CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Sentenza 5.8.2010 n. 31407 Bancarotta: imprenditore colpevole anche se si è affidato ad un professionista esterno

Fatto

La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 24.11.2009, ha confermato la pronunzia di primo grado con la quale M.R. È stato condannato alla pena di giustizia con riferimento al reato ex art. 110 c.p., L. Fall., art. 217, per non aver tenuto, nel triennio precedente alla dichiarazione di fallimento, in maniera regolare e completa, i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge.

Ricorre per cassazione l’imputato e deduce: 1) inosservanza di norme processuali, 2) errata applicazione della L. Fall., art. 217.

Argomenta come segue.

Il capo di imputazione riproduce alla lettera la formula della legge: Conseguentemente, ledendo il diritto di difesa, non viene specificato quali scritture non furono regolarmente tenute.

L’imputato per altro ebbe a provare, tramite testi, che l’incarico di tenere la contabilità e i libri sociali era stato conferito a professionista esterno all’azienda e che le incombenze di carattere amministrativo competevano all’altro socio, il C..

Va poi rilevato che la bancarotta documentale semplice è connotata da dolo o colpa grave e che dunque la vera e propria delega conferita dal M. comporta che lo stesso può essere considerato colpevole solo in caso di concorso.

Tanto premesso, rileva il Collegio che la prima censura è generica in quanto meramente iterativa di quella proposta al giudice di appello e motivatamente respinta. La Corte bolognese ha al proposito osservato che il diritto di difesa del M. non è stato minimamente compresso, in quanto costui, nel corso degli esami resi, ha avuto la possibilità di difendersi e di argomentare nel merito.

L’assunto è certamente condivisibile, atteso che il decreto di citazione a giudizio è nullo per incertezza assoluta del fatto oggetto dell’imputazione soltanto quando l’imputato non sia stato di fatto posto in grado di intendere i termini concreti dell’accusa, e di predisporre una adeguata difesa. Ne consegue che la semplice indeterminatezza dell’imputazione non produce la suddetta nullità.

Al proposto, come premesso, il ricorrente, invece di sviluppare la sua critica su tale ragionamento della Corte di merito, ha semplicemente riproposto la doglianza, come se il giudice di secondo grado nulla avesse osservato al proposito.

La seconda censura è manifestamente infondata.

E invero, in tema di bancarotta semplice, la colpa dell’imprenditore è ravvisabile anche quando egli abbia affidato a soggetti estranei all’amministrazione dell’azienda la tenuta delle scritture e dei libri contabili, perchè su di lui grava, oltre all’onere di un’oculata scelta del professionista incaricato (cui consegue, in caso di inadempimento, culpa in eligendo) anche quello di controllarne l’operato (ASN 200732586-RV 237105).

E va poi da sé che la cd. “delega”, se poteva aver rilievo nei rapporti interpersonali tra M. e C. (ai fini di una eventuale suddivisione di ruoli e compiti) certo non poteva valere a sollevare il primo dall’obbligo di esatto adempimento dei doveri che per legge gli competevano.

Quanto all’elemento psicologico, è noto (ASN 200606769-RV 233997) che la differenza tra la bancarotta fraudolenta documentale prevista dalla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 2, e quella semplice prevista dall’art. 217, comma 2, stessa legge, consiste – appunto – in tale elemento, che, nel primo caso, viene individuato nel dolo generico (costituito dalla coscienza e volontà della irregolare tenuta delle scritture con la consapevolezza che ciò renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore) e, nel secondo caso, dal dolo o indifferentemente dalla colpa, che sono ravvisagli quando l’agente ometta, rispettivamente, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture.

E dunque, a parte il fatto che il concorso invocato dal ricorrente potrebbe ovviamente aversi solo nel caso in cui la bancarotta semplice documentale fosse connotata da dolo, è da osservare che la colpa (elemento psicologico, come si è visto, alternativo al dolo nella ipotesi di reato contestata) non deve affatto essere grave, essendo sufficiente anche quella lieve, che ben può connotarsi nella mera negligenza o trascuratezza circa la precisa incombenza che grava sul soggetto individuato dalla legge. Conclusivamente il ricorso è inammissibile e il ricorrente va condannato alle spese del grado.

Lo stesso è anche tenuto al versamento di somma a favore della Cassa ammende. Si stima equo determinare detta somma in Euro 1000.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di mille euro a favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 5 agosto 2010.

Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2010

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