Corte di Cassazione, Sentenza n. 33841 del 2011 Presenta falsa documentazione per ottenere finanziamenti statali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Osserva

Con sentenza del 5-25 giugno 2009 la Corte d’appello di Napoli – in parziale riforma della sentenza in data 19 aprile 2007 del Tribunale di Avellino – confermava la condanna di G.M. per il reato di truffa aggravata, concedendo però il beneficio della sospensione condizionale della pena negato in primo grado.
Avverso tale sentenza la G. propone ricorso deducendo che la condotta addebitatale andrebbe ascritta nella meno grave fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., difettando nella specie gli artifizi ed i raggiri tipici della truffa. Denunzia, inoltre, in modo generico, il vizio di motivazione e richiama per relationem tutti gli altri motivi di doglianza già esposti nell’atto di appello.
Il ricorso è inammissibile.
Com’è noto, a seguito dell’inserimento dell’art. 316-ter c.p. (introdotto nel codice penale dall’art. 4 l. 29 settembre 2000, n. 300), si è posto il problema di chiarificare i rapporti fra questa nuova fattispecie incriminatrice e quella di truffa ai danni dello Stato, di cui all’art. 640-bis c.p.
La questione è stata risolta da questa Corte osservando che “la fattispecie criminosa di cui all’art. 316-ter c.p., che sanziona l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, costituisce norma sussidiaria rispetto al reato di truffa aggravata (artt. 640 commi primo e secondo n. 1, 640-bis c.p.), essendo destinata a colpire condotte che non rientrano nel campo di operatività di queste ultime. Ne consegue che la semplice presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere non integra necessariamente il primo delitto ma, quando ha natura fraudolenta, può configurare gli artifici o raggiri descritti nel paradigma della truffa e, unitamente al requisito della induzione in errore, può comportare la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 640 o 640-bis c.p.” (Cass. 8 giugno 2006, n. 23623; Cass. 12 febbraio 2009, n. 8613; v. pure 18 febbraio 2009, n. 21609).
Quindi, “la linea di discrimine tra il reato di indebita percezione di pubbliche erogazioni e quello di truffa aggravata finalizzata al conseguimento delle stesse va ravvisata nella mancata inclusione tra gli elementi costitutivi del primo reato della induzione in errore del soggetto passivo. Pertanto qualora l’erogazione consegua alla mera presentazione di una dichiarazione mendace senza costituire l’effetto dell’induzione in errore dell’ente erogante circa i presupposti che la legittimano, ricorre la fattispecie prevista dall’art. 316-ter c.p. e non quella di cui all’art. 640-bis c.p.” (Cass. 26 giugno 2007, n. 30155; v. pure Cass. sez. un. 16 dicembre 2010, n. 7537).
Questa Corte ha dunque chiarito che la qualificazione della condotta va effettuata caso per caso dal giudice del merito, dal momento che pure il silenzio o il mendacio possono assumere natura fraudolenta ed integrare l’elemento oggettivo del reato di truffa. L’induzione in errore, infatti, anche mediante l’affidamento che può essere ingenerato da una condotta meramente omissiva, qualora questa costituisca inadempimento di un obbligo di comunicazione.
Consegue che, qualora il giudice di merito abbia congruamente motivato circa la ricorrenza in concreto degli elementi distintivi – “artifizi o raggiri” e “induzione in errore” – che definiscono il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640-bis c.p.) rispetto a quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.), la qualificazione giuridica del fatto che ne consegue non è censurabile in sede di legittimità.
Nella specie, la sentenza impugnata assolve a tale obbligo di motivazione, osservando che “l’artifizio rappresentato dalla allegazione di falsa documentazione è vieppiù rafforzato dalla dichiarazione dell’interessata volta ad avvalorare il dato non corrispondente al vero; tanto consente di escludere la sussistenza del meno grave reato di cui all’art. 316-ter c.p., rappresentando proprio detta dichiarazione l’elemento ulteriore finalizzato ad indurre in errore il soggetto passivo”. Non sussistono, quindi, i vizi denunziati.
Il ricorso, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna alle spese processuali ed a pena pecuniaria, potendosi ravvisare profili di colpa nella causa di inammissibilità.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Depositata in Cancelleria il 13.09.2011

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