Cassazione, sez. I, 14 novembre 2011, n. 23776 Divorzio. Ottiene la casa coniugale e riceve in eredità degli immobili: ha comunque diritto all’assegno?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto e diritto

A seguito di ricorso proposto da F..Z. in data 29.12.2001 il Tribunale di Cremona dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario celebrato dal ricorrente e F.O., respingendo la domanda di quest’ultima di determinazione di contributo al suo mantenimento e di versamento di quota di TFR.

La decisione, impugnata dalla F., veniva riformata dalla Corte di appello di Brescia, che avendo rilevato una significativa sproporzione fra i redditi delle parti, condannava Z. al pagamento di un assegno mensile di Euro 508 in favore della F. , di cui riconosceva anche il diritto a percepire la quota del 40% dell’importo liquidato a titolo di trattamento di fine rapporto.

Avverso la decisione Z. proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi poi illustrati da memoria, cui resisteva l’intimata con controricorso, con i quali rispettivamente denunciava:

1) violazione degli artt. 5 l. 1970/898, 10 l. 1987/74, 5 l. 2005/263, con riferimento alla previsione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile, il cui riconoscimento aveva inoltre consentito alla F. di ottenere la quota di spettanza sul TFR liquidato.

La statuizione sarebbe infatti errata per l’omessa considerazione dell’età di esso ricorrente, per l’obbligo a suo carico di provvedere alle esigenze di una figlia in giovanissima età, per la sostanziale natura reddituale dei suoi proventi, per la reale mancanza di incidenza del detto assegno sul tenore di vita della F. , attesa la consistenza del reddito dalla stessa percepito nonché quella del suo patrimonio immobiliare, fra l’altro arricchito dalla qualità di erede della madre defunta (circostanza di cui fra l’altro non avrebbe tenuto conto la Corte territoriale);

2) vizio di motivazione in relazione agli stessi articoli indicati sub 1), per il fatto che la Corte non avrebbe indicato gli elementi in base ai quali sarebbe stato corretto desumere l’impossibilità, per la F., di mantenere il tenore di vita già goduto in costanza di matrimonio.

I due motivi di impugnazione devono essere esaminati congiuntamente per l’unicità della doglianza prospettata, essenzialmente consistente nell’individuazione del parametro da adottare al fine di accertare l’esistenza o meno del diritto del coniuge all’assegno divorzile, e sono infondati.

Al riguardo va infatti osservato che l’accertamento del detto diritto va effettuato verificando l’adeguatezza o meno dei mezzi del coniuge richiedente alla conservazione di un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio (C. 07/4764, C. 07/1561, C. 05/19446, C. 10210), parametro cui la Corte di appello ha puntualmente dichiarato di volersi attenere (p. 7).

Il punto in contestazione, dunque, non attiene tanto alla correttezza del criterio seguito (che per l’appunto non è stato censurato), ma piuttosto alla conseguente valutazione che, nel merito, la Corte di appello ha nel concreto compiuto.

Sul punto tuttavia la detta Corte ha sufficientemente motivato la decisione adottata ritenendo che, pur a seguito delle acquisizioni immobiliari della F. conseguenti alla morte della madre, perdurasse una significativa sproporzione fra i redditi delle parti, oggettivamente desumibile dalle loro dichiarazioni dei redditi, e che non avessero rilevanza in senso contrario né la sopraggiunta autonomia delle due figlie (atteso che entrambi i genitori avrebbero tratto beneficio da tale evento), né l’acquisizione della intera proprietà della casa coniugale da parte della F. , in ragione del fatto che lo Z. manterrebbe la disponibilità di "quasi il doppio delle risorse su cui può contare l’appellante". Si tratta dunque di valutazione di merito basata su argomentazioni immuni da vizi logici, contrastata unicamente sotto il profilo di una difforme interpretazione del materiale probatorio acquisito, e pertanto non sindacabili in questa sede di legittimità. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente, soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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