Autore: Domenico Cirasole
il Jobs Act di Renzi, ha cancellato le tutele dei lavoratori, creato solo precari con paghe da fame e senza pensioni
La riforma del lavoro del 2015 voluta da Renzi, NON ha creato più occupazione, NON ha migliorato la qualità dell’occupazione, ha cancellato le tutele dei lavoratori, ha dimezzato gli stipendi, NON ha cancellato la disoccupazione dei giovani, ha favorito l’emigrazione dei giovani universitari.
La Cassazione ribalta la legge ?? La colpa del medico non deve essere provata dal paziente.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 13 settembre – 9 novembre 2017, n. 26517 Presidente Travaglino – Relatore Rossetti Fatti di causa 1. Ma. Lu. Sp., Ra. Za. e Fr. Za. nel 1994 convennero dinanzi al Tribunale di Viterbo Gi. La., esponendo – per quanto in questa sede ancora rileva – che: (-) a novembre del 1990 Gi. Za. era affetto – come si sarebbe accertato in seguito – da un epitelioma alle mucose buccali; (-) il 14.11.1990 si fece visitare da Gi. La., dermatologo; (-) Gi. La. non solo non si avvide della natura maligna della malattia, ma consegnò al paziente un referto istopatologico nel quale si escludeva la presenza di neoplasie; (-) la malattia, non tempestivamente curata, progredì e condusse a morte Gi. Za., che decedette il 23.8.1991. Dedussero che tale condotta del sanitario fu imperita e negligente, in quanto se egli avesse saputo tempestivamente diagnosticare la malattia, essa si sarebbe potuta curare più prontamente, e più efficacemente. Chiesero la condanna del convenuto al risarcimento dei danni rispettivamente patiti in conseguenza della morte del loro congiunto. 2. Gi. La. si costituì eccependo che: (-) quando il paziente fu da lui visitato non presentava alcuno dei sintomi tipici dell’epitelioma, ma solo una escoriazione della mucosa dovuta alla protesi dentaria; (-) l’unica prestazione medica da lui eseguita fu la sutura della suddetta escoriazione; (-) non aveva mai né disposto, né eseguito, alcun esame istopatologico sui tessuti del paziente; (-) dopo il suddetto intervento non ebbe più occasione di visitare il paziente. 3. Il Tribunale di Viterbo con sentenza 14 gennaio 2003 n. 42 accolse la domanda. La Corte d’appello di Roma, adita dal soccombente, con sentenza 21 maggio 2013 n. 2917 rigettò il gravame. Ritenne la corte d’appello che: (a) la storia clinica del paziente e i sintomi da questi presentati, al momento della prima visita eseguita da Gi. La., avrebbero dovuto indurre quest’ultimo almeno a sospettare la possibilità dell’esistenza d’un epitelioma, ed a disporre quindi esami più approfonditi; (b) era onere del convenuto, in applicazione dei principi sul riparto dell’onere della prova, dimostrare di avere eseguito quell’esame, ovvero di averlo consigliato al paziente, prova che invece mancò. 4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da Gi. La., con ricorso fondato su due motivi; resistono con controricorso Ra. e Fr. Za., anche nella veste di eredi di Ma. Lu. Sp., deceduta nelle more del giudizio. Ragioni della decisione 1. Questioni preliminari. 1.1. Va preliminarmente disattesa la richiesta, compiuta dal Procuratore Generale nella pubblica udienza del 13 settembre 2017, di improcedibilità del ricorso, sul presupposto che ad esso fosse allegata una copia incompleta del provvedimento impugnato. Dall’esame degli atti, infatti, si rinviene allegata al fascicolo del ricorrente una copia integrale del provvedimento impugnato. 1.2. I controricorrenti hanno eccepito l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, sul presupposto che nel caso di cd. “doppia conforme” non è prospettabile in sede di legittimità il vizio di omesso esame del fatto decisivo, ai sensi dell’articolo 348 ter, quinto comma, c.p.c. L’eccezione è infondata. Questa Corte ha già stabilito che le regole sulla cd. “doppia conforme”, di cui all’art. 348 ter c.p.c. si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto che le ha introdotte, ossia ai giudizi introdotti in grado di appello dal giorno 11 settembre 2012 in poi (Sez. 5, Sentenza n. 26860 del 18/12/2014). Il giudizio di appello deciso dalla sentenza oggi in esame, invece, venne introdotto nell’anno 2003, sebbene si sia poi concluso soltanto un decennio appresso. 2. Il primo motivo di ricorso. 2.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 54 D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134). Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare il “fatto decisivo” rappresentato dalla circostanza che causa del decesso del paziente fu il ritardo diagnostico e terapeutico in cui incorsero gli altri medici che, dopo di lui, si occuparono del caso. 2.2. Il motivo è infondato. La Corte d’appello ha esaminato il problema del nesso di causa tra la condotta ascritta al convenuto, e la morte del paziente, a p. 8 della sentenza impugnata, affermando che: “l’esecuzione di un esame istologico [se fosse stato disposto dal convenuto] avrebbe permesso di accertare l’esistenza della malattia molto prima di quanto effettivamente avvenuto”, e soggiungendo che “l’eventuale concorso anche maggioritario dei medici successivamente intervenuti non potrebbe comportare alcuna riduzione dell’obbligo risarcitorio dell’appellante”, in puntuale applicazione dell’articolo 2055 c.c.. La circostanza di fatto costituita dall’esistenza del rapporto di causalità tra la condotta del convenuto, quella degli altri medici che si occuparono del causa, e la morte del paziente, è stata dunque esaminata dalla Corte d’appello, ed il vizio di omesso esame non sussiste. Né, ovviamente, è consentito in questa sede tornare ad esaminare se davvero il convenuto abbia o non abbia fornito un contributo concausale alla produzione dell’evento, trattandosi di questione squisitamente di merito, istituzionalmente sottratta all’esame di questa Corte. 3. Il secondo motivo di ricorso. 3.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 2697 c.c.. Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe violato le regole sul riparto dell’onere della prova, poiché: (-) gli attori avrebbero dovuto dimostrare che, al momento in cui il paziente si fece visitare da Gi. La., vi fosse una lesione “ragionevolmente interpretabile come anticamera di una situazione patologica” tumorale, e tale prova era mancata; (-) la Corte d’appello non ha “preso posizione” sul referto datato 10 gennaio 1991, prodotto e poi sottratto dagli atti di causa, il quale era stato da lui disconosciuto, e non era a lui riferibile. 3.2. Il motivo è infondato. Stabilire se determinati sintomi, ad una determinata epoca, siano stati correttamente o scorrettamente interpretati, significa accertare se il medico abbia tenuto una condotta negligente o diligente. Ma l’accertamento della diligenza della condotta del medico forma oggetto dell’accertamento della colpa, ed in tema di responsabilità medica non è onere dell’attore provare la colpa del medico, ma è onere di quest’ultimo provare di avere tenuto una condotta diligente (come questa Corte viene ripetendo da molti anni: per tutti, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 589 del 22/01/1999). 3.3. La corretta applicazione, compiuta dalla Corte d’appello, dei principi sul riparto dell’onere della prova, rende inconsistente anche il secondo profilo di censura. Il ricorrente si ostina a ripetere che gli attori avevano depositato un referto istopatologico a lui attribuito, dal quale risultava una diagnosi benigna, ma che lui non aveva mai sottoscritto quel documento, poi sparito dagli atti. Tuttavia che un referto istopatologico negli atti vi fosse o non vi fosse; ovvero che fosse o non fosse riferibile al convenuto, sono questioni che non toccano la posizione degli attori: gli attori avevano il solo onere di allegare la colpa del convenuto; questi aveva l’onere di provare la propria assenza di colpa. E il convenuto non poteva certo provare l’assenza di colpa limitandosi a disconoscere la sottoscrizione di quel referto istopatologico. Delle due, infatti, l’una: – se il referto esisteva e lui lo firmò, il convenuto è in colpa per avere sbagliato la diagnosi; – se il referto non esisteva, il convenuto è in colpa per non aver suggerito od ordinato esami più approfonditi, ovvero per non avere fornito la prova (per quanto detto, gravante su di lui), che alla data in cui visitò il paziente, questi non presentava alcun sintomo tale da suscitare nemmeno il più piccolo sospetto che fosse affetto da una patologia tumorale. Correttamente, pertanto, la Corte d’appello ha trascurato di esaminare il problema della esistenza dell’autenticità del suddetto referto. 4. Le spese. 4.1. Le spese del presente grado di giudizio vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c, e sono liquidate nel dispositivo. 4.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228). P.Q.M. la Corte di cassazione: (-) rigetta il ricorso; (-) condanna Gi. La. alla rifusione in favore di Ra. Za. e Fr. Za., in solido, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 7.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, D.M. 10.3.2014 n. 55; (-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dall’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30.5.2002 n. 115, per il versamento da parte di Gi. La. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Condannato il marito che proibisce alla moglie di lavorare
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 – 31 ottobre 2017, n. 49997 Presidente Conti – Relatore Calvanese
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. Con la sentenza, indicata in epigrafe, la Corte di appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza di condanna emessa nei confronti di B.A. per i reati di cui agli artt. 572 e 612 cod. pen., dichiarando per il secondo reato non doversi procedere perché estinto per difetto di querela e rideterminando la pena per il restante reato, nonché confermando le statuizioni civili. All’imputato era stato contestato di aver maltrattato la moglie, rendendole la vita impossibile, con ripetute percosse, minacce di morte e condotte di intimidazione psicologica e vessazione, atteggiamenti di umiliazione e svilimento, quali volerle impedire di svolgere attività lavorativa. 2. Ricorre per cassazione l’imputato, chiedendo l’annullamento della suddetta sentenza per violazione di legge, in quanto il quadro probatorio sarebbe basato soltanto sulle dichiarazioni della persona offesa, prive di riscontri esterni ed estremamente ondivaghe e generiche, quanto all’oggetto delle condotte illecite; difetterebbe inoltre l’abitualità dei comportamenti costituenti l’elemento oggettivo del reato, in quanto in 11 anni di convivenza sarebbero stati indicati dalla persona offesa solo pochissimi episodi, soltanto litigi e diverbi tra coniugi slegati tra loro, e sarebbero state pretermesse le deposizioni a favore dell’imputato, che definivano i coniugi una coppia normale, dando credito invece a testi che avevano riferito quanto appreso dalla stessa persona offesa, nonché si sarebbe dato adito a supposizioni prive di fondamento, là dove l’unica programmazione rinvenibile era quella della persona offesa di voler anteporre il lavoro alla famiglia; la Corte di appello avrebbe sussunto una errata concezione della famiglia tutelata dalla norma penale, avulsa dalla realtà (avendo la persona offesa scelto di vivere da single, senza legami, dedicandosi al lavoro, senza alcun obbligo nei confronti degli altri componenti del nucleo familiare e nei confronti del marito invalido); difetterebbe altresì l’elemento soggettivo, in assenza della prova di un programma criminoso animato da volontà unitaria di vessare la moglie (così enunciati i motivi nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.). 3. Il ricorso è da ritenersi inammissibile in ogni sua articolazione. Il ricorrente – a fronte di un duplice conforme specifico apprezzamento in fatto dei due Giudici del merito, sorretto da motivazione non apparente ed immune dai vizi che rilevano ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen. – si è limitato a proporre deduzioni difensive che si risolvono nella mera reiterazione di questioni già dedotte e risolte in sede di appello e nella sollecitazione ad una diversa valutazione del quadro probatorio, del tutto preclusa in questa sede di legittimità. Le censure si rivelano infatti aspecifiche, nella misura in cui non si correlano al tessuto argomentativo della sentenza impugnata, non consentite, là dove prospettano questioni di mero fatto, e comunque manifestamente infondate, per la evidente erroneità degli argomenti proposti. 3.1. Quanto alla prima e alla seconda censura è sufficiente osservare quanto segue. La Corte di appello ha puntualmente e correttamente proceduto alla verifica della attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e la pretesa del ricorrente che il riscontro delle stesse debba essere dotato di autonoma forza probatoria per tutti i singoli episodi non ha fondamento alcuno (altrimenti le dichiarazioni della persona offesa non avrebbero alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe comunque su tali elementi esterni). È principio oramai consolidato che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). Le stesse Sezioni Unite hanno altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, possa essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. La Corte di appello ha ben evidenziato per ogni episodio i riscontri esterni, ripercorrendo analiticamente tutte le dichiarazioni della persona offesa ed evidenziando le condotte abituali addebitate al ricorrente (ovvero aggressioni che fino al 2010 riguardavano gli oggetti e non la sua persona, per poi degenerare
nell’epoca successiva in minacce anche di morte, in percosse, in reazioni d’ira del ricorrente, in ritorsioni, nella violenza sugli oggetti, in pugni, in tirate di capelli, in occasione di continue discussioni che vedano il ricorrente adirarsi in particolare per gli impegni lavorativi della moglie, che lo stesso viveva problematicamente quanto alle modalità con cui la donna svolgeva il suo lavoro, con impegni non conciliabili, a suo avviso, con i rapporti familiari, tanto da stilare su una lavagna i giorni in cui avrebbero potuto pranzare assieme, con conseguente sue reazioni in caso in cui venissero disattesi gli accordi). La sentenza impugnata ha poi sottolineato come la donna fosse stata costretta a rifugiarsi da parenti e vicini per sottrarsi al ricorrente, tanto poi da prendere in affitto un appartamento temendo di essere aggredita nel sonno. La Corte di appello, nel ricostruire lo snodarsi degli eventi, ha evidenziato la risalenza nel tempo degli episodi di maltrattamenti (a partire dal 2011 con più atti di violenza e costanti minacce di morte alla persona offesa), e ha proceduto poi a rispondere dettagliatamente a tutti i rilievi difensivi, compresa la questione della attendibilità dei testi indicati dalla difesa, là dove gli stessi avevano tratteggiato una coppia serena o smentito le dichiarazioni della persona offesa. La Corte di appello ha in particolare dato logica e motivata spiegazione del perché le loro deposizioni non avevano rilievo. Ha poi fornito risposta sulle testimonianze de relato, rilevando come le eccezioni difensive fossero generiche e assertive. La stessa Corte ha ragionevolmente evidenziato sul punto come le condotte maltrattanti fossero avvenute tra le mura domestiche, quindi in assenza di diretti testimoni, e come chi le subisca tenti di conservare il rapporto familiare cercando di gestire la situazione, anche per paura di comprometterlo con denunce o temendo ritorsioni, confidandosi piuttosto con vicini o parenti dai quale ricevere aiuto in situazioni di emergenza. Sulla base di quanto in fatto ricostruito dalla sentenza impugnata, devono ritenersi all’evidenza infondate le critiche del ricorrente in ordine alla mancanza degli elementi tipici della fattispecie penale contestata, proponendo piuttosto le censure una rivisitazione del quadro probatorio, non consentita in questa sede. 3.2. Ad identiche conclusioni deve pervenirsi per il terzo motivo, in cui si prospetta una visione della vita familiare che dovrebbe giustificare i comportamenti posti in essere dal ricorrente. Nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari (tra tante, Sez. 6, n. 37019 del 27/05/2003, Caruso, Rv. 226794). Anche su tale punto la risposta della Corte di appello ad analoga questione versata dal ricorrente nell’appello appare quindi corretta. 3.3. La stessa Corte territoriale ha infine correttamente affrontato anche il tema dell’elemento soggettivo, ponendo in evidenza gli elementi dimostrativi del dolo generico. Nel reato abituale, il dolo non richiede infatti – a differenza che nel reato continuato – la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice (tra tante, Sez. 6, n. 15146 del 19/03/2014, D’A, Rv. 259677). 4. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della cassa delle ammende della somma a titolo di sanzione pecuniaria, che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro 3.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 in favore della cassa delle ammende.