Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
Motivi della decisione
Va anzitutto disposta la riunione dei ricorsi.
L’avv. Lino Diana ha chiesto la cancellazione (in quanto espressioni sconvenienti ed offensive; ex art. 89 c.p.c.) di vari apprezzamenti esposti dalla controparte nella sua memoria datata 15.5.2009.
L’istanza non appare accoglibile.
Va infatti ribadito il seguente principio di diritto: “La sussistenza dei presupposti per la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi prevista dall’art. 89 cod. proc. civ., che può essere disposta anche nel giudizio di legittimità, rientrando fra i poteri officiosi del giudice, va esclusa allorquando le espressioni contenute negli scritti difensivi non siano dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte, ma, conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento della controparte, la scarsa attendibilità delle sue tesi e affermazioni (nella fattispecie la S.C. ha ritenuto che non esulassero dalla materia del contendere e dalle esigenze difensive le espressioni: “un’incredibile persecuzione giudiziaria”, “persecuzione”, “invenzioni processuali”, “tendenziose”, “abili manovre”, “gratuite affermazioni”, “frode”). (Cass. Sentenza n. 805 del 20/01/2004).
Alla luce di detto principio deve ritenersi che espressioni come “…la prospettazione di fatti diversi da quelli reali e provati…”, “…Controparte volutamente e in malafede ignora…”, “…mala fede avversaria…”, “…La prospettazione fattuale viene, forse volutamente, travisata” e simili, anche se non educate (e quindi certamente da evitare), non rivelino un vero ed effettivo intento offensivo nei confronti della controparte, ma siano solo preordinate a confortare le critiche all’assunto avversario; e non rientrino quindi nella fattispecie prevista dall’art. 89 cit.
Ciò premesso, sembra opportuno iniziare con il considerare il ricorso incidentale poiché riguarda (anzitutto) l’an debeatur.
Con i primi due motivi la provincia di Frosinone denuncia “Omessa, illogica e contraddittoria motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.) anche sub specie del mancato e comunque insufficiente esame di risultanze probatorie costituenti punti decisivi della controversia”, nonché “violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c) di norme di diritto: articoli 115 e 116 c.p.c., artt. 1227, 2043, 2697 e 2700 C.C. nonché art. 2712 C.C.” esponendo doglianze che vanno riassunte come segue.
A – La Corte d’Appello di Roma ha omesso di considerare che il Sig. P. M. era nato e residente in omissis, alla Via omissis e cioè nei pressi del luogo dell’incidente. Tali circostanze risultano sia dall’atto di citazione in appello dell’odierno ricorrente P., sia dal rapporto dei Carabinieri, sia dalla memoria di costituzione dell’attore in relazione all’appello incidentale del 16.09.2002. Il Sig. P. M., quindi, doveva aver percorso la strada in questione centinaia di volte e la conosceva perfettamente perché era la strada che porta al centro urbano di omissis. Le valutazioni fatte dalla Corte d’Appello nella parte motiva sono palesemente illogiche e contraddittorie. Una volta che, rettamente, la Corte di merito ha trattato e definito la fattispecie in esame quale responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) facendo espresso riferimento al concetto di insidia o trabocchetto doveva tenere presente i principi di diritto in materia. In particolare ha rilevato, essa stessa, che i requisiti della imprevedibilità e non visibilità del pericolo non ricorrevano né congiuntamente, né disgiuntamente ma, ciò nonostante, ha attribuito alla Provincia una responsabilità pari al 50%.
B – La Corte d’Appello ha poi ritenuto che “’Tuttavia, a dimostrare la notevole entità del dislivello stanno le puntuali risultanze del rapporto dei carabinieri, nel quale si riferisce espressamente che nella curva vi era “un forte avvallamento della sede stradale ..”. Cosi decidendo la Corte d’Appello ha posto alla base del suo convincimento il contenuto del rapporto dei CC di G. di R. che, però, non contiene l’accertamento di un solo dato di fatto ma solo degli apprezzamenti sulla pericolosità della strada, che la Corte d’Appello non poteva valutare come decisivi ai fini probatori, sia perché non sorretti da adeguate valutazioni tecniche sia perché assolutamente generici. V’è da aggiungere che la fede privilegiata riconosciuta dal legislatore all’atto pubblico non si estende agli apprezzamenti e valutazioni in esso contenuti.
C – La Corte d’Appello di Roma ha letteralmente sollevato l’attore dall’onere della prova in ordine alla imprevedibilità e non evitabilità della presunta insidia. All’udienza del 6.6 94 “l’Avv. Giannaccari, quale Procuratore della Amm.ne Provinciale … esibisce e deposita n. 10 fotografie, scattate in data omissis attestanti sia lo stato dei luoghi del sinistro sia le condizioni del manto stradale, nonché segnaletica ivi presente, da lunga data anteriore all’evento de quo (sarà sufficiente esaminare la corrosione recente sulla segnaletica fotografata). Il procuratore di parte convenuta, preso atto delle risultanze istruttorie, in particolare del rapporto dei carabinieri, fa rilevare come non si possa certamente sostenere che la velocità tenuta da controparte fosse nei limiti dettati dalle più elementari norme di prudenza e, senz’altro, non nel rispetto della segnaletica da sempre ivi presente. L’Avv. Floridi contesta la produzione fotografica odierna dal momento che non si rilevano nelle foto quei segnali specifici che avrebbero dovuto evidenziare il vero stato di pericolo di quel tratto di strada in cui si verificò il sinistro”. Il mancato disconoscimento da parte del P. della documentazione fotografica prodotta dalla Amm.ne Provinciale era stato puntualmente rilevato dalla convenuta Amministrazione Provinciale con apposito motivo di appello nella propria comparsa di costituzione ed appello incidentale del 25.07.2002. Pertanto ha errato la Corte di merito e violato i principi di diritto esposti nel ricorso. Non emergeva, infatti, da alcun atto del giudizio:
– la data in cui furono scattate le foto prodotte dall’attore P., su cui gravava l’onere di fornire quella prova, e non potevano, quindi, nemmeno considerarsi prova documentale, né l’attore stesso ha mai fatto deduzione alcuna a riguardo;
– l’attore non ha mai contestato né dedotto che le foto prodotte dalla A.P. convenuta si riferissero ad altro tratto di strada o ad epoca successiva al sinistro anzi, alla udienza del 6.6.94 (supra) l’Avv. Floridi, per l’attore, si limitò ad una generica contestazione che esplicitamente dava atto della presenza in loco, all’epoca del sinistro, di quei segnali stradali riprodotti nelle fotografie depositate dalla A.P. convenuta;
– era comunque l’attore a dover dimostrare, oltre che dedurre (artt. 2043 – 2967 e 2712 C.C. – 115 e 116 c.p.c.) la riferibilità delle foto da lui prodotte alla epoca ed al luogo del sinistro sicché l’affermazione della Corte “Invero, le fotografie prodotte dalla Provincia risalgono al omissis, mentre quelle prodotte dal P. sono di epoca antecedente, essendo state allegate alla citazione di primo grado, che è del maggio 1990” appare palesemente emessa in violazione delle norme di diritto poiché, per quel che risultava agli atti, le stesse foto potevano ben risalire anche a svariati anni prima del sinistro e, quindi ad una ben differente situazione dei luoghi.
Ma l’attore non ha mai fondamentalmente disconosciuto le foto prodotte dalla Amministrazione Provinciale, sia quelle allegate alla comparsa di costituzione e risposta in 1° grado del 6.7.90, sia quelle esibite e depositate alla più volte menzionata udienza del 6.6.94. L’Amministrazione Provinciale di Frosinone convenuta, nella sua prima difesa, cioè la comparsa di costituzione e risposta del 6 luglio 1990 ha espressamente disconosciuto, nelle forme ritenute legittime dalla Suprema Corte, le foto allegate dal P. all’atto di citazione. Indi, alla prima udienza del 6 luglio 1990 avanti il Tribunale l’Avv. Giannaccari si costituiva per la A.P. di Frosinone e “nel riportarsi integralmente a quanto controdedotto nell’atto di risposta, …chiede l’acquisizione …della seguente documentazione …c) rapporto della divisione tecnica della Amministrazione Provinciale di Frosinone sulla segnaletica installata sul luogo del sinistro”. Poi, all’udienza del 6.6.94 l’Amm.ne Provinciale ha depositato le 10 fotografie di cui sopra. Orbene, la Corte d’Appello adita ha errato quando, di fronte alle tempestive allegazioni della Amm.ne Prov.le di Frosinone, ha postulato che potesse ravvisarsi un “contrasto” tra la documentazione fotografica allegata dal P. all’atto di citazione, priva di data ed espressamente disconosciuta dalla A.P. convenuta nel primo atto difensivo mediante allegazione di fotografie “dirette a neutralizzare l’efficacia probatoria della riproduzione” e la documentazione fotografica prodotta invece, in più riprese, dalla stessa Amministrazione Provinciale di Frosinone, mai disconosciuta, (anzi espressamente riconosciuta) e facente piena prova. Si sottraeva quindi, (per il combinato disposto degli artt. 2712 C.C. e 116 c.p.c.) all’apprezzamento discrezionale della Corte d’Appello la risoluzione dell’asserito contrasto che non poteva sussistere a fronte di una documentazione fotografica facente piena prova contro il P. per i suesposti motivi. Tra l’altro, il vizio di motivazione nonché di falsa applicazione delle norme di diritto sul punto appare anche laddove si esamini la lettera dell’affermazione contenuta nella sentenza della Corte d’Appello “Essa assume di avere istallato prima del fatto i segnali che si rilevano nelle fotografie prodotte …ma il P. lo contesta, producendo fotografie nelle quali non si rileva la presenza di segnali di sorta. Invero, le fotografica prodotte dalla Provincia risalgono al omissis, mentre quelle prodotte dal P. sono di epoca antecedente, essendo state allegate alla citazione di primo grado, che è del maggio 1990”. Le uniche fotografie prodotte dal P. sono quelle “allegate alla citazione di primo grado, che è del maggio 1990” (prive di data e di qualunque riferibilità temporale alla data del sinistro) mentre la produzione fotografica ad opera della Amministrazione Provinciale è successiva, unita dapprima alla comparsa di costituzione del 6.7.90 indi (altra) prodotta all’udienza del 6.6.94: la ritenuta contestazione ad opera del P. poteva avvenire solo con un atto successivo al 6.7.90, non potendosi nemmeno pensare ad una contestazione che avvenga validamente con un atto precedente al fatto (giuridico) da contestarsi. Inoltre, la contestazione doveva essere chiara ed esplicita.
I primi due motivi di ricorso non possono essere accolti, in quanto la motivazione esposta dalla Corte di merito è sufficiente (anche se talora implicita), logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.
In particolare va rilevato quanto segue.
La vicinanza tra il luogo di nascita e residenza di M. P. ed il luogo dell’incidente costituisce un punto privo del requisito della decisività in quanto non comporta necessariamente che costui, al momento dell’incidente, avesse recentemente “…percorso quella strada centinaia di volte…” e dovesse quindi conoscere bene lo stato dei luoghi; e comunque non è incompatibile con l’affermata responsabilità concorrente della Provincia e del P..
Quanto al concetto di insidia o trabocchetto emergente dalla sentenza impugnata, va rilevato che le doglianze sopra riassunte debbono ritenersi infondate sulla base delle seguenti considerazioni.
La Corte Costituzionale, con sent. num. 156 del 1999, ha dichiarato “…non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2043, 2051 e 1227, primo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione”.
Nella motivazione si legge tra l’altro: “..la nozione d’insidia stradale viene a configurarsi come una sorta di figura sintomatica di colpa, elaborata dall’esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, col preciso fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probatorio, secondo un criterio di “semplificazione analitica” della fattispecie generatrice della responsabilità in esame. Se e in quanto il danneggiato provi l’insidia, può e deve essere affermata la responsabilità della pubblica amministrazione, salvo che questa, a sua volta, provi di non aver potuto rimuovere – adottando le misure idonee – codesta situazione di pericolo, i cui elementi costitutivi il giudice ha comunque il compito di individuare in modo specifico (fra l’altro precisando gli standards di diligenza connessi alla visibilità e prevedibilità nonché all’evitabilità del pericolo stesso, in relazione all’uso della strada), onde accertare in definitiva se ricorrano, a stregua delle peculiarità del caso, le condizioni richieste dall’art. 2043 cod. civ.
Che poi, una volta acclarata in tal modo la responsabilità della pubblica amministrazione, di regola risulti inapplicabile l’art. 1227, primo comma, cod. civ., dipende da evidenti ragioni di incompatibilità logica fra un possibile concorso di colpa del danneggiato e la stessa nozione d’insidia, essendo questa contraddistinta appunto dai caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità del pericolo…”.
Probabilmente è stata la frase “…Se e in quanto il danneggiato provi l’insidia, può e deve essere affermata la responsabilità della pubblica amministrazione, salvo che questa, a sua volta, provi di non aver potuto rimuovere – adottando le misure idonee – codesta situazione di pericolo…” considerata isolata dal contesto, ad ingenerare talune affermazione non del tutto chiare e condivisibili in dottrina ed in giurisprudenza.
Basta però leggere la parole successive “…, i cui elementi costitutivi il giudice ha comunque il compito di individuare in modo specifico (fra l’altro precisando gli standards di diligenza connessi alla visibilità e prevedibilità nonché all’evitabilità del pericolo stesso, in relazione all’uso della strada), onde accertare in definitiva se ricorrano, a stregua delle peculiarità del caso, le condizioni richieste dall’art. 2043 cod. civ.) …” per concludere (persino a prescindere dall’ulteriore chiaro contesto) che la Corte Costituzionale non ha affatto inteso affermare che la sussistenza di detta insidia consente di omettere l’accertamento degli elementi della fattispecie prevista dall’art. 2043 c.c.
L’insidia dunque non è né un istituto giuridico, né un elemento di un istituto giuridico, né una situazione di fatto alla quale conseguono sempre e necessariamente determinate conseguenze giuridiche fisse e prestabilite (sul piano probatorio o su altri piani); ma è semplicemente una situazione di fatto che per la sua oggettiva invisibilità e per la sua conseguente imprevedibilità (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 10040 del 29/04/2006) integra una situazione di pericolo occulto (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 20328 del 20/09/2006) indubbiamente di grande importanza probatoria; situazione che il Giudice di merito, con una valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità se immune da vizi logici o giuridici, può considerare come idonea ad integrare una praesumptio hominis di sussistenza del nesso eziologico con l’incidente e di sussistenza della colpa dell’ente o della persona tenuta a vigilare sulla sicurezza del luogo ove l’insidia si è realizzata.
Certamente quasi sempre una siffatta situazione (per la sua estrema rilevanza concreta nella valutazione del predetto nesso e della predetta colpa) è destinata a comportare nella valutazione del Giudicante la presunzione di sussistenza del predetto nesso e della predetta colpa; ma l’applicabilità quasi generale di questa presunzione costituisce un mero dato statistico; e quindi il Giudice di merito può e deve, sempre, anche in presenza di una insidia (o trabocchetto) accertare la sussistenza di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c.; infatti non può escludersi la possibilità che in qualche caso, nonostante l’insidia, il (colposo o doloso) comportamento del danneggiato o di un terzo concorrano a provocare l’incidente (od eccezionalmente assumano addirittura rilevanza causale esclusiva; nel senso che l’insidia, pur oggettivamente esistente, non ha inciso sul particolare nesso eziologico concernente lo specifico incidente in questione).
Con riferimento al danno cagionato da cosa in custodia (va ribadito che la responsabilità del custode disciplinata dall’art. 2051 c.c. costituisce una ipotesi di responsabilità oggettiva e non di colpa presunta; cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 28811 del 05/12/2008 e Cass. Sentenza n. 20427 del 25/07/2008), la circostanza che il custode può liberarsi dalla responsabilità solo provando il caso fortuito e cioè l’intervento di un fatto idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la cosa in custodia e l’evento dannoso (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 993 del 16/01/2009; Cass. Sentenza n. 5741 del 10/03/2009; Cass. Sentenza n. 993 del 16/01/2009), comporta di regola la non essenzialità giuridica di indagini circa la configurabilità dell’insidia; è però incontestabile che quest’ultima, essendo – va ribadito – una mera situazione di fatto, può realizzarsi anche con riferimento ad una fattispecie inquadrabile nell’art. 2051 c.c.; ma in tale ipotesi ha solo l’effetto di caratterizzare in fatto (solo in fatto), in relazione a detta situazione, l’oggetto effettivo e concreto dell’onere probatorio a carico del custode; in quanto quest’ultimo deve dimostrare l’insussistenza del nesso eziologico tra la cosa in custodia che ha prodotto (o nell’ambito della quale si è prodotta) l’insidia, ed il danno; il che, in concreto, equivale a dire l’insussistenza del nesso eziologico tra la custodia della cosa (intesa come signoria materiale o potere di fatto sulla medesima; cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 5741 del 10/03/2009) che ha prodotto (o nell’ambito della quale si è prodotta) l’insidia ed il danno; è cioè, in sostanza, deve provare che il danno è stato determinato in realtà da cause create dal danneggiato o da terzi (come ad esempio la perdita o l’abbandono sulla pubblica via di oggetti pericolosi), non conoscibili né eliminabili con immediatezza da parte del custode, neppure con la più efficiente attività di manutenzione; il che comporta appunto l’insussistenza di detto nesso tra la signoria di fatto sulla cosa da parte del custode (dato che non aveva in concreto un effettivo potere su eventi di tal fatta; in quanto non aveva alcuna possibilità di intervenire in tempo) ed il danno (cfr. Cass. Sentenza n. 15042 del 06/06/2008). In altri termini il caso fortuito deve essere inteso come un fatto (avente la predetta efficacia causale ed) estraneo alla sfera di custodia del soggetto ora citato (cfr. in tal senso la suddetta Cass. Sentenza n. 5741 del 10/03/2009).
La Corte di merito ha sostanzialmente applicato tali principi di diritto; e devono pertanto ritenersi prive di pregio le censure giuridiche sul punto; in particolare va ribadito che tale Giudice, valutando la fattispecie ex art. 2043 (non sussistono censure sull’applicazione di detta norma; va precisato comunque che per il Giudicante sarebbe stato possibile pervenire al medesimo risultato pure valutando detta fattispecie ex art. 2051 c.c.), ben poteva, pur affermando che il manto stradale aveva caratteristiche insidiose, ritenere sussistente un concorso di responsabilità del danneggiato nei limiti e per le ragioni esposte in sentenza.
Infondate sono anche le doglianze logiche e giuridiche concernenti le valutazioni della Corte circa le risultanze istruttorie; ed in particolare quelle concernenti l’art. 2712 cc.
Con riferimento a tale norma, va rilevato quanto segue. È vero che essa prevede una prova legale, ma solo con riferimento ai fatti ed alle cose rappresentate nelle riproduzioni fotografiche; e la provincia ricorrente non assume (né tanto meno assume ritualmente) che la data in cui le foto furono scattate fosse rappresentata nelle medesime. Tanto basta per escludere l’applicabilità dell’art. 2712 cit. con riferimento a dette foto, in relazione alle problematiche circa l’individuazione della situazione dei luoghi (specie relativamente alla segnaletica) al momento dell’incidente.
Permane dunque solo la mera questione della rilevanza dell’atteggiamento processuale assunto dei difensori con riferimento alle attività difensive (soprattutto alle produzioni) della controparte; in particolare con riferimento alla circostanza che la difesa della Provincia aveva prodotto le suddette foto assumendo (di un mero assunto in sostanza si tratta; e ciò emerge proprio dal contenuto del ricorso incidentale) a verbale che rappresentavano la situazione al momento dell’incidente.
A tal proposito si deve però rilevare che si è di fronte (con riferimento agli atteggiamenti processuali di entrambe le parti) a meri (eventuali) elementi di convincimento suscettibili di libera valutazione da parte del Giudice di merito; che nella fattispecie ha operato in modo impeccabile dal punto di vista logico e giuridico.
Con il terzo motivo la ricorrente incidentale provincia di Frosinone denuncia “Violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato (art. 360, n. 4, c.p.c.)” esponendo doglianze da riassumere nel modo seguente. Nel proprio atto di appello del 22 aprile 2002 P. M. aveva chiesto la riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Frosinone in punto di liquidazione del danno risarcibile sostenendo che “… il danno biologico da I.T.T. andava in conseguenza liquidato in lire 37.875.000 (pari ad euro 19.560,81), quello da T.P. in lire 5.000.000 (pari ed euro 2.582, 28) e quello da LP. in lire 657.571.949 (pari ad euro 339.607,57) mentre il danno morale (1/3) in lire 219.190.649 (pari ad euro 113.202,52)” e concludeva sul punto chiedendo “in riforma della sentenza impugnata condannare l’Amministrazione provinciale di Frosinone al risarcimento di tutti i maggiori danni in favore dell’appellante secondo le quantificazioni effettuate e comunque per gli importi ritenuti dovuti o equi con la rivalutazione monetaria dal dì del fatto e gli interessi.”. Ricorre pertanto vizio di ultrapetizione relativamente alla liquidazione del danno biologico operata dai giudici di II grado poiché la parte, nelle conclusioni, ha indicato specificamente una somma, effettuando la precisa determinazione del petitum, con la conseguenza che avendo il Giudice pronunciato condanna oltre detto limite, ha violato il principio i cui all’art. 112 c.p.c. Né varrebbe, in contrario, richiamare la espressione usata dal P. “e comunque per gli importi ritenuti dovuti” come postulante una somma eventualmente superiore a quella indicata, essendo evidente che detta richiesta alternativa può essere riferita unicamente a somma inferiore a quella indicata. La Corte, di fronte ad un danno biologico e morale richiesto dall’appellante nella misura complessiva di euro 474.943,18 (di cui il 50% avrebbe corrisposto ad euro 237.471,59), gli ha invece attribuito, per danno biologico e morale, la somma di euro 251.300,00 (502.600,00 : 2) eccedente di euro 13.828,41 quella richiesta dall’appellante. Si consideri altresì che le somme richieste a titolo di danno biologico dal P. nell’atto di citazione in appello del 22 aprile 2002 (supra) si riferiscono all’attualità e sono comprensive della rivalutazione monetaria: le Tabelle aggiornate al gennaio 2002 del Tribunale di Milano relative al danno biologico negli importi rivalutati al 1° gennaio 2002, recano, per una invalidità del 65% riferita ad una età di 20 anni la somma risarcibile di euro 340.548,31.
Anche il terzo motivo di ricorso è privo di pregio in quanto la Corte ha esposto una motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione. In particolare va rilevato quanto segue: A) la tesi secondo la quale non si potrebbe “…richiamare la espressione usata dal P. “e comunque per gli importi ritenuti dovuti” come postulante una somma eventualmente superiore a quella indicata, essendo evidente che detta richiesta alternativa può essere riferita unicamente a somma inferiore a quella indicata…” è del tutto apodittica e quindi inammissibile prima ancora che priva di pregio; B) altrettanto apodittica e quindi inammissibile (prima ancora che priva di pregio) è la censura fondata sull’assunto secondo cui “…le somme richieste a titolo di danno biologico dal P. nell’atto di citazione in appello del 22 aprile 2002 (supra) si riferiscono all’attualità e sono comprensive della rivalutazione monetaria…”; C) anche a prescindere da quanto ora esposto, la parte ricorrente non considera il lasso di tempo intercorso tra l’atto di appello e la sentenza di appello ed il conseguente aumento delle somme dovute per gli accessori in questione (la sentenza Corte d’Appello di Roma è datata 28.9 – 27.12.04); nella specie la Corte dà evidentemente per scontato che l’appellante aveva chiesto anche tutti gli interessi e tutta la rivalutazione per tutto il tempo successivo alla sentenza di primo grado e la parte ricorrente non contesta ritualmente il punto (comunque cfr. Cass. Sentenza n. 13666 del 17/09/2003: “La rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell’obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d’ufficio ed in grado di appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi compresi nell’originario “petitum” della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente esclusi.”, cfr. anche Cass. Sentenza n. 18653 del 16/09/2004; e Cass. Sentenza n. 975 del 17/01/2007).
Il ricorso incidentale va dunque respinto.
Va ora esaminato il ricorso principale.
Con il primo motivo M. P. denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056, 1223 c.c., 115-114 c.p.c. – Vizio della motivazione per insufficienza e contraddittorietà – Art. 460 n. 3 e 5 c.p.c.” esponendo censure da sintetizzare nel modo seguente.
La Corte Territoriale ha osservato: “Nulla è dovuto per perdita di guadagno futuro in relazione ad una pretesa incidenza della invalidità permanente sulla capacità lavorativa specifica.
Invero, come è pacifico, il P. all’epoca del fatto non svolgeva alcuna attività lavorativa, né possedeva una specifica professionalità da utilizzare in future occupazioni specifiche”.
Il giudizio contiene un grave errore perché di fronte ad un giovane di omissis anni in attesa di prima occupazione con una invalidità del 65% non poteva essere negata l’incidenza sulla capacità lavorativa specifica. Diversamente opinando si dovrebbe escludere il sussistere di danno patrimoniale pur in presenza di fatti che riducono la capacità di produrre reddito e di produrre guadagno. Era stato provato, (fatti peraltro non contestati):
– che il ricorrente ha avuto il congedo militare in data omissis;
– che il sinistro si è verificato l’omissis e quindi dopo tre mesi;
– che nel periodo tra l’omissis e l’omissis aveva percepito un sussidio di lire 395.000 mensili da parte della Prefettura;
– che per gli anni omissis aveva percepito una minima retribuzione della omissis;
– che in data omissis era stato assunto dalla omissis quale invalido civile nel IV livello del Contratto Collettivo categoria Vigilanza Notturna.
Sussisteva, dunque, la prova presuntiva che il P., ove l’incidente non si fosse verificato, avrebbe, entro un brevissimo termine dal congedo militare (indicato in atti in sei mesi) e quindi entro il omissis, iniziato una confacente attività lavorativa quanto meno riconducibile alla categoria OPERAIO.
Il motivo è fondato, e va quindi accolto.
La Corte d’Appello ha evidentemente (pur se implicitamente) basato la sua decisione sulla necessità di una prova rigorosa e specifica della riduzione della capacità lavorativa specifica.
Tale tesi (nelle fattispecie come quella in questione) deve ritenersi giuridicamente errata.
Occorre precisare che con riferimento alla liquidazione del danno patrimoniale futuro di soggetti non ancora produttivi di reddito a causa della giovane (o giovanissima) età sussistono in dottrina e giurisprudenza opinioni non sempre coincidenti.
Certamente è indubbia la validità generale (e quindi anche nelle fattispecie come quella in esame) del principio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) e del principio secondo cui (ex art. 1226 cod. civ.) è consentita la liquidazione equitativa del danno solo se quest’ultimo è provato (o non è contestato) nella sua esistenza e non dimostrabile, se non con grande difficoltà, nel suo preciso ammontare (cfr. su quest’ultimo punto, tra le altre Cass. sent. 12545 del 08/07/2004).
Però il modo con cui tali due principi sono stati applicati ha talora condotto a rendere in sostanza la liquidabilità del danno in questione meramente teorica ma non concretamente realizzabile in pratica.
È in realtà ovvio che è (quasi) sempre impossibile dare la prova rigorosa, precisa ed incontestabile di un danno futuro (e ciò è stato giustamente affermato da molto tempo da parte della giurisprudenza; cfr. tra le tante: Cass. Sentenza n. 495 del 20/01/1987: “Per la risarcibilità del danno patrimoniale futuro è sufficiente la prova che il danno si produrrà secondo una ragionevole e fondata attendibilità, non potendosene pretendere l’assoluta certezza”); infatti, persino se il danneggiato produceva un reddito al momento del sinistro, l’evoluzione successiva della sua capacità di produrlo (ovviamente nell’eventualità che il sinistro medesimo non si fosse verificato) può essere oggetto solo di un giudizio prognostico meramente probabilistico (potrebbe infatti persino accadere che in concreto tale capacità venga successivamente a mancare) basato su presunzioni; la più importante e basilare delle quali è certamente costituita dall’entità del reddito già prodotto.
È palese che tale impossibilità è ancora più evidente nell’ipotesi di danneggiato che al momento del sinistro non produceva reddito, in quanto in tal caso viene meno pure quell’elemento presuntivo che è costituito dall’entità del reddito già prodotto.
Ciò non significa però che tale danneggiato debba sempre e comunque restare privato (applicando un errato “rigore” interpretativo che porterebbe in concreto ad escludere sempre la liquidabilità in questione) del risarcimento del danno patrimoniale; che ben può essere liquidato invece in base ad una corretta interpretazione della normativa in questione (in particolare in tema di presunzioni).
Va precisato a questo punto che è nell’ordine naturale delle cose che un soggetto ancora in età scolastica, qualora non abbia particolari deficienze, in futuro produrrà un reddito.
Si potrà discutere in ordine all’entità di tale presumibile reddito futuro in relazione agli elementi prognostici offerti, con riferimento allo specifico soggetto in questione, dalle risultanze processuali della particolare causa di cui si tratta (cfr. tra le altre: Cass. Sent. 23298 del 14/12/2004: “Quando un minore, non svolgente attività lavorativa, subisca, in conseguenza di un sinistro stradale, lesioni personali con postumi permanenti incidenti sulla specifica capacità lavorativa futura, il relativo danno da risarcire – consistente nel minor guadagno che il minore percepirà rispetto a quello che avrebbe percepito se la sua capacità lavorativa non fosse stata menomata – può esser determinato dal giudice in base al tipo di attività che presumibilmente il minore eserciterà, secondo criteri probabilistici, tenendo conto degli studi intrapresi e delle inclinazioni manifestate dal minore, nonché della posizione economico – sociale della famiglia. Ove il giudice di merito non ritenga di avvalersi di tale prova presuntiva, può ricorrere, in via equitativa, al criterio del triplo della pensione sociale. La scelta tra l’una o l’altro, di merito, è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivata”); ma (salvo che sussistano concreti elementi di convincimento in senso contrario) deve considerarsi come evento normale e prevedibile la produzione di un qualche reddito e non la non produzione del medesimo (come è stato ribadito da questa Corte Suprema: “In tema di risarcimento del danno alla persona, la mancanza di un reddito al momento dell’infortunio per non avere il soggetto leso ancora raggiunta l’età lavorativa può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato alla invalidità permanente che proiettandosi per il futuro verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima, al momento in cui questa inizierà una attività remunerata. Tale danno può anche liquidarsi in via equitativa tenendo presente l’età dell’infortunato, il suo ambiente sociale e la sua vita di relazione.”; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3539 del 15/04/1996; con riferimento ai danni consistenti in spese future di cura ed assistenza, cfr. anche Cass. Sentenza n. 752 del 21/01/2002).
In conclusione (nel solco di un ormai consolidato filone interpretativo) va enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di risarcimento di danno patrimoniale subito da una persona minore o comunque in età giovanile, qualora sia accertata non una “micro permanente” ma una percentuale superiore di invalidità permanente, la mera circostanza che il soggetto danneggiato, all’epoca dell’incidente, non avesse una specifica capacità professionale e non svolgesse attività lavorativa non autorizza ad escludere un danno futuro solo sulla base di ciò e senza ulteriori indagini. Al contrario il Giudice, con giudizio prognostico fondato su basi probabilistiche, deve valutare se ed in che misura i postumi permanenti ridurranno la futura capacità di guadagno di detta persona, tenendo conto in primo luogo della percentuale di invalidità medicalmente accertata, della natura e qualità dei postumi stessi, dell’orientamento eventualmente manifestato dal danneggiato medesimo verso una determinata attività redditizia, degli studi da lui portati a termine, dell’educazione ricevuta dalla famiglia nonché delle presumibili opportunità di lavoro che si presenteranno al danneggiato anche in relazione al prevedibile futuro mercato del lavoro; ed in secondo luogo della posizione sociale ed economica di quest’ultima; nonché di ogni altra circostanza rilevante (ferma restando la possibilità per colui che è chiamato a rispondere di dette lesioni di dimostrare che il minore, da quel particolare tipo di invalidità, non risentirà alcun danno o risentirà danni minori rispetto a quelli prospettati). In assenza di riscontri concreti dai quali desumere gli elementi suddetti, (e, perciò, in mancanza della possibilità di ricorrere alla prova presuntiva), la liquidazione potrà avvenire attraverso il ricorso al triplo della pensione sociale. La scelta tra l’uno o l’altro tipo di liquidazione costituisce un giudizio tipicamente di merito ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata”, (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 24331 del 30/09/2008; e Cass. Sentenza n. 26081 del 30/11/2005).
Con il secondo ed il terzo motivo il ricorrente principale denuncia “II Violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 c.c. – Motivazione insufficiente e contraddittoria – Art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. III Violazione dell’art. 132 c.p.c. in relazione agli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 – Motivazione apparente e perplessa – Art. 360 n. 4 c.p.c.) esponendo doglianze da sintetizzare come segue. La Corte Territoriale ha determinato il danno complessivo attualizzato alla pronuncia (28.09.2004) in euro 504.100,00 (pag. 10 della sentenza) ed ha quindi ritenuto:
“Su detta somma non compete la rivalutazione monetaria, essendo stata liquidata con riferimento all’attualità. Sono dovuti, invece, gli interessi dal fatto. Questi possono essere calcolati forfettariamente. Tenuto conto che essi sarebbero spettati sulle somme, via via rivalutate, nell’arco di tempo dal omissis ad oggi e che il tasso legale nello stesso tempo ha avuto misure diverse (10%, 5%, 3,5%, 2,5%), stimasi equo liquidare la somma di euro 50.000,00, così che la somma complessiva viene ad ammontare ad euro 554.100,00” (riducendo poi l’importo al 50% per l’accertato concorso di colpa). Il giudizio sulla determinazione degli interessi è palesemente viziato, perché non corrispondente alla natura e all’entità del danno, perché non correlato con le premesse di fatto accertate dallo stesso Giudice ed infine perché carente nella individuazione del percorso logico argomentativo utilizzato.
Il motivo è fondato. Infatti, specialmente se si considera la determinatezza e la lunghezza dell’“…arco di tempo …” suddetto e l’entità dei tassi nonché delle somme in questione appare impossibile capire: A) perché sulla base delle premesse esposte il Giudice ha deciso di ricorrere ad una valutazione equitativa; B) attraverso quale percorso logico è pervenuto a “… liquidare la somma di euro 50.000,00…”.
La sussistenza di tali vizi logici (entrambi esplicitamente od implicitamente denunciati) comporta l’insufficienza della motivazione; e ciò assorbe le altre censure.
L’impugnata decisione va dunque cassata in relazione all’accoglimento del ricorso incidentale; e la causa va rinviata alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
A detto Giudice del rinvio va rimessa anche la decisione sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; rinvia la causa, anche per la decisione sulle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
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