Cass. civ. Sez. II, Sent., 07-08-2012, n. 14216

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Svolgimento del processo
La società XXXX s.r.l. (quale appaltatrice) con citazione del 15/4/1998 conveniva in giudizio la società XXXX F & C s.n.c. (quale committente) per chiedere sia la declaratoria della risoluzione di un contratto di appalto per la costruzione di un immobile per inadempimento della committente, sia la condanna della stessa committente al risarcimento dei danni, anche per il fermo cantiere; assumeva di avere dovuto sospendere i lavori su richiesta della committente e di non essere più stata autorizzata a riprenderne l’esecuzione nel rispetto del regolamento edilizio e degli accordi originari tanto da vedersi costretta a intimare diffida ad adempiere.
Con sentenza 11/7/2001 il Tribunale di Monza dichiarava la risoluzione del contratto per colpa della convenuta che condannava al risarcimento dei danni.
La XXXX s.a.s (già XXXX s.n.c.) proponeva appello deducendo l’inadempimento dell’appaltatrice, interessata a sospendere i lavori per eseguirne altri in altri cantieri e, inoltre, che le richieste di revisione prezzi, alle quali l’appaltatrice condizionava la ripresa dei lavori, erano ingiustificate.
La società XXXX s.r.l. si costituiva e chiedeva il rigetto dell’appello e, con appello incidentale, l’ulteriore condanna della committente al risarcimento dei danni subiti per avere lasciato in cantiere, nella disponibilità della committente la gru e i ponteggi ancorchè, non avesse sostenuto spese per noleggiarli.
La Corte di Appello di Milano con sentenza del 17/3/2005 rigettava l’appello principale e accoglieva l’appello incidentale condannando la committente al risarcimento, per le voci in contestazione, di Euro 54.485,66.
Per quanto qui ancora interessa (essendo in discussione solo il risarcimento del danno da fermo cantiere) la Corte di Appello rilevava:
– che la gru, il ponteggio e i piani di lavoro erano stati messi a disposizione della committente fino allo sgombero del cantiere, contrattualmente fissato al 13/9/1997, data alla quale il CTU ha fatto riferimento per la determinazione del danno emergente;
che di conseguenza tali attrezzature non potevano essere utilizzate dalla appaltatrice in altri cantieri e per tale ragione la stessa indisponibilità era fonte di danno indipendentemente dalla prova di avvenuti esborsi;
che era incontestabile che per l’esecuzione delle opere fino alla sospensione lavori fossero state utilizzate le suddette attrezzature e che, successivamente, non erano state rimosse, come era desumibile dalle successive richieste della committente di liberazione del cantiere;
che in ordine al quantum del danno poteva essere richiamata la CTU, non specificamente censurata e immune da vizi logici e giuridici.
La società la XXXX s.a.s. propone ricorso affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la società XXXX s.r.l..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce il vizio di motivazione sotto due profili.
a) con riferimento alla decisione di imputare alla responsabilità della committente la mancata disponibilità delle attrezzature che, invece, erano state lasciate in cantiere per scelta e volontà della stessa appaltatrice, come sarebbe dimostrato dal fatto che proprio la committente aveva dovuto fare ricorso a procedimento ex art. 700 c.p.c. per ottenere lo sgombero;
b)con riferimento all’individuazione delle attrezzature in giacenza nel cantiere, non essendovi prova dell’installazione della gru e mancando documentazione sulla messa in opera del ponteggio.
2.1 Il motivo è infondato sotto entrambi i profili:
sotto il primo profilo, la Corte distrettuale ha esaurientemente motivato osservando che le attrezzature dovevano rimanere nella disponibilità della XXXX fino allo sgombero del cantiere contrattualmente fissato al 13/9/1997, data alla quale il CTU ha fatto riferimento per la determinazione del danno; pertanto, fino a tale data l’appaltatrice non aveva possibilità di scelta, essendo obbligata per contratto a tenere le attrezzature nel cantiere;
– sotto il secondo profilo, relativo all’esistenza, in cantiere dei beni in discussione, la censura è infondata perchè la Corte di Appello ne ha dedotto la presenza in cantiere con un ragionamento presuntivo legittimo e plausibile avendo ritenuto le attrezzature necessarie per l’esecuzione dei lavori eseguiti fino alla sospensione e la loro perdurante presenza desumibile dalle successive richieste della committente per lo sgombero del cantiere; pertanto non immotivatamente nè con motivazione illogica o contraddittoria.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2697 c.c. sull’onere della prova. La ricorrente ripropone, sotto il profilo della violazione dell’onere probatorio, la critica della motivazione sull’esistenza del danno e censura, in questo caso, anche la motivazione sull’entità del danno; al riguardo osserva che incombeva sulla committente l’onere di provare il danno e la sua entità e che non poteva ritenersi provato nè l’an nè il quantum;
la consulenza tecnica di ufficio non poteva essere utilizzata per raggiungere una prova mancante si in ordine all’esistenza delle attrezzature nel cantiere e in ordine al fatto che tali attrezzature servissero in altri cantieri; esisteva, invece, la prova dell’assenza di danno in quanto l’appaltatrice aveva continuato a lasciare in cantiere le attrezzature fino a costringere la committente a ricorrere a procedura di urgenza per lo sgombero del cantiere.
2.1 Il motivo è inammissibile quanto alla dedotta violazione dell’art. 2697 c.c. perchè la Corte di Appello non ha ritenuto che la committente fosse esonerata dalla prova dell’esistenza e dell’entità del danno, ma ha ritenuto provata l’esistenza del danno sulla base dell’accertata indisponibilità di alcune attrezzature (la gru, il ponteggio, i piani di lavoro), poste nella disponibilità della committente fino al 13/9/1997, come si è già precisato nel decidere sull’infondatezza del primo motivo di ricorso. Neppure può sostenersi che la Corte di Appello abbia fondato la decisione sull’an debeatur esclusivamente sulla CTU alla quale, invece, ha fatto riferimento per la determinazione dell’ammontare del danno (v. pag.
15 della sentenza: "circa il quantum, la Corte richiama in proposito la su citata consulenza tecnica di ufficio che non risulta soggetta a specifiche censure"), ossia per valutare la rilevanza economica della mancata disponibilità di alcune attrezzature.
In ordine all’an debeatur e all’individuazione delle attrezzature che erano rimaste ferme nella disponibilità della committente, la Corte di Appello, pur richiamando la CTU ("risulta provato, anche attraverso la consulenza tecnica di ufficio…che effettivamente le attrezzature sopra indicate rimasero nella disponibilità della XXXX…") ha sviluppato, come si è già detto, un suo ragionamento presuntivo fondato sulla necessità delle attrezzature per eseguire i lavori già eseguiti, fino alla sospensione e sulla circostanza che, successivamente, la committente abbia chiesto di rimuoverle, con ciò riconoscendone la presenza in cantiere.
In altri termini le censure articolate nel motivo non attingono la ratio decidendi con riferimento alla violazione dell’art. 2697 c.c. e, se valutate come espressione di una censura sulla motivazione, sono infondate.
Più in generale, quanto alla addotta violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione agli elementi acquisiti e valutati dal CTU sia in ordine alla necessità delle attrezzature sopra indicate per la realizzazione di quanto già realizzato dall’appaltatrice, sia in ordine all’ammontare del danno, si deve osservare che tale violazione non sussiste se il giudice affida al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente); in tal caso, (ossia quando la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova) è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. 23/2/2006, n. 3990; Cass. 13/3/2009 n. 6155).
3. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con la condanna della società ricorrente, in quanto soccombente, al pagamento delle spese di questo giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione che si liquidano in Euro 3.500,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2012

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