Corte Costituzionale, Sentenza n. 1 del 2012, in tema di conversione di pene pecuniarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 3 del 18-1-2012

SENTENZA

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 3, comma 62,
della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di
sicurezza pubblica) e dell’art. 102, terzo comma, della legge 24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal
Magistrato di sorveglianza di Catania nel procedimento di
sorveglianza nei confronti di G.G. con ordinanza del 16 marzo 2011,
iscritta al n. 171 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale,
dell’anno 2011.
Udito nella camera di consiglio del 14 dicembre 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza depositata il 16 marzo 2011, il Magistrato di
sorveglianza di Catania ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 3,
comma 62, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia
di sicurezza pubblica), nella parte in cui – nell’aumentare da euro
38 a euro 250 il coefficiente di ragguaglio fra le pene pecuniarie e
le pene detentive – ha omesso di operare una identica variazione in
aumento dell’importo sulla cui base, ai sensi dell’art. 102, terzo
comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema
penale), deve aver luogo la conversione in liberta’ controllata delle
pene pecuniarie non eseguite per insolvibilita’ del condannato.
Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciarsi, ai
sensi dell’art. 660, comma 2, del codice di procedura penale,
sull’istanza di conversione di una pena pecuniaria di euro 56.622,94
(cosi’ determinata a seguito di provvedimento di cumulo del 17 marzo
2006), rimasta ineseguita per insolvibilita’ del condannato.
Al riguardo, il rimettente rileva che l’art. 3, comma 62, della
legge n. 94 del 2009 ha modificato l’art. 135 del codice penale,
stabilendo che, quando si deve eseguire un ragguaglio fra pene
pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando euro 250,
o frazione di euro 250, di pena pecuniaria – anziche’ euro 38, o
frazione di euro 38, come previsto in precedenza – per un giorno di
pena detentiva.
La novella legislativa ha lasciato, per converso, immutato l’art.
102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981, che, ai fini della
conversione in liberta’ controllata della pena pecuniaria non
eseguita per insolvibilita’ del condannato, continua quindi a
prevedere che il ragguaglio debba essere effettuato calcolando euro
38, o frazione di euro 38, per un giorno di liberta’ controllata.
Ad avviso del giudice a quo, si sarebbe in tal modo determinata
una ingiustificata disparita’ di trattamento, lesiva del principio di
eguaglianza, a sfavore dei soggetti che versino in condizioni di
insolvibilita’.
Le ipotesi disciplinate dagli artt. 135 cod. pen. e 102, terzo
comma, della legge n. 689 del 1981 sarebbero, infatti,
«sostanzialmente omogenee», giacche’ tanto le pene detentive, quanto
la liberta’ controllata costituiscono sanzioni penali irrogabili dal
giudice della cognizione (la seconda quale sanzione sostitutiva, ai
sensi dell’art. 53 della legge n. 689 del 1981), con la possibilita’,
inoltre, che la liberta’ controllata venga disposta anche dal
magistrato di sorveglianza, nel caso di impossibilita’ di pagamento
della pena pecuniaria.
Lo stesso legislatore, d’altra parte, con l’art. 101 della legge
n. 689 del 1981, aveva elevato a lire 25.000 il coefficiente previsto
dall’art. 135 cod. pen., parificandolo a quello all’epoca fissato
dall’art. 102, terzo comma, della medesima legge per la conversione
in liberta’ controllata delle pene pecuniarie.
Tale uniformita’ di trattamento era, peraltro, venuta meno a
seguito dell’art. 1 della legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica
dell’art. 135 del codice penale: ragguaglio fra pene pecuniarie e
pene detentive), che aveva aumentato a lire 75.000 l’importo
contemplato dall’art. 135 cod. pen., lasciando inalterata la norma
della legge speciale.
Al ripristino della corrispondenza tra i due coefficienti aveva
provveduto, tuttavia, questa Corte, la quale, con la sentenza n. 440
del 1994, aveva dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’art.
102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981, nella parte in cui
fissava in lire 25.000 – anziche’ in lire 75.000 – il tasso di
ragguaglio per la conversione in liberta’ controllata delle pene
pecuniarie non eseguite per insolvibilita’ del condannato. Detta
pronuncia aveva evidenziato, in specie, che «l’identita’ degli
importi indicati nelle due norme poste a raffronto non fu dovuta al
caso, ma rappresento’ il frutto di una precisa e coerente scelta di
politica criminale, al fondo della quale stava l’avvertita esigenza
di non aggravare le conseguenze che derivano dalla condanna in
dipendenza delle condizioni economiche del reo».
L’art. 3, comma 62, della legge n. 94 del 2009, modificando di
nuovo in aumento il solo importo stabilito dall’art. 135 cod. pen.,
avrebbe, quindi, ricreato la medesima situazione gia’ censurata dalla
citata sentenza n. 440 del 1994.
La questione sarebbe, altresi’, rilevante nel procedimento a quo.
L’esito della conversione della pena pecuniaria rimasta ineseguita
nella specie risulterebbe, infatti, sensibilmente diverso a seconda
che l’operazione venga effettuata in base al vigente testo dell’art.
102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981, ovvero a quello
risultante dall’auspicata declaratoria di illegittimita’
costituzionale.

Considerato in diritto

1.- Il Magistrato di sorveglianza di Catania dubita, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimita’
costituzionale dell’art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009, n.
94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in
cui – nell’aumentare da euro 38 a euro 250 il coefficiente di
ragguaglio fra le pene pecuniarie e le pene detentive stabilito
dall’art. 135 del codice penale – ha omesso di operare una omologa
variazione in aumento del tasso sulla cui base, ai sensi dell’art.
102, terzo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al
sistema penale), deve aver luogo la conversione in liberta’
controllata delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilita’ del
condannato.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe il
principio di eguaglianza, determinando una disparita’ di trattamento
fra situazioni «sostanzialmente omogenee», a sfavore dei soggetti che
versino in condizioni di insolvibilita’, del tutto analoga a quella
gia’ scrutinata da questa Corte con la sentenza n. 440 del 1994.
2.- In via preliminare, va rilevato che, sebbene il rimettente
censuri formalmente la norma novellatrice dell’art. 135 cod. pen.,
cio’ che egli in concreto sollecita e’ una pronuncia di
"riallineamento" dell’art. 102, terzo comma, della legge n. 689 del
1981, la quale ripristini la pregressa coincidenza dei coefficienti
di ragguaglio previsti dalle due norme poste a raffronto (per analogo
rilievo, sentenza n. 440 del 1994).
3.- In tali termini, la questione e’ fondata.
Giova muovere, al riguardo, dalla considerazione che la
disciplina stabilita dagli artt. 102 e seguenti della legge n. 689
del 1981 costituisce la risposta legislativa al problema lasciato
aperto dalla sentenza n. 131 del 1979 di questa Corte, che aveva
dichiarato costituzionalmente illegittimo il meccanismo,
originariamente previsto dall’art. 136 cod. pen., di conversione
automatica della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilita’ del
condannato in un corrispondente periodo di reclusione o di arresto.
Nell’occasione, la Corte evidenzio’ come tale meccanismo presentasse
una connotazione fortemente discriminatoria, postulando una
inammissibile fungibilita’ tra liberta’ personale e patrimonio, a
fronte della quale i soggetti economicamente piu’ deboli si trovavano
costretti ad assolvere con il sacrificio della prima (nella forma
massima: la pena detentiva) obblighi che gli altri condannati
potevano soddisfare in moneta. L’esigenza di garantire
l’indefettibilita’ della pena – pure non disconosciuta da questa
Corte – andava, dunque, soddisfatta in forme diverse, che il
legislatore del 1981 individuo’ segnatamente nella conversione in
liberta’ controllata (ovvero, su richiesta del condannato, in lavoro
sostitutivo).
Il coefficiente di ragguaglio per la conversione della pena
pecuniaria ineseguita in liberta’ controllata venne originariamente
fissato in lire 25.000: dunque, in quello stesso che – a seguito
della modifica dell’art. 135 cod. pen., contemporaneamente disposta
dall’art. 101 della medesima legge n. 689 del 1981 – valeva ai fini
del ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive.
Tale soluzione normativa – che operava, in pratica, una indiretta
equiparazione del "valore economico" della pena detentiva e della
liberta’ controllata – si traduceva in una scelta di favore nei
confronti del condannato in condizioni di indigenza. In base all’art.
57, terzo comma, della legge n. 689 del 1981, infatti, nel ragguaglio
tra pene detentive e liberta’ controllata, un giorno di pena
detentiva equivale, non gia’ a uno, ma a due giorni di liberta’ di
controllata. La previsione, nell’art. 102, terzo comma, della legge
n. 689 del 1981, di un coefficiente di conversione uguale – anziche’
doppio – rispetto a quello contemplato dall’art. 135 cod. pen.
veniva, quindi, a porsi quale espressione della volonta’ legislativa
di comprimere – in linea con le indicazioni della citata sentenza n.
131 del 1979 – gli effetti negativi scaturenti dalla condanna a pena
pecuniaria, nell’ipotesi in cui il reo si trovasse
nell’impossibilita’ di adempierla. Alla mitigazione "qualitativa"
della sanzione di conversione (da pena detentiva a liberta’
controllata) si accompagnava, in tale ottica, anche una mitigazione
"quantitativa" (nel senso che la liberta’ controllata "da
conversione" assumeva, rispetto alla pena pecuniaria, un valore pari
a quello della pena detentiva, anziche’ doppio).
4.- L’equilibrio del sistema veniva, peraltro, alterato una prima
volta dall’art. 1 della legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica
dell’art. 135 del codice penale: ragguaglio fra pene pecuniarie e
pene detentive). La novella legislativa, modificando la norma del
codice, elevava, infatti, il tasso di ragguaglio tra pene pecuniarie
e pene detentive a lire 75.000, senza operare alcun parallelo
adeguamento dell’altro coefficiente.
La situazione venutasi in tal modo a creare rendeva necessario
l’intervento di questa Corte, la quale, con la sentenza n. 440 del
1994, dichiarava costituzionalmente illegittimo, per contrasto con
l’art. 3 Cost., l’art. 102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981,
nella parte in cui continuava a prevedere che il ragguaglio, ai fini
della conversione delle pene pecuniarie non eseguite per
insolvibilita’ del condannato, avesse luogo calcolando 25.000 lire, o
frazione di 25.000 lire – anziche’ 75.000 lire, o frazione di 75.000
lire – di pena pecuniaria per un giorno di liberta’ controllata.
Nella circostanza, la Corte rilevava come, alla luce dei lavori
parlamentari che avevano preceduto l’approvazione della legge n. 402
del 1993, l’unico scopo perseguito con la novella fosse stato quello
di «ampliare la possibilita’ di fruire del beneficio della
sospensione condizionale della pena nei casi di condanna a pena
congiunta o anche soltanto a pena pecuniaria ma di ammontare elevato,
avuto riguardo, in particolare, al diminuito valore della moneta». A
fronte di tale circoscritto obiettivo, il legislatore aveva, quindi,
assunto «una posizione per cosi’ dire amorfa» rispetto agli
«inevitabili riverberi» scaturenti dalla modifica normativa, sia sul
piano generale delle sanzioni sostitutive, sia – e in particolare –
«sull’ormai squilibrato valore» stabilito dall’art. 102, terzo comma,
della legge n. 689 del 1981. Da cio’ conseguiva, per un verso, che lo
squilibrio indotto dalla riforma non poteva essere ritenuto «frutto
di una scelta discrezionale»; per altro verso, che non era neppure
possibile pervenire «ad una ragionevole ricostruzione del sistema»,
risultando la norma sottoposta a scrutinio «ormai fortemente
compromessa da un sostanziale e sopravvenuto "vuoto di fini"».
L’originaria identita’ del coefficiente di ragguaglio tra pene
pecuniarie e pene detentive, da un lato, e tra pene pecuniarie e
liberta’ controllata, dall’altro, non era, infatti, casuale, ma
costituiva, al contrario – come gia’ dianzi rimarcato – «il frutto di
una precisa e coerente scelta di politica criminale, al fondo della
quale stava l’avvertita esigenza – piu’ volte posta in risalto da [la
stessa] Corte – di non aggravare le conseguenze che derivano dalla
condanna in dipendenza delle condizioni economiche del reo».
Mantenendo inalterato il tasso di conversione della pena pecuniaria
ineseguita, nonostante il coefficiente di ragguaglio previsto
dall’art. 135 cod. pen. fosse stato triplicato, si era, quindi,
determinato «uno svuotamento delle finalita’ tipiche che l’istituto
della conversione deve soddisfare, con conseguente grave
compromissione del principio di uguaglianza che qui assume tutto il
suo risalto per le intuibili conseguenze che quell’istituto e’ in
grado di determinare sul piano delle liberta’ della persona».
Pur non potendosi escludere, in astratto – concludeva, quindi, la
Corte – che il legislatore potesse ragionevolmente operare una
differenziazione dei criteri di ragguaglio per materie fra loro
eterogenee, rimaneva assorbente il rilievo che, in assenza di una
chiara scelta innovativa sotto tale profilo, spettava alla Corte
stessa il compito di «riadeguare il sistema – ormai incrinato – negli
stessi termini e con le medesime proporzioni che il legislatore,
facendo corretto uso del proprio potere discrezionale, aveva previsto
prima della […] novella».
5.- A distanza di oltre quindici anni, l’equilibrio del sistema
e’ stato, peraltro, nuovamente alterato, in termini affatto similari,
dall’art. 3, comma 62, della legge n. 94 del 2009. Detta disposizione
ha, infatti, elevato da 38 a 250 euro il coefficiente di ragguaglio
indicato dall’art. 135 cod. pen., lasciando, anche questa volta,
immutato quello fissato dall’art. 102, terzo comma, della legge n.
689 del 1981. La sperequazione in tal modo introdotta risulta persino
piu’ marcata di quella originata dalla legge del 1993: se, infatti, a
seguito di detta legge, il valore monetario di un giorno di
detenzione era divenuto pari al triplo del valore della liberta’
controllata ai fini della conversione, per effetto della novella
legislativa del 2009 il primo dei due valori viene oggi a superare il
secondo di oltre sei volte.
Anche nell’odierno frangente, d’altra parte, non consta che la
creazione di uno scarto cosi’ pronunciato risponda a un preciso
disegno legislativo, sorretto da una specifica ratio.
La recente modifica dell’art. 135 cod. pen. si colloca, infatti,
nell’ambito del piu’ ampio intervento di adeguamento al mutato quadro
economico del sistema delle sanzioni pecuniarie, sia penali che
amministrative, operato dalla legge n. 94 del 2009, in coerenza con
il suo obiettivo generale di potenziamento del sistema repressivo
penale. In questa prospettiva, il legislatore ha ritenuto, in
particolare, necessario assicurare una maggiore incisivita’ della
pena pecuniaria, tenuto conto anche della notevole svalutazione
monetaria intervenuta rispetto all’ultimo adeguamento, risalente alla
legge n. 689 del 1981.
L’obiettivo e’ stato perseguito mediante tre ordini di
interventi: il sensibile innalzamento dei limiti minimi e massimi
della multa e dell’ammenda, stabiliti dagli artt. 24 e 26 cod. pen.
(art. 3, commi 60 e 61, della legge n. 94 del 2009); l’aggiornamento
– appunto – del parametro di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene
detentive, previsto dall’art. 135 cod. pen. (art. 3, comma 62);
infine, la delega al Governo ad adottare uno o piu’ decreti
legislativi, diretti a rivalutare l’ammontare delle multe, delle
ammende e delle sanzioni amministrative originariamente previste come
sanzioni penali (art. 3, comma 65).
I lavori parlamentari relativi alla legge n. 94 del 2009 non
evidenziano, per contro, che l’esigenza di un parallelo intervento
sull’istituto della conversione della pena pecuniaria non eseguita
per insolvibilita’ del condannato abbia formato oggetto di dibattito
e di specifica riflessione.
Ne consegue che le considerazioni poste a base della sentenza n.
440 del 1994, dianzi ricordate, restano valide, nella loro interezza,
anche in rapporto alla novella legislativa su cui verte l’odierno
scrutinio. Oggi come allora, lo squilibrio indotto dalla riforma –
non ascrivibile a una scelta discrezionale del legislatore, munita di
adeguata base giustificativa – impedisce di pervenire a una
ragionevole ricostruzione del sistema, determinando uno svuotamento
delle finalita’ che l’istituto della conversione e’ diretto
tipicamente a soddisfare, con conseguente violazione del principio di
eguaglianza.
6.- A dimostrazione di cio’, e’ agevole, d’altro canto,
riscontrare come la macroscopica sperequazione attualmente esistente
tra i coefficienti posti a raffronto – interferendo con la disciplina
della sostituzione delle pene detentive brevi – risulti foriera di
palesi incongruenze.
A mente degli artt. 53 e 57, terzo comma, della legge n. 689 del
1981, un giorno di pena detentiva e’ infatti suscettibile di venir
sostituito, come gia’ ricordato, con due giorni di liberta’
controllata. Per converso, 250 euro di pena pecuniaria – attualmente
equivalenti, in base al novellato art. 135 cod. pen., ad un giorno di
pena detentiva – nel caso di indigenza del condannato, si convertono
in sette giorni di liberta’ controllata. Non essendo, d’altra parte,
contestabile che la condanna alla reclusione o all’arresto sia
comunque piu’ grave della condanna alla multa o all’ammenda
"equivalente", si assiste al paradosso per cui la fattispecie meno
grave riceve un trattamento nettamente piu’ sfavorevole di quella
connotata da maggior disvalore. Si tratta di un paradosso chiaramente
lesivo del principio di eguaglianza, anche perche’ ribalta la
prospettiva di contenimento delle conseguenze negative
dell’incapacita’ di provvedere al pagamento delle pene pecuniarie, in
cui versano i soggetti economicamente piu’ deboli, conformemente alle
indicazioni della sentenza n. 131 del 1979 di questa Corte.
A tale incongruenza si aggiunge quella riscontrabile nei casi di
cosiddetta "conversione di secondo grado". Nell’ipotesi in cui il
giudice ritenga di dover applicare la pena pecuniaria in sostituzione
di quella detentiva, la quantificazione della pena pecuniaria dovra’
essere, infatti, operata sulla base del nuovo importo di ragguaglio
stabilito dall’art. 135 cod. pen. (costituente il parametro per la
determinazione del «valore giornaliero» di sostituzione, a mente
dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981); di contro,
ove il condannato risulti successivamente insolvibile, detta pena
sostitutiva dovra’ essere convertita in liberta’ controllata alla
stregua dell’assai piu’ basso coefficiente tuttora previsto dall’art.
102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981. Ne consegue che,
qualora il condannato violasse sin dal primo giorno le prescrizioni
inerenti alla liberta’ controllata applicata in sede di conversione,
egli si troverebbe a dover espiare, a norma dell’art. 108, primo
comma, della legge n. 689 del 1981, un periodo di pena detentiva pari
– anche nella migliore delle ipotesi (salvi i limiti massimi di
durata delle sanzioni "da conversione") – a oltre sei volte il
periodo di pena detentiva originariamente preso a base dal giudice
nella sentenza di condanna. In altre parole, nelle ipotesi in cui si
renda necessario convertire la liberta’ controllata in pena detentiva
per violazione delle prescrizioni, le conseguenze risultano diverse a
seconda che tale sanzione sia stata applicata in sostituzione di pene
detentive (nel qual caso la violazione determinera’ il semplice
ripristino della pena detentiva sostituita, ai sensi dell’art. 66
della legge n. 689 del 1981), ovvero in sede di conversione di pene
pecuniarie per insolvibilita’ del condannato, evenienza nella quale
gli effetti risultano, sotto il profilo dianzi indicato,
paradossalmente piu’ afflittivi.
7.- In conclusione, va ribadito che non e’ precluso al
legislatore introdurre eventuali differenziazioni tra i due
coefficienti di cui si discute, purche’ si tratti di scelta
rispondente a criteri di ragionevolezza, avuto riguardo alle
conseguenze del suo innesto nella complessiva disciplina della
materia.
Non essendo una tale evenienza riscontrabile nel caso oggi in
esame, questa Corte non puo’, dunque, che ripristinare nuovamente la
parificazione tra i coefficienti stessi, corrispondente
all’originaria opzione effettuata dallo stesso legislatore all’esito
di un corretto uso del proprio potere discrezionale.
L’art. 102, terzo comma, della legge n. 689 del 1981 va
dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in
cui, con riferimento al periodo successivo all’8 agosto 2009 (data di
entrata in vigore della legge n. 94 del 2009, che ha determinato il
disallineamento lesivo del parametro evocato), stabilisce che, agli
effetti della conversione delle pene pecuniarie non eseguite per
insolvibilita’ del condannato, il ragguaglio ha luogo calcolando euro
38, o frazione di euro 38, anziche’ euro 250, o frazione di euro 250,
di pena pecuniaria per un giorno di liberta’ controllata.
Resta impregiudicata, in quanto estranea all’odierno thema
decidendum, la questione relativa al tasso di conversione delle pene
pecuniarie in lavoro sostitutivo, rimasto fermo a euro 25 (questione
che, in riferimento all’assetto derivante dalla citata legge n. 402
del 1993, e’ stata oggetto di esame, da parte di questa Corte, con la
sentenza n. 30 del 2001).

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l’illegittimita’ costituzionale, sopravvenuta dall’8
agosto 2009, dell’art. 102, terzo comma, della legge 24 novembre
1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui
stabilisce che, agli effetti della conversione delle pene pecuniarie
non eseguite per insolvibilita’ del condannato, il ragguaglio ha
luogo calcolando euro 38, o frazione di euro 38, anziche’ euro 250, o
frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di liberta’
controllata.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 2012.

Il Presidente: Quaranta

Il Redattore: Frigo

Il Cancelliere: Melatti

Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2012.

Il Direttore della Cancelleria: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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