…) nell’ordinanza impugnata l’individuazione dei reati in continuazione, interna ed esterna, sul reato più grave indicato in quello di cui al capo E 1.1 sub A) del proc. n. 837/2008 e dei corrispondenti aumenti di pena (sia pure, eventualmente, nei limiti della pena finale come già individuata)".

4. Il Tribunale di Parma, in diversa composizione, pronunciava nuova ordinanza il 17/06/2011, all’esito di rituale udienza camerale.

Nel provvedimento, premesso che il precedente ricorso per cassazione aveva avuto soltanto parziale accoglimento nei limiti sopra evidenziati, si dava atto che l’ordinanza già impugnata doveva pertanto intendersi confermata quanto al resto, con particolare riferimento ai termini in cui era stato interpretato l’art. 188 disp. att. c.p.p.; il Tribunale riteneva quindi congrua la pena finale già determinata, e ribadiva fa quantificazione della pena base in anni 4 e mesi 3 di reclusione, con riguardo ai reato più grave parimenti confermato nel delitto di cui al capo E, paragrafo 1.1, sub A).

Prima di passare alla quantificazione dei singoli aumenti, dovuti al cumulo giuridico, sulla pena base ora ricordata, il Tribunale rilevava non concretizzarsi "il rischio, paventato in udienza dal Pubblico Ministero, di reiterazione e, per così dire, moltiplicazione dei benefici connessi all’applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto l’effetto riduttivo rispetto alla mera addizione delle pene comminate con le due sentenze nn. 1447 e 1448 del 2008 deriva, viceversa, proprio dall’applicazione della disciplina ex art. 671 c.p.p., all’esito della quale va operata l’ulteriore diminuzione di un terzo per il rito in relazione a tutti i reati avvinti dal nesso di continuazione".

I singoli aumenti venivano quindi analiticamente indicati, con riferimento ai reati contestati ai capi A), B), C), D), J), L), M), O) ed R) del processo n. 837/2008, ed a quelli di cui alla rubrica del processo n. 942/2008, altrettanto partitamente elencati (capi G), H), I), J), K), L), M), N), P), Q), R), S) e T)): il Tribunale segnalava di procedere ad aumenti identici nei casi di analoga natura ed omogenea gravità dei reati. In alcuni casi, peraltro, l’aumento veniva quantificato non già richiamando in termini più o meno espressi la disciplina prevista dall’art. 81 c.p., bensì in virtù dell’aggravamento ai sensi della L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1.

L’entità complessiva degli aumenti dovuti al cumulo giuridico ammontava ad anni 3 e mesi 3 di reclusione, con la conseguente pena finale di anni 5 di reclusione (tenendo conto della già ricordata pena base e della riduzione ex art. 444 c.p.p.).

5. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma ha proposto un secondo ricorso per cassazione, assegnato a questa Sezione secondo gli ordinar criteri di ripartizione degli affari, avverso l’ordinanza dello stesso Tribunale adottata a seguito del precedente annullamento con rinvio.

5.1 Il ricorrente deduce innanzi tutto mancanza o contraddittorietà della motivazione del provvedimento impugnato, in quanto non contenente le ragioni per cui sarebbe stato ritenuto ingiustificato il dissenso del Pubblico Ministero sull’istanza difensiva: ragioni che invece, in ossequio alle previsioni dell’art. 188 disp. att. c.p.p., avrebbero dovuto essere puntualmente esposte, avendo quell’ufficio del P.M. costantemente espresso un motivato dissenso sull’accoglimento della richiesta presentata nell’interesse del B., da ultimo in occasione dell’udienza camerale del 17/06/2011. Il Procuratore della Repubblica lamenta altresì che, qualora si volesse intendere motivata l’ordinanza in esame, sul punto, attraverso il mero richiamo all’equità della pena comminata, si tratterebbe di motivazione meramente apparente e comunque contraddittoria: da un lato, il Tribunale avrebbe adottato la propria decisione richiamando l’istituto di cui al più volte menzionato art. 188 disp. att. c.p.p., ma di fatto determinando la pena ritenuta congrua in ossequio al solo principio del libero convincimento (come se dunque si fosse trattato di un ordinario caso di continuazione in executivis ai sensi dell’art. 671 c.p.p.); dall’altro, risulta essere pervenuto ad una pena finale complessiva superiore rispetto a quella indicata come finale nell’originario incidente di esecuzione, pari ad anni 3 e mesi 2 di reclusione.

5.2 Con il secondo motivo il ricorrente si duole dell’inosservanza e della erronea applicazione dell’art. 81 c.p., comma 2, e L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, nonchè della manifesta illogicità della motivazione quanto alla determinazione dell’entità dei singoli aumenti di pena.

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma evidenzia che la corretta applicazione degli istituti sopra richiamati avrebbe dovuto comportare, sulla pena base correttamente determinata, aumenti non correlati ai diversi capi d’imputazione, bensì al numero delle società del "gruppo Parmalat" dichiarate fallite od in stato di insolvenza, tenendo conto per ciascuna di queste delle eventuali aggravanti contestate, ivi compresa quella concernente la pluralità dei fatti di bancarotta emersi in una medesima procedura concorsuale. Applicando invece il computo fatto proprio dal Tribunale, si è pervenuti a risultati erronei o comunque illogici, in quanto:

– con riguardo alle società Parmalat s.p.a. e Parmalat Finanziaria s.p.a. sarebbe stato assunto il capo M), concernente un addebito di bancarotta semplice, per la determinazione della pena base, mentre altri e più gravi fatti di bancarotta avrebbero comportato soltanto aumenti L. Fall., ex art. 219;

– con riguardo alla bancarotta della società olandese Parmalat Finance Corporation B.V., vi sarebbe stato il computo di un aumento per effetto della continuazione, quando invece si trattava del reato già assunto quale fatto complessivamente più grave, in ordine al quale (stante l’espressa indicazione del giudizio di equivalenza fra circostanze di segno contrario) sarebbe stato anche precluso ogni aumento per eventuali aggravanti;

– non sarebbero stati presi in considerazione i fatti di bancarotta concernenti due società, la Hit.com s.p.a. e la Agis s.p.a., atteso che per i reati di cui ai capi G) ed H) della rubrica del processo n. 942/2008 risultano operati soltanto aggravamenti di pena ai sensi del più volte ricordato L. Fall., art. 219;

– sarebbe stato indicato un aumento in continuazione relativamente al capo J) del processo n. 942/2008, quando invece per tale addebito era intervenuta sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p..

6. Il difensore di B.C. ha depositato memoria con la quale, ricostruite le scansioni del proposto incidente di esecuzione, sollecita il rigetto del ricorso avanzato dal Pubblico Ministero.

6.1 In primo luogo, sul presunto difetto di motivazione che caratterizzerebbe l’ordinanza impugnata quanto alla mancata esposizione delle ragioni per cui sarebbe stato ritenuto non giustificato il dissenso espresso dal Procuratore della Repubblica, la difesa rappresenta che l’accoglimento del primo ricorso da parte della Corte di Cassazione era stato soltanto parziale, e limitato all’omessa individuazione dei reati per i quali operare i relativi aumenti di pena base. Detto motivo di ricorso, pertanto, deve intendersi essere stato non accolto già all’atto della prima pronuncia del giudice di legittimità.

6.2 Quanto all’entità della pena complessiva, rilevatane la modesta divergenza rispetto alla sanzione che sarebbe derivata dal cumulo materiale delle pene applicate nelle due sentenze di patteggiamento, la difesa sostiene che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma non può dirsi legittimato ad impugnare l’ordinanza rilevando che la pena sarebbe superiore a quella richiesta al momento della proposizione dell’incidente di esecuzione.

6.3. In ordine alla presunta, erronea applicazione dell’art. 81 c.p., e L. Fall., art. 219, nella memoria difensiva si evidenzia la carenza di interesse del Pubblico Ministero a ricorrere non già con riguardo al quantum degli aumenti di pena, bensì laddove si tratti di "ottenere una formula differente del diritto positivo applicato".

Inoltre, alla luce dei principi espressi da Cass. Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy, deve considerarsi che la norma di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, non integra una circostanza aggravante in senso proprio, ma regola in termini peculiari per i reati fallimentari l’operatività della continuazione criminosa, in deroga a quanto previsto nel Libro I del codice penale pur dopo la riforma del 1974, tanto che l’istituto viene comunemente definito come descrittivo di una "continuazione fallimentare". Ne deriva che non vi è alcun ostacolo, anche in sede di incidente di esecuzione ex art. 671 c.p.p., all’applicazione della norma in esame nei termini fatti propri dal Tribunale di Parma, fermo restando, ad avviso della difesa, che "stante l’omogeneità di ratio degli aumenti di pena operati dal Giudice dell’esecuzione (…), anche laddove si volesse ritenere che nell’ordinanza impugnata sia stato commesso un errore nell’individuazione del dato di diritto positivo, per ciò solo non sono travolti gli effetti del calcolo stesso, ben potendosi, anche solo modificando la mera dizione giuridica, giungere allo stesso risultato".
Motivi della decisione

1. Si ritiene doverosa una considerazione di carattere preliminare sull’inquadramento normativo dell’istanza sottoposta al Tribunale di Parma nell’interesse del B., alla luce di alcune delle osservazioni formulate dal P.M. nel primo motivo di ricorso.

L’originaria richiesta, in vero, richiama soltanto l’istituto di cui all’art. 671 c.p.p., e non invece la peculiare previsione in tema di concorso formale o reato continuato nel caso di più sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti: nel contempo, però, il difensore del condannato non si limita a sollecitare il Giudice dell’esecuzione a ravvisare identità di disegno criminoso fra gli addebiti contestati nelle due sentenze dell’11/12/2008, rimettendosi dunque al Tribunale sulla determinazione del quantum in punto di aumenti di pena base e di sanzione complessiva, ma al contrario prospetta il risultato finale dell’operazione di cumulo giuridico che propone.

In concreto, e al di là delle intitolazioni formali, la richiesta difensiva ha dunque un contenuto riconducibile nell’alveo della previsione ex art. 188 disp. att. c.p.p.: nè avrebbe potuto essere diversamente, del resto, in quanto nei confronti del B. risultavano emesse soltanto sentenze di patteggiamento.

Occorre tuttavia chiedersi, a questo punto, non solo entro quali limiti e con quali obblighi di motivazione il Giudice dell’esecuzione possa superare il dissenso espresso dal Pubblico Ministero (tema su cui il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma torna ad insistere pur dopo il primo intervento di questa Corte, sopra ricordato), laddove giunga a determinare la sanzione complessiva conformemente alla richiesta del condannato; bensì, ancor prima, se il Giudice dell’esecuzione investito a seguito di un’istanza ai sensi del citato art. 188 sia libero di operare il computo degli aumenti dovuti al cumulo giuridico e di indicare la pena finale anche in termini diversi rispetto al contenuto della richiesta medesima.

Nel caso in esame, infatti, il B. aveva chiesto in prima battuta che venisse applicata nei suoi confronti la pena di anni 3 e mesi 2 di reclusione, senza mai incontrare il consenso del Procuratore della Repubblica: in base al dettato normativo, il Tribunale – motivando sulle ragioni a sostegno della non condivisibilità del dissenso del P.M. – ben avrebbe potuto applicare al condannato tale pena, ma cosi non è avvenuto. Sia con la prima decisione che con quella conseguente all’annullamento disposto da questa Corte, la pena finale è stata determinata nella misura di anni 5 di reclusione: nell’ordinanza del 12/07/2010, più in particolare, anni 3 e mesi 2 di reclusione furono indicati non già quale risultato del computo complessivo, bensì come somma degli aumenti da effettuare sulla pena base di anni 4 e mesi 3 (per il reato ritenuto più grave) prima della riduzione ex art. 444 c.p.p., evidentemente da intendersi operata in misura di poco inferiore al massimo consentito.

Viene dunque da chiedersi se ciò sia possibile, dal momento che in sede di giudizio di cognizione non sarebbe certamente rituale l’applicazione di una pena eccedente la richiesta dell’imputato, quand’anche venisse superato il mancato consenso del P.M. con una pronuncia all’esito del dibattimento di primo grado o in sede di impugnazione, nelle ipotesi previste dall’art. 448 c.p.p..

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma, nel ricorso oggi in esame, manifesta implicitamente il proprio avviso contrario sul quesito appena rilevato, dal momento che tra i profili di illegittimità della decisione evidenzia come il Giudice dell’esecuzione sia giunto ad applicare una pena superiore rispetto a quella che lo stesso condannato aveva richiesto; la difesa, invece, nulla obietta sul punto, ed anzi fa presente come il P.M. non abbia interesse a dedurre tale ipotetico vizio.

Ritiene la Corte che, nell’ipotesi di una istanza di riconoscimento della continuazione fra reati giudicati con distinte sentenze di applicazione di pena su richiesta, il Giudice dell’esecuzione possa comunque prescindere dal computo indicato dalla parte che promuove l’incidente, se ritenuto incongruo (anche laddove sia stato acquisito il consenso del Pubblico Ministero, ed a fortiori qualora il consenso non vi sia), e determinare la pena complessiva, una volta effettivamente ravvisata identità di disegno criminoso fra i vari addebiti, in base ai criteri generali dettati dall’art. 671 c.p.p.:

con l’unico vincolo, tuttavia, di non poter superare il limite massimo di 5 anni di pena detentiva previsto dalla legge per i casi di patteggiamento, limite che si desume dai già più volte ricordati art. 444 c.p.p., comma 1, (come modificato dalla L. 12 giugno 2003, n. 134) e art. 188 disp. att. c.p.p. (a sua volta novellato per effetto della L. 2 agosto 2004, n. 205).

La soluzione prospettata è del resto in linea con quanto implicitamente già ritenuto dalla Sezione I di questa Corte all’atto del ricordato annullamento con rinvio, quando al Tribunale di Parma venne richiesto di indicare in termini analitici gli aumenti da operare per effetto del cumulo giuridico, ammettendo comunque la possibilità che il risultato finale fosse comunque identico rispetto a quello di anni 5 di reclusione cui si era già pervenuti: entità che, già in quel momento, appariva evidentemente superiore rispetto al contenuto iniziale dell’istanza difensiva.

Ove si consideri il Giudice dell’esecuzione vincolato all’entità della pena proposta, ne deriverebbe – in caso di ritenuta incongruità per difetto della stessa – la sola possibilità di rigettare l’istanza, come previsto in sede di cognizione (soluzione, in quel caso, ineludibile, non essendovi pronunce irrevocabili ma al contrario un processo ancora da celebrare): a quel punto il richiedente potrebbe a) proporre ricorso per cassazione;

b) non assumere iniziative di sorta e vedersi applicare il cumulo materiale delle pene oggetto delle sentenze emesse;

c) presentare un nuovo incidente di esecuzione, indicando una pena finale più elevata.

Appaiono tuttavia di immediata evidenza alcuni profili di irragionevolezza delle conseguenze appena illustrate, a parte quella relativa alla ricorribilità per cassazione: in primis, la necessità di una reiterazione dell’istanza comporterebbe un chiaro pregiudizio in punto di economia processuale, rispetto ad una soluzione che consentisse di pervenire ancor prima allo stesso risultato; inoltre, per chi abbia visto emettere nei propri confronti soltanto pronunce ex art. 444 c.p.p., potrebbero esservi margini di obiettiva disparità di trattamento rispetto ad un soggetto condannato con sentenze emesse all’esito di rito ordinario, come pure di rito abbreviato. Si può pensare al caso di chi sia stato condannato due volte, per reati comunque espressivi del medesimo disegno criminoso, ad anni 3 di reclusione: costui, proponendo un incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 671 c.p.p., potrebbe in cuor suo confidare in una pena complessiva non superiore ad anni 4, senza dover indicare un quantum determinato, ma qualora il Giudice dell’esecuzione operi aumenti ex art. 81 cpv. c.p., più elevati, sino ad un risultato finale di anni 5, il condannato otterrebbe comunque un risultato meno pregiudizievole rispetto al cumulo materiale. Risultato che non potrebbe invece verificarsi in un caso identico, ma in costanza di sentenze di patteggiamento, laddove si reputi che il Giudice non possa discostarsi dal quantum che il richiedente deve comunque esplicitare e che, in ipotesi, abbia appunto indicato in anni 4 di reclusione; consentendo invece al Giudice dell’esecuzione di determinare autonomamente la pena complessiva in misura superiore al richiesto (ma inferiore al cumulo materiale e nel rispetto del limite di legge imposto dal più volte ricordato art. 188), si realizzerebbe per il condannato un effetto comunque favorevole.

Ferma restando, in ogni caso, la ricorribilità per cassazione del provvedimento: da parte dello stesso richiedente, ove consideri immotivata l’eccessività della pena complessivamente applicata, e da parte del P.M., nell’ipotesi che ritenga invece viziata la decisione per essere ancora il trattamento sanzionatorio, per quanto superiore alla richiesta iniziale, eccessivamente modesto (mentre il Pubblico Ministero non sarebbe, come non è nella fattispecie concreta, legittimato a dolersi dell’applicazione di una pena eccedente i termini dell’istanza del condannato).

2. Tanto precisato, il primo motivo di ricorso sollevato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma presenta profili di inammissibilità. Oltre a quanto appena evidenziato in punto di interesse alla proposizione del gravarne; va infatti considerato che il problema della presunta, mancata motivazione del Giudice dell’esecuzione sul perchè dovrebbe ritenersi ingiustificato il dissenso del P.M. risulta essere già stato affrontato all’atto del primo ricorso, e deve dunque intendersi essere stato risolto – espressamente o meno – dalla Sezione I di questa Corte. Con la sentenza dell’08/02/2011, veniva chiarito l’errore interpretativo in cui era incorso il ricorrente quanto alla invocata applicabilità al caso concreto del limite di 3 anni previsto dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, quindi era stabilito l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata esclusivamente a proposito della mancata enunciazione dei singoli aumenti di pena operati per effetto della ravvisata continuazione: non era perciò analizzata – dovendosi pertanto dedurre essersene ritenuta l’infondatezza, non foss’altro per avere la Corte segnalato la già menzionata possibilità di riformulare il computo pervenendo a identico risultato – la questione concernente il dissenso espresso dal P.M..

Va osservato, peraltro, che una pur essenziale motivazione del Tribunale relativamente alle censure mosse dal P.M. quanto all’accoglibilità dell’istanza difensiva si rinviene laddove si da atto che il collegio ritiene non concretizzarsi il rischio, paventato appunto dal Procuratore della Repubblica, di moltiplicazione dei benefici connessi all’applicazione della pena su richiesta delle parti.

3. Il secondo motivo di ricorso è invece parzialmente fondato, nei termini appresso evidenziati.

Come correttamente illustrato dal P.M. ricorrente, il Tribunale di Parma ha effettuato il computo indicando la pena base di anni 4 e mesi 3 di reclusione in ordine al reato contestato al capo E), paragrafo 1.1, sub A), del primo processo, che riguarda una condotta di bancarotta fraudolenta verificatasi quanto alla società Parmalat Finance Corporation BV; ha poi operato aumenti di pena, in alcuni casi, con la dicitura "in ragione dell’aggravamento" ai sensi della L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, mentre in altri gli aumenti non sono stati ricondotti ad alcuna previsione normativa, dovendosi intendere riferiti all’istituto della continuazione criminosa ex art. 81 cpv. c.p.. Questi ultimi, a ben guardare, riguardano soltanto:

– il reato associativo di cui al capo A) della rubrica del proc. n. 837/2008 R.G. Dib.;

– i reati di bancarotta (semplice) contestati al capo M) nel medesimo processo, da riferire comunque a società diverse dalla Parmalat Finance Corporation BV;

– nell’ambito del proc. n. 942/2008 R.G. Dib., i reati sub;

– I), bancarotta aggravata con riferimento alla società Going Tour Operator S.p.a., dichiarata in stato di insolvenza;

– J), concorso in falsa perizia;

– K) ed M), bancarotta aggravata con riferimento alla società Hit S.p.a., dichiarata in stato di insolvenza;

– N), bancarotta aggravata con riferimento alle società Hit S.p.a. e ITC & P. S.p.a. (poi nuovamente denominata Hit International S.p.a., a sua volta dichiarata in stato di insolvenza).

Quanto ai reati diversi dalla bancarotta, certamente da computare con le regole dei cumulo giuridico, nulla quaestio sul delitto di cui all’art. 416 c.p.; si registra invece un errore nel quale è incorso il Tribunale di Parma a proposito dell’addebito ex art. 373 c.p., che fu effettivamente oggetto di sentenza di non luogo a procedere e che pertanto non avrebbe dovuto essere affatto considerato per un ulteriore aumento di pena base.

Ricorrendo soltanto tale vizio, non sarebbe necessario un nuovo annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata, ben potendo questa Corte espungere dal computo i 30 giorni di reclusione – da ridurre a 20 in virtù della diminuzione per il rito – applicati dal Giudice dell’esecuzione in ragione del delitto appena segnalato; tuttavia, la decisione deve reputarsi viziata anche per erronea applicazione di legge sostanziale sotto altri profili.

Non può condividersi, in vero, l’assunto della difesa del B. circa la dedotta irrilevanza di un aumento di pena operato ex art. 81 cpv. c.p., piuttosto che per essere stata ritenuta una pluralità di fatti di bancarotta; nè appare corretta la lettura che la memoria difensiva suggerisce a proposito dei principi di diritto espressi nella sentenza delle Sezioni Unite, ivi ricordata. Parlare infatti di "continuazione fallimentare", per evidenziare la scelta del legislatore di regolamentare in termini peculiari la disciplina del concorso di reati nei casi di bancarotta, non significa affatto che nell’ambito di un incidente di esecuzione ex art. 671 c.p.p., o art. 188 disp. att. c.p.p., può essere indifferente invocare la normativa speciale piuttosto che le previsioni contenute nella parte generale del codice penale.

Le Sezioni Unite (sent. n. 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv 249665) insegnano che "in tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell’ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dalla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all’art. 81 c.p.". Del principio appena riportato meritano di essere sottolineati due aspetti fondamentali: 1) si tratta di una disciplina derogatoria rispetto alla norma generale, e 2) in tanto vale in quanto le presunte plurime condotte di bancarotta siano avvenute nell’ambito della medesima procedura concorsuale.

3.1 Se dunque è una previsione in deroga, al di là del rilievo che sul piano strutturale debba riconoscersi o meno alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, natura di circostanza aggravante, è innegabile che quella ne sia la disciplina, ben diversa rispetto alle regole del cumulo giuridico ex art. 81 c.p., che valgono per gli ordinari casi di reati commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso:

disciplina che contempla, fra l’altro, il ricorso al giudizio di comparazione fra circostanze di segno contrario, ai sensi dell’art. 69 c.p..

Nel caso in esame, però, si rileva che in sede di giudizio di cognizione, già nel processo n. 837/2008 (dove si rinveniva la contestazione del reato considerato più grave anche per il riconoscimento della continuazione in sede esecutiva) erano state riconosciute in favore del B. le circostanze attenuanti generiche, "ritenute equivalenti alle aggravanti contestate";

analogamente era accaduto nel processo n. 942/2008, dove il computo per l’istanza di applicazione di pena su richiesta risultava effettuato "previa concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti a tutte le aggravanti contestate".

La stessa ordinanza de Tribunale di Parma del 12/07/2010 operava gli aumenti di pena base – su quella applicata per il delitto di cui al capo E), par. 1.1, sub A) dell’originaria rubrica – dando atto di ritenere "equivalenti le circostanze attenuanti generiche", evidentemente rispetto alle aggravanti contestate; e l’ordinanza oggi impugnata si esprime in termini identici, ma ancora più chiari su come dovrebbe intendersi effettuato il computo ("determinata la pena base in anni 4 e mesi 3 di reclusione, ritenute equivalenti le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., aumentata la pena ex art. 81 c.p., per tutti i reati sopra elencati di anni 3 e mesi 3 di reclusione, ridotta per il rito alla pena finale di anni 5 di reclusione").

Tuttavia, a quel complessivo aumento di anni 3 e mesi 3 concorrono non soltanto operazioni di cumulo giuridico in senso proprio, ma anche singoli aumenti effettuati in aggravamento, in virtù della circostanza di cui al più volte segnalato art. 219: il che non può ritenersi corretto, alla luce di un giudizio di comparazione fra aggravanti ed attenuanti costantemente confermato nel senso dell’equivalenza.

3.2 Va poi considerato che in tanto può discutersi dell’aggravante relativa alla pluralità dei fatti di bancarotta in quanto ci si riferisca all’identico fallimento, come ribadito nella pronuncia delle Sezioni Unite sopra ricordata: laddove esistano più condotte riconducibili alle fattispecie astratte di cui alla L. Fall., artt. 216 o 217, verificatesi nell’ambito di una sola procedura concorsuale, viene ad operare il regime derogatorio alle regole in tema di continuazione che si è appena descritto, ma non altrettanto accade quando uno stesso soggetto debba ritenersi responsabile di diversi episodi di bancarotta da riferire a più società fallite (ovvero sottoposte ad altra procedura concorsuale o dichiarate in stato di insolvenza). In quest’ultima ipotesi, ove si reputi più grave un reato commesso a proposito del fallimento della società A, vi potrà essere aggravamento di pena L. Fall., ex art. 219, quanto alle ulteriori condotte di bancarotta relative allo stesso fallimento (in difetto di eventuali attenuanti da considerare almeno equivalenti), ma per altri reati commessi con riguardo ai fallimenti delle società B e C dovranno intervenire aumenti di pena ai sensi dell’art. 81 c.p., comma 2.

In proposito, la giurisprudenza di questa Corte è pacificamente orientata nella direzione appena indicata, essendo consolidata l’interpretazione secondo cui "la pluralità di atti di bancarotta è considerata, ai sensi della L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, come semplice circostanza aggravante del reato (assoggettata all’ordinario giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti) solo all’interno del medesimo procedimento concorsuale; ne consegue che, nel caso in cui le dichiarazioni di fallimento siano plurime ed autonome, le rispettive condotte illecite realizzano una ipotesi di concorso di reati, con applicazione del cumulo materiate delle pene, ovvero, se ne sussistono i presupposti, dell’istituto della continuazione" (Cass., Sez. 5^, n. 31408 del 04/06/2004, Melloni, Rv 229277; v. anche Cass., Sez. 5^, n. 10423 del 22/05/2000, Piana, Rv 218384).

E’ peraltro evidente che, qualora intervenga giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto all’eventuale aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, in ipotesi ravvisabile per tutti i fallimenti, non si potrà tenere conto di detta aggravante nè con riguardo alle condotte relative alla società A nè a proposito dei fatti commessi nell’ambito delle società B e C: si dovrà invece operare un solo aumento ex art. 81 cpv. c.p., per ogni fallimento (o diversa procedura concorsuale) ulteriore al primo, con la sola possibilità che un’eventuale maggior gravità concreta dovuta alla iterazione di condotte criminose incida sul quantum nella determinazione del singolo aumento di pena base.

Applicando tali principi al caso in esame, si rileva – conformemente alle osservazioni del Pubblico Ministero – che vi sono reati contestati al B., commessi in relazione a società fallite o dichiarate in stato di insolvenza, per i quali sono stati operati aumenti in aggravamento di pena ex art. 219 (il che non sarebbe stato possibile, visto il giudizio di equivalenza rispetto alle circostanze attenuanti generiche), senza invece che venisse determinato l’aumento di pena per il cumulo giuridico, trattandosi di società diverse da quella per cui era stato individuato il reato più grave e indicata la relativa pena base. Riprendendo l’esemplificazione del P.M. ricorrente, si possono indicare le società Emmegi Agroindustriale, di cui al capo J), e Sata capo R), quanto al processo n. 837/2008;

ovvero la Hit.com e la Agis capi G) ed H), per il proc. n. 942.

4. Deve essere pertanto disposto l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale di Parma per nuovo esame; il Giudice dell’esecuzione dovrà:

– non considerare aumenti di pena base in ordine al reato di cui al capo J) del proc. n. 942/2008, essendovi stata sentenza ex art. 425 c.p.p.;

– effettuare il computo per la determinazione della pena:

– non considerando aumenti per effetto della L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, dal momento che già in sede di cognizione intervenne in favore del B. giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p., rispetto alle aggravanti contestate;

– operando un aumento ai sensi dell’art. 81 c.p., comma 2, (oltre che per l’addebito concernente il reato associativo) per ciascuna delle società fallite o dichiarate in stato di insolvenza, od altrimenti sottoposte a procedura concorsuale, in relazione alle quali si assume che il B. commise reati di bancarotta.
P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Parma per nuovo esame.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2012

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