T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 05-01-2011, n. 1 Legittimità o illegittimità dell’atto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Nel ricorso introduttivo del presente giudizio, si espone in fatto che, con atto di vendita 1.10.1999, i fratelli A., V., L. e G.B. cedevano, al prezzo di 200 milioni di lire, alla G.. S.r.l. (di cui all’epoca erano soci lo stesso G.B. al 95% e la moglie al 5%) il fondo rustico denominato "Santo Stefano", della superficie complessiva di ha. 11.19.00 e comprendente l’edificio storico dell’ex monastero dei Camaldolesi, costruito nel 1400 e rimasto in stato di abbandono nel corso del "900.

Si espone ancora che il suddetto bene era di provenienza ereditaria e che il Sig. G.B. non ne mantenne l’intestazione diretta ma in data 1.10.1999 "lo fece vendere alla sua società agricola ad un prezzo assolutamente sottostimato" (circa 1/5 di quello stabilito in un precedente contratto preliminare di vendita del 1987, sospensivamente condizionato e mai perfezionatosi), per "poter eseguire i lavori di manutenzione beneficiando di un regime fiscale più conveniente" e stante la "sua pacifica commerciabilità per mancanza del vincolo ai sensi della legge sui beni culturali n. 1089/1939", mancanza dichiarata dal Soprintendente reggente con nota 20.1.2000, prot. n. 707.

L’esistenza del vincolo sarebbe emersa solo ad una successiva ricerca della Soprintendenza, come da nota 20.11.2000, n. 707/17177 dello stesso Soprintendente reggente e del Responsabile del procedimento.

Nel lasso di tempo sino ad allora trascorso, la G. S.r.l. aveva realizzato, a seguito di d.i.a. presentata il 24.12.1999, cospicui interventi edilizi di manutenzione straordinaria, tra cui il rifacimento del tetto per una superficie di 1.800 mq.

Anche dopo la "scoperta dell’esistenza del vincolo", vennero eseguiti ulteriori interventi di ristrutturazione, con regolari titoli concessori e parere favorevole della Soprintendenza, per un totale di euro 1.020.686, 98, come da perizia asseverata 12.3.2010, prodotta in giudizio.

In data 1.12.2009, G.. S.r.l. effettuava la denuncia alla Soprintendenza dell’atto di acquisto 1.10.1999, su suggerimento del notaio che si sarebbe dovuto occupare della stipula della convenzione tra G. e Comune di Collebeato, relativa ad un piano di recupero finalizzato ad altre opere di miglioramento del complesso de quo.

La Soprintendenza avviava l’iter di cui all’art. 62 D. Lgs. 42/2004, a seguito del quale il Comune di Collebeato emanava la deliberazione consiliare 24.2.2010, n. 7, preceduta dalla deliberazione giuntale (4.2.2010, n. 17) di espressione della volontà di esercitare la prelazione e seguita dalla determina dirigenziale 10.3.2010, n. 49, di assunzione di un prestito di euro 103.291, 38 con la Cassa DD.PP..

2. Avverso tali atti, vengono dedotte in ricorso le seguenti censure:

I) Violazione degli artt. 31 e 32 legge 1089/1939, dell’art. 149, comma 5 D. Lgs. 112/1998; falsa applicazione degli artt. 60, 61 e 62 D. Lgs. 42/2004.

Ad avviso di parte ricorrente, il regime della prelazione artistica vigente al momento della compravendita (1.10.1999) era quello della legge 1089/1939, secondo cui (art. 32) il diritto di prelazione da parte dello Stato (o da questo trasferito a Regione ed enti locali interessati) deve essere esercitato entro due mesi dalla denuncia, nella specie effettuata l’1.12.2009: il diritto di prelazione era dunque decaduto allorquando non solo è intervenuta (primi di maggio 2010) la notifica della deliberazione del Comune di Collebeato, ma sono stati assunti i menzionati atti giuntale e consiliare dello stesso Comune.

"In sostanza, il contratto stipulato l’1.10.1999 aveva un proprio contenuto negoziale, in parte deciso dai contraenti ed in parte (quanto alla condizione sospensiva della prelazione) imperativamentedalla legge, contenuto cristallizzato dall’accordo negoziale e dalla legge al momento della sua conclusione e non più modificabile in forza di disposizioni legislative sopravvenute, per definizione irretroattive".

In definitiva, "ogni atto di alienazione a titolo oneroso di bene culturale… soggiace alla disciplina vigente al momento della sua stipula", cosicché alla vendita de qua, conclusa sotto il previgente regime, non sarebbe applicabile l’art. 62 comma 4 del Codice dei beni culturali n. 42/2004, che ha introdotto la nuova figura della denuncia tardiva, con estensione del termine di tempo durante il quale la vendita resta assoggettata al potere conformativo dell’amministrazione (180 giorni per la notifica: NdE);

II) violazione degli artt. 31 e 32 legge 1089/1939 (o degli artt. 60, 61 e 62 D. Lgs. 42/2004) sotto altro profilo: si sostiene che, nel caso di specie, sarebbe sussistita una presupposizione "data dalla certezza del mantenimento del bene nell’alveo del patrimonio familiare del Sig. G.B.", perché diversamente il bene sarebbe stato conferito, previa divisione, al patrimonio societario della G. S.r.l., essendo all’epoca il conferimento alla società sottratto al diritto di prelazione artistica.

In altri termini, "la condizione implicita presupposta era dunque quella dell’insussistenza del vincolo… e perciò della prelazione artistica, sicché l’assetto che le parti avevano dato ai propri interessi si è trovato a poggiare su una base diversa da quella in virtù della quale era stato concluso il contratto".

E se il contratto del 1999 è nullo per difetto di presupposizione (nullità il cui accertamento spetterebbe in via incidentale al Giudice amministrativo), allora la prelazione artistica non potrebbe essere esercitata, per difetto del requisito legale costituito da un valido atto di alienazione a titolo oneroso;

III) violazione degli artt. 60, 61 e 62 D. Lgs. 42/2004 (se e in quanto applicabili) sotto altro profilo ed eccesso di potere per difetto di motivazione, secondo la seguente articolazione:

III.1) a proposito della necessaria copertura finanziaria che – ex art. 62, comma 2 Codice beni culturali – deve essere assicurata nella proposta di prelazione di Regione ed enti pubblici territoriali, i ricorrenti deducono che G. S.r.l. sarebbe possessore in buona fede o quantomeno lo sarebbe stata nel corso dei primi mesi dell’anno 2000 (quando eseguì gran parte dei lavori del complesso conventuale Santo Stefano e quando neppure Comune e Soprintendenza erano consci della sussistenza del vincolo) ed invocano pertanto l’applicazione, in proprio favore, delle seguenti disposizioni del Codice civile:

– art. 1150 (diritto al rimborso delle spese sostenute per le riparazioni straordinarie e a un’indennità per i miglioramenti arrecati alla cosa);

– art. 936 (corresponsione di un’indennità per le addizioni fatte sulla cosa);

– art. 1152 (diritto di ritenzione della cosa, fino alla corresponsione delle indennità dovute);

III.2.) pertanto, il Comune (che era a conoscenza delle opere eseguite da G.) avrebbe dovuto deliberare la necessaria copertura finanziaria non solo rispetto al prezzo pattuito nell’atto del 1999, ma anche in relazione all’indennizzo per i miglioramenti, come si desumerebbe anche dai principi affermati nella pronuncia 19.6.2001, n. 3241 della Sez. VI Cons. Stato, in tema di compensi all’intermediario della vendita del bene culturale;

III.3.) i suddetti indennizzi per miglioramenti non potrebbero, infatti, essere lasciati a carico dei privati;

III.4.) in ogni caso sarebbe "fuor di dubbio la sussistenza dell’obbligo in capo all’ente locale di corrispondere (il suddetto indennizzo per i miglioramenti) interamente in capo al privato", per cui la motivazione della deliberazione comunale "avrebbe dovuto investire l’impegno di spesa assunto per far fronte a tutti gli oneri ed esborsi conseguenti all’esercizio del diritto (di prelazione) e non solo quindi al pagamento del puro prezzo nominale dell’atto di alienazione del 1999, ma anche all’indennizzo per i miglioramenti (almeno un milione di euro) che il Comune comunque – ammesso e non concesso che la prelazione sia legittima – dovrà dapprima iscrivere a bilancio tra le passività e poi certamente pagare alla G. S.r.l.".

Senza di ciò, non potrebbe "dirsi compiutamente motivata la scelta di esercitare la prelazione e di valorizzare il bene culturale", tanto più che G. aveva depositato in Comune il 16.1.2009 schema di convenzione notarile, in cui dichiarava la propria disponibilità ad obbligarsi a soggiacere a un vincolo trentennale dell’attuale destinazione d’uso del complesso immobiliare (in parte residenziale, in parte agrituristica) senza possibilità di cessioni dello stesso per parti separate, nonché a concedere al Comune l’utilizzo gratuito della chiesetta per attività socio culturali e per dieci giorni all’anno;

III.5) inoltre, il difetto di motivazione emergerebbe anche in riferimento alle stesse finalità di valorizzazione indicate nella deliberazione consiliare, che avrebbero un contenuto limitato (ospitalità per gruppi associativi, museo per le arti e mestieri della valle del Mella, sede di uffici del Parco delle colline e di associazioni territoriali) e tale da implicare un supplemento motivazionale da parte del Comune circa la scelta della valorizzazione pubblica del bene, anziché quella privata, che pure G. S.r.l. aveva in concreto prospettato nella citata convenzione depositata in Comune il 16 gennaio 2009;

IV) violazione dell’art. 62 comma 2 D. Lgs. 42/2004 (se e in quanto applicabile) e degli artt. 1, 6, 111 dello stesso D. Lgs., difetto di motivazione: con questo mezzo, "si dubita" che la descrizione delle finalità di valorizzazione culturale (sopra specificate sub III.5) contenuta nel provvedimento consiliare impugnato sia sufficiente a realizzare il requisito di legge prescritto dalla norma di cui al secondo comma dell’invocato art. 62 Codice beni culturali, sia perché si tratterebbe di valorizzazioni più ambientalistiche che culturali; sia perché l’uso (ad es. da parte di gruppi di bambini e ragazzi) sarebbe "potenzialmente contrastante rispetto alle finalità di tutela";

V) violazione degli artt. 3 e 97 Cost. e del principio di imparzialità; dell’art. 42 Cost.; eccesso di potere per abuso del diritto e per sviamento; ulteriore violazione degli artt. 60, 61 e 62 D. Lgs. 42/2004: nel caso de quo l’abuso del diritto sisarebbe sostanziato "nell’approfittamento di un diritto potestativo a valenza pubblicistica per ottenere il risultato dell’acquisizione di un bene di interesse culturale di grande pregio con un esborso di gran lunga più modesto, anzi irrisorio, rispetto al suo valore effettivo e quindi con l’imposizione irrazionale al privato proprietario di un sacrificio iniquo e come tale abusivo".

Conseguentemente, la causa negoziale concreta sarebbe illecita e il contratto invalido; mentre il Comune avrebbe dovuto stanziare un importo corrispondente al valore effettivo che l’ex monastero aveva nel 2010 o, quantomeno, nel 1999.

In via subordinata, parte ricorrente – ritenendo possibile il superamento della precedente sentenza C. Costituzionale 20.6.1995, n. 269, anche alla stregua della successiva giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in tema di incongruità degli indennizzi espropriativi – deduce l’incostituzionalità dell’art. 60 D. Lgs. 42/2004 e delle altre norme relative alla prelazione artistica, nella parte in cui non prevedono che – in caso di pattuizione di prezzi oggettivamente inferiori al valore del bene culturale alienato, giustificata da ragioni oggettive (quale l’ignoranza senza colpa del vincolo) – il valore del bene debba essere determinato ai sensi dei successivi commi 2 e 3 dell’art. 60, in luogo di quello stabilito nell’atto di alienazione; e laddove consentono l’esercizio della prelazione in ogni tempo.

3. Costituitosi in giudizio, il Comune di Collebeato ha depositato documentazione e, in data 15 novembre 2010, memoria conclusiva, nella quale rappresenta, in fatto che:

– l’immobile di cui è causa risulta oggetto di vincolo monumentale ex l. 1089/1939, apposto con D.M. 17.10.1941, trascritto presso la Conservatoria dei Registri immobiliari di Brescia con nota 26.11.1941;

– il carattere vincolato del bene è stato segnalato dal Comune sin dalla nota 5.1.2000, relativa alla D.I.A. presentata il 27.12.1999;

– (solo) con nota 15 gennaio 2010 la Soprintendenza ha comunicato (anche) al Comune l’intervenuta denuncia tardiva di trasferimento di proprietà, escludendo l’acquisto del bene da parte dello Stato;

– infine, con nota 12.2.2010, la Soprintendenza prendeva atto della proposta di prelazione da parte del Comune.

In diritto, il Comune replica alle censure avversarie, contestandone complessivamente la fondatezza nel merito e formulando, in rito, le seguenti, specifiche eccezioni:

– inammissibilità del difetto di presupposizione, dedotto con il secondo motivo, in quanto per un verso il privato non potrebbe "essere ammesso ad impugnare davanti al G.A. i provvedimenti autoritativi concernenti la prelazione dei beni culturali adducendo questioni civilistiche relative all’asserita patologia del negozio traslativo dal medesimo posto in essere"; e, per l’altro, sarebbe inammissibile "ogni argomento svolto sulla scorta della presunta mancata conoscenza del vincolo";

– estraneità alla giurisdizione del G.A. (e spettanza all’AGO) di tutte le questioni (poste con il terzo motivo) afferenti alle "asserite debenze che con il prezzo nulla c’entrano" e al diritto di ritenzione;

– inammissibilità della doglianza di cui al quarto mezzo di gravame, in quanto sconfinante con valutazioni di merito;

– inammissibilità della censura di cui al quinto e ultimo motivo, sotto il duplice profilo che essa costituirebbe "una riformulazione della tesi della presunta mancata conoscenza del vincolo", di cui al secondo motivo; e che l’abuso del diritto ivi denunciato sarebbe istituto prettamente civilistico.

Inoltre, il Comune contesta anche la fondatezza della questione di legittimità costituzionale formulata da controparte.

4. Quest’ultima ha provveduto a dimettere, in vista dell’odierna udienza di discussione, due distinte memorie difensive:

– la prima (depositata il 16 novembre 2010), riprende "alcuni temi giuridici sottesi ai motivi di ricorso e la sollevata eccezione di incostituzionalità" e fa espressa riserva di replicare alle difese dell’Amministrazione resistente;

– la seconda (depositata il 25 novembre 2010) sviluppa analiticamente tale replica.

5. Infine, all’odierna pubblica udienza i difensori delle parti hanno, altresì, illustrato oralmente le rispettive tesi.

In particolare, nel corso della medesima udienza il difensore di parte ricorrente ha chiesto di poter contestualmente produrre copia del precedente atto di compravendita 23 luglio 1959 (di acquisto del bene in parola da parte dei "de cuius" dei soggetti che figurano, a loro volta, quali venditori nell’atto 1.10.1999), in quanto neppure tale precedente contratto di alienazione da parte dell’Ospedale civile di Brescia (solo di recente materialmente acquisito) farebbe menzione dell’esistenza del vincolo storicoartistico.

A tale produzione non si è opposto il difensore del Comune resistente: in considerazione di tale non opposizione e della natura di processo di parti del giudizio amministrativo (ulteriormente sottolineata dalle disposizioni di cui al nuovo C.p.a.), il Collegio ha consentito tale deposito tardivo ai sensi dell’art. 54, comma 1 del medesimo C.p.a.

Indi, la causa è passata in decisione.

6.1. Ciò premesso, il Collegio osserva che risulta comprovata in causa (cfr. produzione documentale del Comune) e pacifica tra le parti (cfr. parte conclusiva della denuncia ex art. 59 e ss. D. Lgs. 42/2004, presentata l’1.12.2009 dai Sigg. Luigi e G.B.) una circostanza storica, dirimente ai fini del decidere: e cioè che l’importante interesse del Monastero dei Camaldolesi, sito in Collebeato, frazione S. Stefano, è stato notificato al proprietario pro tempore (Ospedale civile di Brescia) il 27 ottobre 1941 e tale notifica è stata successivamente trascritta presso la Conservatoria delle ipoteche di Brescia (il 26 novembre 1941).

6.2. Invero, altrettanto pacifiche sono le implicazioni giuridiche che la giurisprudenza trae dall’avvenuto espletamento dei menzionati adempimenti, previsti dall’art. 2 legge 1089/1939, all’epoca vigente, e cioè rispettivamente che:

i) "un vincolo legittimamente imposto con la notifica al proprietario del bene non può ritenersi caducato per effetto del trasferimento del bene ad esso relativo non accompagnato da una informazione dell’alienante in ordine alla esistenza del vincolo medesimo, stante la natura reale del vincolo stesso e l’irrilevanza, ai fini della sua sussistenza ed operatività, di attività privatistiche implicanti, eventualmente, azioni civilistiche di responsabilità connesse all’obbligo di esatte informazioni nel procedimento relativo alla formazione dei contratti" (cfr. capo 1.2. sentenza Consiglio di stato, sez. IV, 7 novembre 2002, n. 6067);

ii) "la trascrizione del vincolo storicoartistico ha natura costitutiva che si realizza con la iscrizione nei registri immobiliari e con la sua notifica nei confronti del soggetto attualmente proprietario, senza che sia necessaria ulteriore notifica nei confronti dei suoi successori o aventi causa a sua volta" (capo 6 sentenza Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 luglio 2009, n. 4369, che riprende, sul punto, la citata n. 6067/2002);

iii) ovvero, "il vincolo culturale si radica erga omnes al momento della trascrizione del decreto appositivo" e "ha natura reale ed è opponibile a tutti i soggetti che divengono proprietari"; e ancora "il vincolo pubblicistico, una volta trascritto, dispiega senz’altro i suoi effetti conformativi nei confronti del proprietario attuale e di tutti i suoi successori e aventi causa" (capo 8 della menzionata sentenza CdS n. 4369/2009, che così da ultimo parafrasa il comma 2 dell’art. 2 legge 1089/1939);

iv) in particolare, il proprietario "di un bene vincolato e trascritto nei registri immobiliari in data precedente il suo acquisto, non potrebbe esimersi dall’osservare tutte le prescrizioni che connotano la disciplina vincolistica di legge relativa al bene, non escluso l’obbligo di "denuntiatio" in caso di sua futura alienazione" (ancora capo 8 sentenza CdS n. 4369/2009);

v) tra queste prescrizioni conformative cui il proprietario è "astretto", rientra – stante "la normale dissociazione dominicale tra autorità vigilante e privato proprietario", derivante dalla natura conformativa del vincolo – anche l’eventualità della prelazione ad opera dell’Autorità amministrativa (idem).

6.3. La sentenza n. 4369/2009, sin qui ampiamente richiamata, qualifica, poi, espressamente come "sanzionatoria" la particolare ipotesi diprelazione postuma che si è trovata a giudicare.

Il Collegio ritiene tale qualificazione particolarmente confacente e condivisibile rispetto al caso di specie, che risulta assimilabile a quello deciso dalla sentenza in parola per la problematica giuridica di fondo (esercizio della prelazione c.d. "artistica" o "culturale" a distanza di un lungo lasso di tempo – in quel caso 19 anni – dall’atto di compravendita dell’immobile vincolato) e, viceversa, se ne differenzia quanto alle seguenti circostanze fattuali:

– mancata notifica dell’atto di vincolo al proprietario pro tempore:la notifica del vincolo era stata effettuata alla moglie dell’intestatario catastale, tuttavia deceduto e al quale era invece già succeduto (con atto notarile di divisione ereditaria, trascritto in data anteriore alla dichiarazione di rilevante interesse) il figlio, poi divenuto dante causa della ricorrente, la quale aveva acquistato nel 1983 il bene, successivamente oggetto di prelazione nel 2002;

– totale omissione di denuntiatio al Ministero dei beni culturali.

Orbene, in siffatta situazione, la Sez. VI ha, in primo luogo, ritenuto al capo 6 che "non par dubbio, anzitutto, che la disposizione di cui ha fatto applicazione il Ministero nel caso in esame (si tratta dell’art. 135 T.U. n. 490/1999, in vigore all’epoca di adozione dell’esercizio della prelazione mediante D.M. 18 marzo 2002: NdE), ha valenza di misura sanzionatoria (sia pure sui generis) rispetto a comportamenti non conformi ai dettami della legge, con particolare riferimento all’onere di denuncia al Ministero di ogni atto di trasferimento (inter vivos o mortis causa) che dovesse coinvolgere un bene culturale che sia stato dichiarato di interesse particolarmente importante. Lo rivela inequivocabilmente già la lettera della rubrica "violazioni in atti giuridici" e più ancora l’inserimento della disposizione nel capo VII del Testo unico, relativo alle "sanzioni". Altrettanto indiscutibile è che la previsione dell’esercizio postumo (evidentemente sempre facoltativo) della prelazione legale risulta strettamente connessa alla sanzione civilistica della nullità dell’atto compiuto in violazione della richiamata norma imperativa, dato che la prelazione necessariamente si innesta, nel concorso della volontà amministrativa, sull’effetto dissolutorio prodotto sul contratto dalla applicazione ope legis della più grave sanzione conosciuta dal diritto civile (la nullità, appunto). In definitiva, sia la nullità dell’atto, sia la prelazione postuma d’acquisto, sanzionano l’inadempimento allo stesso obbligo legale costruito a protezione dell’interesse culturale insito nel vincolo. Anche la Corte costituzionale (sentenza n. 269 del 1420 giugno 1995) pur soffermandosi sulla natura sostanzialmente ablatoria dell’istituto predisposto a tutela di beni protetti dall’art. 9 della Costituzione, non ha mancato di evidenziare (nel disattendere le censure di illegittimità costituzionale prospettate proprio in relazione all’art. 61 l. 1089/39) che "il danno economico che i contraenti vengono a subire in conseguenza dell’esercizio ritardato della prelazione da parte della Amministrazione non è altro che la conseguenza diretta dell’inadempimento realizzato dagli stessi contraenti a seguito della mancata presentazione di una denuncia regolare".

Ciò detto, il Collegio, muovendo dal rilievo secondo cui le ipotesi di responsabilità senza colpa sono considerate con deciso sfavore dall’ordinamento e perciò relegate in fattispecie tassative che qui palesemente non ricorrono, è dell’avviso che in tanto può trovare applicazione il particolare meccanismo sanzionatorio appena descritto, in relazione alla omessa denuncia del trasferimento al Ministero competente ai fini dell’eventuale esercizio del diritto di prelazione, in quanto sia predicabile una responsabilità di almeno una delle parti che hanno posto in essere l’atto di compravendita; pertanto, ai fini della verifica della eventuale violazione dell’obbligo di denuncia, non potrebbe mancare la preliminare verifica in ordine alla "opponibilità" del decreto di vincolo al proprietario, possessore o detentore del bene culturale, ovvero all’erede (nel caso in cui la trasmissione avvenga per successione a causa di morte)."

Quindi, nel caso sottoposto al suo esame, la Sezione ha concluso:

* che il "proprietario del bene ma non anche destinatario della notifica di vincolo, non poteva assumere in relazione all’atto del 1983 la veste di soggetto obbligato ad eseguire la "denuntiatio"";

* che tale veste neppure poteva assumere la acquirente,in quanto non rientrante tra i soggetti obbligati ex art. 58 T.U., il qualeaveva aggiunto, tra questi, anche il soggetto acquirente, ma solo nei casi – colà non ricorrenti – di trasferimento avvenuto nell’ambito di procedure di vendita forzata o fallimentare ovvero in forza di sentenza che produca gli effetti di un contratto di alienazione non concluso;

* che "in tale contesto giuridicofattuale, risulta evidente che non legittimamente l’Amministrazione si è avvalsa, nel caso in esame, della facoltà di esercitare, a distanza di ben 19 anni dall’atto traslativo della proprietà, la prelazione legale sull’immobile di proprietà dell’odierno appellante. Come anticipato, detta prelazione, che produce l’effetto di sconvolgere l’assetto dominicale consolidatosi nel tempo e suggellato dal più volte citato atto di compravendita del 1983, non ha fatto seguito al doveroso accertamento della violazione dell’obbligo legale di denuncia del trasferimento – invero smentita alla luce delle svolte considerazioni – da parte dei soggetti che la legge individua come "obbligati"".

In definitiva, secondo la VI Sezione, "la individuazione di un colpevole inadempimento" funge da "presupposto ineludibile per l’applicazione dell’istituto della prelazione "sanzionatoria""; e ciò non contrasta con l’acquisizione giurisprudenziale secondo cui"una volta che sia rimasto inadempiuto l’onere della denuncia, la Amministrazione conserva senza limiti temporali la facoltà di esercitare la prelazione del bene… con la conseguenza che, ove manchi la denuncia, il diritto di prelazione non è soggetto a termine decadenziale ai fini del suo esercizio": "ma il presupposto fondamentale è che sia stata pur sempre eseguita ritualmente la notifica del vincolo, nei sensi anzidetti."

6.4. Il Collegio condivide le argomentazioni che precedono e che riconfermano, sviluppandola, la precisazione sul (particolare) carattere sanzionatorio della misura della prelazione, contenuta nella sentenza della C. Costituzionale in materia (n. 269/1995 – capo 4), richiamata anche da parte ricorrente nel porre la questione di costituzionalità dispiegata nell’atto introduttivo del giudizio.

A sua volta, il Collegio osserva sul piano ermeneutico, che:

a) la sentenza Cons. Stato n. 4369/2009 individua quale naturale parametro di legittimità dell’atto ministeriale di esercizio della prelazione postuma, la norma di cui lo stesso fa espressa applicazione, cioè l’art. 135 del T.U. n. 490/1999, che rappresentava la normativa di settore vigente al momento (2002) di adozione dell’atto, ma sopravvenuta rispetto all’epoca (1983) di stipulazione di quel contratto che funge da necessario antecedente alla prelazione medesima;

b) in particolare, la sentenza utilizza la dislocazione "topografica" della norma all’interno del T.U. (capo VII, relativo alle sanzioni) e lettera della sua rubrica (violazioni in atti giuridici), per avvalorare la qualificazione sanzionatoria attribuita all’istituto della prelazione postuma;

c) questi ultimi dati testuali sono transitati immutati nel corpus dell’attuale Codice dei beni culturali, dove il corrispondente art. 164 è collocato nella parte (IV) ugualmente dedicata alle sanzioni e ha conservato la medesima rubrica.

6.5. Per tutto ciò, il Collegio ritiene applicabile al caso di specie anche il conclusivo principio, enunciato all’ultimo capo (8) della sentenza de qua, per cui " è legittimo sanzionare, a mezzo di prelazione postuma sull’atto di trasferimento, il comportamento di chi ha omesso di effettuare la denuntiatio solo se questi risulti essere stato a sua volta destinatario della notifica di vincolo o, quantomeno, se la notifica sia stata eseguita, in data precedente il suo acquisto, in confronto di almeno uno dei suoi danti causa: ciò che nella specie non si è verificato."

7.1. Al contrario, è quanto, invece, si è verificato nel caso dell’ex Monastero dei Camaldolesi sito in Comune di Collebeato, laddove – come esposto al precedente punto 6.1. – il vincolo è stato ritualmente e tempestivamente notificato al proprietario pro tempore (dante causa del dante causa dei soggetti che sono intervenuti quali venditori nel contratto 1.10.1999) e trascritto presso la Conservatoria: in capo, dunque, ai medesimi soggetti gravava – come espressamente affermato nel passo della sentenza n. 4369/2009, riportato alla lettera iv) del precedente punto 6.2. – l’obbligo di denuntiatio ex art. 30 legge 1089/1939, a quella data vigente, in quanto proprietari "di un bene vincolato e trascritto nei registri immobiliari in data precedente il suo acquisto".

Alla luce di queste circostanze di fatto, si è, dunque, integrato, nel caso qui all’esame, il necessario presupposto per "sanzionare" mediante prelazione postuma il comportamento colpevole di chi era ex lege tenuto a notiziare la competente Amministrazione dell’atto di trasferimento della proprietà a titolo oneroso e lo ha fatto solo a distanza di dieci anni.

All’omissione in toto, gli articoli 61 e 62 dell’attuale Codice dei beni culturali equiparano, infatti, l’ipotesi di denuncia tardiva ovvero incompleta, riconducendo ad unità le sorti dell’atto traslativo, indipendentemente dalla singola fattispecie, e – in ossequio ai principi del diritto comunitario in materia di tutela dei diritti fondamentali e al fine di dare certezza alla posizione dei privati, in precedenza esposti sine die in questi casi alla facoltà dell’Amministrazione di esercitare in ogni tempo il diritto di prelazione – ha fissato un più ampio, ma preciso termine (180 gg. dalla denuncia tardiva o dalla completa conoscenza, aliunde acquisita dal Ministero) per l’acquisto in via di prelazione al verificarsi di una qualsiasi delle suddette tre eventualità.

E nel caso di specie, in cui l’impugnata deliberazione n. 6/2010 è stata notificata nei giorni 10, 11 e 12 maggio 2010 (doc. 12 del Comune) la prelazione risulta tempestivamente e legittimamente esercitata entro il suddetto termine di 180 giorni dalla denuncia presentata dai Sigg. Barbi il 1° dicembre 2009.

7.2. A tale conclusione, parte qui ricorrente contrappone due argomenti, corrispondenti ai primi due mezzi di impugnazione:

I) che non sarebbe ratione temporis applicabile il nuovo Codice dei beni culturali, il quale ha introdotto l’istituto della denuncia tardiva ed esteso, in questa ipotesi, a 180 giorni il termine per l’esercizio della prelazione: donde la tardività della prelazione, invece esercitata oltre il termine di due mesi, stabilito dall’art. 32 legge 1089/1939, normativa che sarebbe stata "cristallizzata" al momento della sottoscrizione del contratto (1.10.1999), nell’assunto che "ogni atto di alienazione a titolo oneroso di bene culturale… soggiace alla disciplina vigente al momento della sua stipula";

II) che il suddetto contratto sarebbe nullo per difetto di presupposizione (data dalla certezza del mantenimento del bene nell’alveo del patrimonio familiare) e dunque verrebbe a mancare il necessario requisito legale (valido atto di alienazione a titolo oneroso) per l’esercizio della prelazione.

7.3. Quanto al primo argomento, si richiamano innanzitutto le osservazioni sul piano ermeneutico svolte alle lettere a) e b) del precedente punto 6.4, circa la piana applicazione, da parte della sentenza CdS n. 4369/2009, della normativa vigente al momento dell’esercizio della prelazione da parte dell’Amministrazione e non dell’atto di compravendita da parte del privato.

Né, soggiunge il Collegio, ci si può sorprendere di tale "piana applicazione": non si tratta altro, infatti, che della naturale conseguenza del carattere sanzionatorio rivestito dalla prelazione nei casi di omessa denuncia, nonché – secondo l’attuale Codice – di denuncia tardiva oppure incompleta.

Invero, la giurisprudenza civile e amministrativa del Consiglio di Stato è ferma nel senso che, nei procedimenti amministrativi sanzionatori – quale, come sopra esposto, è, seppur sui generis quello de quo – occorra fare applicazione del principio "tempus regit actum", il quale implica che "l’entrata in vigore, prima dell’emanazione dell’atto irrogativo della sanzione, della nuova disciplina del procedimento… comporta l’applicabilità della nuova disciplina… ai procedimenti… ancora in corso" (cfr. Cassazione civile, sez. I, 14 gennaio 1998, n. 258, Capo 2, fattispecie relativa a sanzione irrogata dal Ministro del Tesoro in materia bancaria e creditizia).

Ma in una fattispecie ancora più calzante rispetto a quella di cui qui si controverte (elevazione – mediante decreto legge n. 391 del 1999 – da sessanta a centottanta giorni del termine stabilito dall’art. 204 Codice della strada per l’emissione, da parte del Prefetto, dell’ordinanzaingiunzione, in tema di violazioni al Codice medesimo), la stessa sez. I della Cassazione civile ha successivamente affermato (17 marzo 2005, n. 5820), "quanto alla successione nel tempo delle leggi di modifica" del predetto termine (tra cui anche la n. 340 del 2000) che, secondo la giurisprudenza della Corte la normativa del decreto legge n. 391 del 1999 e quella della legge n. 340 del 2000 "si applicano anche alle fattispecie non ancora esaurite alla data della entrata in vigore di ciascuna di esse, ancorché la violazione sia stata compiuta e accertata precedentemente (Cass. 28 maggio 2004, n. 10272; 17 dicembre 2003, n. 19323; 6 dicembre 2002, n. 17350)".

Invero, la Corte ha declinato il principio generale secondo il quale tempus regit actum – tale per cui, nell’ambito dei procedimenti amministrativi, in caso di sopravvenienza di nuove normative, ciascun atto di ogni serie procedimentale all’interno del procedimento deve uniformarsi alla disciplina vigente al momento della sua adozione (Cass. 30 ottobre 2003, n. 16302; Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 1999, n. 694) – nel senso specifico che "tale affermazione di principio, che riguarda essenzialmente la forma degli atti e in generale la regolamentazione della struttura del procedimento, è applicabile anche alle norme riguardanti i termini per il compimento dei singoli atti procedimentali, non ravvisandosi ragioni di ordine logico o sistematico che possano imporre di derogarvi", con conseguente applicabilità ai procedimenti in corso delle norme in materia di termini, che entrino in vigore prima del momento conclusivo della relativa fase procedimentale.

Tornando al caso di specie, il peculiare procedimento (sanzionatorio) di cui qui si controverte è stato aperto dalla denuncia tardiva 1.12.2009 dei Sigg. Balbi, per cui è alla normativa vigente al tempo di svolgimento del procedimento (Codice dei Beni culturali del 2004) che occorre fare riferimento in materia di termini per l’esercizio della prelazione e non già a quella in vigore all’epoca (1.10.1999) della stipulazione del contratto non tempestivamente denunciato.

La questione di diritto intertemporale posta con il primo motivo di ricorso e ripresa nella prima memoria 16.11.2010 di parte ricorrente va, dunque, risolta nel senso prospettato non già da quest’ultima, bensì nella memoria conclusiva del Comune, ove si sostiene esattamente che "al procedimento amministrativo non può che essere applicabile la disciplina procedimentale vigente al momento in cui lo stesso è posto in essere".

7.4. Ugualmente da disattendere è il secondo argomento di parte ricorrente (nullità per difetto di presupposizione del suddetto contratto: secondo motivo).

A proposito del quale si rivela nuovamente puntuale l’eccezione di inammissibilità, sollevata dal Comune e supportata dal richiamo ad altra recente e pertinente (ratione materiae) pronuncia della Sez. VI del Consiglio di Stato (27 febbraio 2008, n. 713), secondo la quale è pacifico in giurisprudenza (ivi citata) che i limiti dell’accertamento incidentale effettuato dal G.A. (ai sensi dell’art. 8 L. n. 1034/71 allora vigente) "non possono sconfinare nella vera e propria tutela dei diritti e consistere, quindi, nella soluzione di controversie riservate all’Autorità giudiziaria ordinaria, con conseguente circoscrizione del sindacato giurisdizionale di cui trattasi al contenuto oggettivo degli atti, che siano fonte costitutiva o anche meramente ricognitiva di un diritto, senza che il sindacato stesso possa estendersi ad ulteriori atti o fatti modificativi delle situazioni giuridiche, come usucapioni, prescrizioni, devoluzioni o manifestazioni atipiche di volontà contrattuale".

In quella fattispecie si contestava l’intervenuta prelazione ex artt. 60 e seguenti del D.Lgs. 22.1.2004, n. 42, che avrebbe dovuto ritenersi, oltreché tardiva, impropriamente esercitata in rapporto ad un atto simulato e, sulla scorta del suindicato principio, la Sez. VI ha affermato che le argomentazioni difensive di parte appellante (in tema di negozio simulato, ovvero di negozio indiretto e fiduciario) si sarebbero, piuttosto, dovute rappresentare in sede civile.

Analogamente occorre, dunque, concludere in riferimento alle deduzioni di G. circa la nullità del negozio 1.10.1999 per difetto di presupposizione.

7.5. Il Collegio non intende tuttavia arrestarsi a tale assorbente considerazione in rito, e ciò anche tenendo conto della definizione giuridica, recentemente attribuita in dottrina alla prelazione artistica quale "fattispecie a formazione progressiva", rappresentata da elementi di carattere privatistico e di carattere pubblicistico, in virtù del fatto che presupposto per l’esercizio della prelazione stessa è un negozio traslativo ed oneroso tra privati, su cui si innesta poi un’azione di imperio dello Stato o degli altri Enti pubblici indicati per legge: un procedimento che trova la sua fonte nel contratto e mediante il quale tali soggetti pubblici possono ingerirsi autoritativamente nella contrattazione privata, attraendo unilateralmente il bene nella propria sfera giuridica, senza surrogarsi nella posizione del terzo contraente (l’art. 60 Codice beni culturali, come già la normativa previgente in materia, prevede la non vincolatività delle clausole del contratto per lo Stato).

Si tratta, peraltro, di un’ulteriore elaborazione e sistematizzazione di un passaggio motivazionale della più volte citata sentenza della Corte Costituzionale n. 269/1995, secondo cui (cfr. Capo 3) va considerato "che, a differenza di quanto accade nelle ordinarie procedure espropriative, la prelazione viene a collegarsi ad una iniziativa (trasferimento a titolo oneroso) che non è attivata dalla parte pubblica, bensì dalla parte privata, titolare del bene: e questo nonostante che la stessa prelazione, ove sia esercitata in conseguenza della violazione di un preciso obbligo imposto al privato (denuncia del trasferimento), venga chiaramente a configurarsi come istituto in cui prevale, sul profilo negoziale, il profilo autoritativo".

In continuità e coerenza con la tesi propugnata dal Giudice delle leggi, si deve – allora e conclusivamente – ritenere che lo ius praelationis dello Stato e degli altri Enti pubblici indicati dalla legge conservi, dunque, un carattere autoritativa, che implica una totale autonomia rispetto alle vicende patologiche del negozio sotteso.

In siffatta e peculiare fattispecie a formazione progressiva, il negozio traslativo dei privati è solo il presupposto all’esercizio del diritto di prelazione da parte della p.a. che, intervenuta nel rapporto contrattuale, non subentra – come detto – nella posizione dell’acquirente, ma avoca a sé il bene con il provvedimento di esercizio dello ius praelationis, il quale comporta il trasferimento della proprietà in capo alla p.a. medesima e l’obbligo di corresponsione del prezzo, a nulla rilevando le vicende estintive o modificative del contratto a monte (nullità, annullabilità, ecc.).

E tale impostazione teorica si sta facendo strada anche nella più recente giurisprudenza amministrativa (successiva alla menzionata Cons. Stato n. 713/2008), che – sul piano generale – tende ad attribuire al negozio di trasferimento a titolo oneroso del bene, in uno con la dichiarazione di alienare del proprietario del bene culturale, il ruolo di presupposto (oggettivo) del procedimento destinato a sfociare nella prelazione (si veda, in tal senso: T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, 11012010, nn. 6 e 7).

Anzi, secondo l’ancor più recente T.A.R. Lazio, Sez. II quater, 17062010, n. 18615, l’atto di alienazione intervenuto tra i privati non configura neppure un presupposto, "quanto piuttosto, una mera "occasione" per l’esercizio del diritto di prelazione" eper "l’avvio del procedimento ablatorio, nel quale rileva solo come "fatto giuridico"".

Occasione storica e fatto giuridico sussistenti nel caso dell’ex Monastero dei Camaldolesi di Collebeato e rispetto ai quali risulta, dunque, indifferente e ultronea, nel presente giudizio, ogni indagine (invece richiesta a questo giudice dal secondo mezzo di impugnazione) sull’eventuale esistenza di una "condizione implicita presupposta" (certezza del mantenimento del bene nell’alveo del patrimonio familiare del Sig. G.B.) ossia di una premessa implicita del consenso alla vendita manifestato dai proprietari del bene culturale de quo con l’atto 1.10.1999.

E ciò vale anche per le eventuali ragioni, ulteriori e di altra natura (fiscale, come prospettato dai ricorrenti) che avrebbero indotto i contraenti a concludere il contratto ad un prezzo non assolutamente corrispondente a quello di mercato.

7.6. Ciò nondimeno e per completezza di disamina, il Collegio non intende esimersi dall’affrontare, seppur nella forma di un programmatico e autoqualificato obiter dictum, anche siffatta problematica squisitamente civilistica, sollevata da parte ricorrente.

E’, invero, del tutto agevole osservare che in tanto la tesi della nullità del contratto per il suddetto difetto di presupposizione può sostenersi, in quanto risulti plausibile e ammissibile il preteso convincimento dei venditori (su cui si fonderebbe la sottintesa e implicita premessa della loro determinazione a vendere) in ordine alla libera circolazione giuridica del bene immobile de quo.

Ma ciò non può darsi nel caso de quo, in cui il vincolo è stato trascritto come richiesto dalla legge e, dunque, assoggettato al regime di pubblicitànotizia in cui consiste la trascrizione nei registri immobiliari.

Questo significa che il vincolo storico o artistico può essere riconosciuto usando l’ordinaria diligenza e a mezzo di normali visure ipocatastali, atteso che esso è oggetto di trascrizione, ma significa soprattutto che non è consentito invocare l’ignoranza dell’imposizione del vincolo opponibile – cfr. sul punto: T.A.R. Salerno, Sez. I, 31 ottobre 2003, n. 1475, di cui la sentenza Consiglio di Stato n. 4369/2009, più sopra richiamata, ha espressamente condiviso al capo 5 alcuni dei passaggi motivazionali della pronuncia (e questo non è stato confutato), sebbene non anche le conclusioni – come, invece, fanno i ricorrenti nel sostenere la nullità del contratto 1.10.1999 per difetto di presupposizione.

Né, evidentemente, può in contrario rilevare la nota 20.1.2000 con cui la Soprintendenza comunica il non reperimento, nei propri archivi, di alcun vincolo sull’immobile, poiché – in disparte la sua inidoneità a inficiare le risultanze dei registri immobiliari – essa si riferisce ad una richiesta del Sig. G.B. del 14 gennaio 2010, cioè successiva alla stipula del contratto e allo stesso spirare del termine di due mesi per la denuntiatio, e neppure completa, in quanto priva dell’originaria denominazione dell’immobile (cfr. la successiva rettifica soprintendentizia del 20.11.2000).

Del pari irrilevante, in punto di pretesa ignoranza incolpevole, è la circostanza che il contratto di compravendita del 1959 tra l’Ospedale civile di Brescia e il dante causa dei venditori del 1999 non facesse menzione del vincolo, giusta quanto diffusamente riportato al riguardo nel precedente capo 6.2.

In definitiva, il Sig. G.B. (nella duplice veste, assunta nel contratto 1999, di "covenditore" e di socio di maggioranza della Società acquirente) o sapeva o doveva sapere che la P.A. poteva esercitare la prelazione artistica, con la conseguenza che egli non poteva legittimamente presupporre alcuna giuridica certezza in ordine al mantenimento, comunque, del bene nell’alveo del proprio patrimonio familiare né invocarla in sede processuale amministrativa per opporsi all’inveramento di tale eventualità.

7.7. Ogni altra questione e doglianza in punto di responsabilità circa la mancata informazione sul vincolo trascritto (nell’illustrare ulteriormente il secondo motivo di ricorso con la seconda memoria 25.11.2010, il Sig. G.B. e G. S.r.l. fanno riferimento a una "ignoranza indotta dalla pubblica amministrazione – la Soprintendenza: NdE – e dagli accertamenti notarili") va, eventualmente, fatta valere in sede civile (cfr. la lett. "i" del capo 6.2. che precede), dove, ultimamente, particolare attenzione si presta al tema della responsabilità professionale del notaio rogante.

Infatti, anche recentemente la Suprema Corte ha ritenuto che "il notaio, pur fornendo una prestazione di mezzi e non di risultato, è tenuto a consentire la realizzazione dello scopo voluto dalle parti con la diligenza media, riferibile alla categoria professionale di appartenenza, curando le adeguate operazioni preparatorie all’atto da compiere, senza ridurre la sua opera alla passiva registrazione delle altrui dichiarazioni" (Cass. civ., Sez. II, 20 luglio 2005, n. 15252, secondo cui "In tema di usucapione decennale di beni immobili, la buona fede di chi ne acquista la proprietà in forza di un titolo astrattamente idoneo è esclusa soltanto quando sia in concreto accertato che l’ignoranza di ledere l’altrui diritto dipenda da colpa grave (art. 1147 c.c.); in linea generale, non può affermarsi che versi in colpa grave colui il quale, rivoltosi a un notaio per la redazione di un atto traslativo e non avendolo esonerato dal compiere le cosiddette visure catastali ed ipotecarie, addivenga all’acquisto in considerazione delle garanzie di titolarità del bene e di libertà dello stesso fornite dall’alienante, o apparente tale, e nella ragionevole presunzione che l’ufficiale rogante abbia compiuto le opportune verifiche").

7.8. Così come esula dai limiti del presente giudizio ogni altra possibile questione (qui, peraltro, più adombrata che propriamente posta in senso tecnicogiuridico) relativa alla pretesa incongruità del prezzo di vendita (che sarebbe inferiore ben ultra dimidium a quello reale di mercato), dovendo anche tale questione essere sollevata, semmai, nell’ambito dell’eventuale giudizio civilistico di cui si è appena fatto cenno o mediante l’esperimento degli specifici mezzi di tutela, sempre di natura esclusivamente civilistica, offerti dall’ordinamento.

8.1. Risulta, così, introdotto anche il tema del terzo argomento sostanziale (insufficienza del prezzo della prelazione), addotto da parte ricorrente a supporto della propria impugnativa e che investe, per l’appunto, il quantum stabilito nella deliberazione comunale di esercizio della prelazione, sotto il diverso e ulteriore profilo che il Comune avrebbe dovuto corrispondere al privato non solo il prezzo nominale dell’atto di alienazione del 1999, ma anche l’indennizzo per i miglioramenti da questo successivamente apportati all’edificio.

In particolare, a sostegno di detta pretesa parte ricorrente richiama (punto III.2) i principi desumibili dalla sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 19.6.2001, n. 3241, secondo cui nel prezzo, al quale esercitare la prelazione, andrebbe incluso anche il compenso pagato all’intermediario che abbia favorito la conclusione della vendita del bene culturale (nella specie: diritti d’asta).

8.2. Neppure questo argomento merita condivisione.

Invero, in via generale già la più volte citata sentenza C. Cost. 269/1995 ha affermato (cfr. ultimo periodo del capo 3) che "la corretta lettura della disciplina posta in tema di prelazione (e, in particolare, nell’art. 31, primo comma) induce a ritenere che anche per questa seconda categoria di soggetti (coloro che non hanno effettuato alcuna denuncia: NdE) il prezzo da erogare non possa essere altro che quello pattuito all’atto del trasferimento e non quello corrispondente al valore venale del bene all’atto della prelazione."

Tale principio conserva tuttora la sua validità nel sopravvenuto contesto normativo, in quanto:

– per un verso, l’art. 60 comma 1 dell’attuale Codice dei beni culturali (rubricato "acquisto in via di prelazione") ha riprodotto immutata la locuzione "medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione" contenuta nell’art. 31, primo comma legge 1089/1939, cui fa riferimento la sentenza n. 269/1995 della Corte Costituzionale;

– per l’altro, come già esposto, i successivi artt. 61 e 62 hanno equiparato all’omissione di denuncia la tardività della stessa.

Inoltre, al Capo 4 della sentenza de qua la Corte non ha mancato di farsi carico delle conseguenze che tale principio può determinare in caso di prelazione esercitata a distanza di molto tempo dalla alienazione, per effetto sia della svalutazione monetaria che della rivalutazione del bene sul mercato: ma – in ordine allo "scarto anche elevato tra prezzo corrisposto e valore reale del bene" (con conseguente danno economico per il venditore sottoposto a prelazione tardiva) – ha concluso che "il punto decisivo che va rilevato è che il danno economico che i contraenti vengono a subire in conseguenza dell’esercizio ritardato della prelazione da parte dell’Amministrazione non è altro che la conseguenza diretta dell’inadempimento realizzato dagli stessi contraenti a seguito della mancata presentazione di una denuncia regolare".

8.3. Quanto alla sentenza Cons. Stato n. 3241/2001 richiamata da parte ricorrente, va osservato che essa rappresenta poco più che una rara avis nel panorama giurisprudenziale e che nello stesso prevale attualmente e nettamente l’orientamento contrario, tanto in seno al Consiglio di Stato (cfr. parere Commissione speciale n. 2842/2002 del 17.12.2002, che si è espressa nel senso dell’esclusione, dal prezzo di prelazione, dell’ammontare corrispondente al compenso spettante a titolo di diritto d’asta); quanto nelle stesse sentenze del Giudice amministrativo di I grado sopra menzionate sub 7.5.

In primo luogo, T.A.R. Lombardia nn. 6 e 7 del 2010 vanno espressamente e motivatamente di diverso avviso rispetto a Cons. Stato n. 3241/2001; ma, soprattutto, T.A.R. Lazio n. 18615/2010 ha rilevato come sia stata proprio la citata decisione n. 3241/2001 a discostarsi dal filone interpretativo consolidatosi in giurisprudenza (C.d.S., sez. IV n. 400 del 10.6.87; n. 58 del 30.11.91; n. 226 del 3.4.92; n. 706 del 13.10.93; Cass., 26.6.1956, n. 2291), nel senso che non siano dovuti i diritti d’asta per l’attività di intermediazione svolta nella vendita all’asta di un bene vincolato, in quanto l’esercizio della facoltà di prelazione artistica non comporta l’inserimento dell’Amministrazione nel contratto originario, e la sua sostituzione alla parte acquirente, sicché la PA resta estranea al negozio originario e di conseguenza alle connesse pretese aventi ad oggetto i diritti d’asta.

In termini più generali, la pronuncia n. 18615/2010 del Tar Lazio riafferma la decisiva rilevanza dell’"inequivoco tenore letterale" dell’art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004 (che ha ribadito l’analoga previsione già sancita dall’art. 32 della legge n. 1089/39 e ripresa dall’art. 59 nel T.U. 490/99), tale per cui, nel silenzio del legislatore, la spettanza di eventuali compensi ad intermediari intervenuti nella conclusione dell’affare è stata costantemente esclusa in base all’interpretazione letterale della norma; e – rifacendosi anche ai rilievi critici mossi in dottrina all’indirizzo difforme dalle ripetute decisioni che hanno costantemente negato la possibilità di comprendere nel prezzo anche i costi delle attività accessorie (perizie, trasporto, assicurazione, consulenze legali etc.) – ha precisato che le questioni che dovessero insorgere nei rapporti tra Stato ed eventuali intermediari, restano disciplinate dal diritto comune e non entrano in alcun modo nel contenuto del provvedimento ablativo di prelazione, "atteso che la normativa in materia sancisce chiaramente il principio di separazione della serie negoziale intercorrente tra privati, a cui la PA resta estranea, non divenendo mai parte del contratto, nemmeno sostituendosi al privato acquirente, e la serie procedimentale che si conclude con il provvedimento di prelazione" e "dovendo le relative pretese essere fatte valere con le azioni previste dal codice civile davanti al giudice ordinario, trattandosi, all’evidenza, di questioni di diritti soggettivi".

8.4. Ad identiche conclusioni occorre, pertanto, pervenire nel caso di specie, escludendo, cioè, da un lato che – stante il tenore letterale dell’art. 60 D. Lgs. 42/2004 – la P.A. possa corrispondere, a titolo di prelazione, alcun "sovrapprezzo" rispetto al corrispettivo pattuito nell’atto di alienazione; e ribadendo, dall’altro, come le pretese di natura civilistica qui avanzate da parte ricorrente (in ordine al rimborso delle spese fatte per riparazioni straordinarie, alla corresponsione di un’indennità per i miglioramenti recati alla cosa e per le addizioni fatte, nonché all’esercizio del diritto di ritenzione) debbano essere fatte valere (come condivisibilmente eccepito dal Comune) esclusivamente con le azioni previste dal codice civile davanti all’AGO, trattandosi di questioni di diritti, che trovano previsione e disciplina in quegli stessi artt. 1150, 1152 e 936 c.c., espressamente richiamati al punto III.1. del ricorso introduttivo.

Devono, pertanto, essere disattese le deduzioni svolte, per sostenere le suddette pretese, oltre che ai punti III.1 e III.2, sin qui richiamati, al successivo e complementare punto III. 3.

8.5. Risulta, di conseguenza, insussistente anche l’asserito difetto di motivazione (sotto il profilo dell’effettivo impegno di spesa) imputato dall’ulteriore capo III.4. alla deliberazione consiliare impugnata che, del tutto correttamente e legittimamente, ha tenuto conto a fini contabili dell’unica voce di spesa "certa, liquida ed esigibile", siccome dovuta ex lege: quella, per l’appunto, corrispondente al prezzo di vendita pattuito nell’atto di alienazione 1.10.1999.

In termini, si veda Consiglio di Stato, sez. VI, 22 settembre 2008, n. 4569, che – in relazione ad analoga censura di omessa previsione, da parte del Comune esercente la prelazione, di un’adeguata provvista finanziaria a fronte del possibile esito negativo di un giudizio civile pendente – ha rilevato innanzitutto che "l’asserito profilo di illegittimità si fonda su un dato meramente ipotetico (la soccombenza dell’ente nell’ambito di un giudizio civile pendente) e non già su dati certi ed attuali che, soli, avrebbero potuto supportare la richiesta pronuncia di annullamento degli atti impugnati", e che "in secondo luogo la provvista finanziaria, nella specie approntata dal Comune, risulta essere stata determinata, nel suo quantum, in piena ottemperanza alla previsione di cui al comma 1 dell’art. 60, d.lgs. n. 4" (medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione).

8.6. Sempre in tema di prezzo, queste ultime considerazioni e quelle in precedenza esposte nelle varie articolazioni del presente capo 8, valgono a dimostrare l’inconsistenza anche del V motivo di ricorso, con cui – sempre a partire da una nozione civilistica (quella di abuso del diritto) – si sostiene la modestia, se non l’irrisorietà, del concreto esborso comunale rispetto al valore effettivo del bene e si conclude che, a pena di illegittimità, il Comune avrebbe dovuto stanziare un importo corrispondente al valore effettivo che l’ex monastero aveva al 2010 o, quantomeno, al 1999.

In particolare, a confutare tale assunto vale il richiamo al passo della sentenza C. Cost. n. 269/1995, sopra riportato in conclusione del capo 8.2. e che risolve la questione del danno da "ritardata prelazione" in un sostanziale imputet sibi riferito al contraente, inadempiente all’onere di tempestiva denuntiatio.

9.1. Ulteriori vizi motivazionali vengono dedotti in ricorso nei riguardi dell’impugnata deliberazione consiliare, sotto i seguenti profili:

– mancata ponderazione della valorizzazione privata prospettata da G. S.r.l. (ultimo punto III.5 del terzo motivo);

– valenza ambientalistica più che culturale della valorizzazione pubblica tratteggiata dal Comune (lett. A del quarto motivo);

– insufficienza della motivazione circa la valorizzazione culturale del complesso monumentale (lett. B dello stesso quarto motivo).

Anche tali doglianze non sono persuasive.

9.2. In primo luogo, i ricordati impegni assunti unilateralmente da G. nella bozza di convenzione depositata in Comune il 16 gennaio 2009 (conservazione per trent’anni della destinazione – in parte residenziale e in parte agrituristica – del complesso e astensione di pari durata da cessioni per parti separate dello stesso; concessione gratuita della chiesetta per attività socioculturali e per dieci giorni all’anno) non possono essere considerati idonei a integrare una corretta valorizzazione del bene culturale.

Invero, ai sensi dell’art. 6, comma 1 del Codice dei beni culturali (citato dalla stessa parte ricorrente nell’ambito della lett. B del IV motivo) "la valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso": e la (trentennale) destinazione di un ex monastero camaldolese a residenza e agriturismo, nonché l’uso gratuito della chiesetta per dieci giorni all’anno (peraltro "da concordare caso per caso previo preavviso di 20 giorni": cfr. art. 3 comma 6 della bozza di convenzione) non possono all’evidenza ritenersi modalità atte ad assicurare "le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica" dello stesso ex monastero.

9.3. Circa la pretesa accentuazione della valorizzazione "ambientale" a scapito di quella propriamente "culturale", si deve in contrario rilevare che all’interno dell’ampio paragrafo "finalità di valorizzazione", contenuto nell’apposita relazione allegata alla deliberazione consiliare n. 6/2010, i riferimenti di carattere ambientale sono quantitativamente modesti (si tratta in sostanza di un unico periodo – il secondo – sui dieci che compongono il paragrafo) e di "contesto", nel senso cioè di complessivo inserimento del bene culturale nella dimensione territoriale circostante, al fine di "una più ampia visione di governance del territorio che sia d’unione tra la conservazione del patrimonio storico culturale e la valorizzazionefruizione delle componenti paesistiche ambientali e socio economicolocali" (primo periodo del paragrafo).

La censura non ha, pertanto, ragion d’essere, in quanto la proposta del Comune si è limitata a dar conto della necessaria interrelazione tra le due specifiche tutele (quella ambientale e quella culturale).

9.4. Nei restanti periodi del paragrafo si delinea, poi, un quadro sufficientemente preciso delle concrete modalità con cui si intende perseguire la valorizzazione propriamente culturale del bene, fondamentalmente orientata alla "promozione di un centro polifunzionale attrezzato", legato al Parco delle colline di interesse sovracomunale; e cioè:

– creazione di un polo museale sul tema arti e mestieri nella valle del Mella;

– attività di ricerca e studio botanico;

– destinazione di un corpo di fabbrica alla ricettività e alle attività didattiche di gruppo (associazioni, scuole, scout, ecc.);

– riserva di proporre parte di altro corpo di fabbrica a sede degli uffici del Parco delle colline o dell’istituendo Parco del Mella;

– destinazione del corpo D (con annessione del corpo E) a sede di associazioni territoriali (gruppo antincendio, gruppo alpini).

Come è evidente, si è, qui, non solo ben oltre il mero richiamo alle motivazioni del vincolo, che pure parte della giurisprudenza – peraltro non condivisa dal Collegio – considera sufficiente in sede di esercizio della prelazione, ritenendo desumibili in re ipsa, dal fatto stesso dell’esistenza del vincolo, le ragioni di tale esercizio (cfr. Cons. Stato, 22 novembre 2004, n. 7652 nonché T.A.R. Puglia, 14 gennaio 2008, n. 96 e T.A.R. Sardegna, 24 luglio 2003, n. 900); ma risulta, altresì, rispettato il più rigoroso canone motivazionale richiesto da quell’indirizzo giurisprudenziale, cui il Collegio si sente invece di aderire e che richiede l’indicazione puntuale delle ragioni, ulteriori rispetto a quelle evidenziate nello stesso atto di vincolo, poste a fondamento della limitazione all’autonomia contrattuale dei privati (Cons. Stato, 29 aprile 2005, n. 2004).

Invero, di ogni singolo corpo costituente il compendio de quo si indica lo specifico utilizzo, cosicché non risulta pertinente al caso di specie la recente sentenza della Sez. VI del Consiglio di Stato (26.7.2010, n. 4868), invocata da parte ricorrente nella memoria 16.11.2010, siccome in quel caso la Sez. VI ha sinteticamente ed esattamente giudicato non conforme al disposto di cui all’art. 62, comma 2 del Codice beni culturali "il generico riferimento all’intenzione di destinare l’immobile "a contenitore culturale"".

Per il resto, le ulteriori deduzioni svolte da parte ricorrente mediante la lett. B del IV motivo sono volte a contestare specificamente la congruità, sotto il profilo culturale, della destinazione di una porzione importante dell’immobile ad attività di accoglienza di gruppi di ragazzi.

Al riguardo il Collegio osserva:

° che, in linea generale la stessa, recente giurisprudenza delle SS.UU. della Cassazione civile (3 maggio 2010, n. 10619), richiamata da parte ricorrente nella memoria 16.11.2010, evidenzia come, alla decisione di acquisire in prelazione beni di rilievo storico e artistico, la P.A. pervenga "all’esito di una valutazione altamente discrezionale";

° che la specifica contestazione mossa da parte ricorrente, riguarda, comunque, solo una parte delle destinazioni indicate dal Comune di Collebeato (accoglienza di gruppi);

° che, altresì, tale destinazione e le restanti risultano dichiaratamente ancorate, in funzione sinergica, all’esistente Parco ambientale di carattere sovracomunale, cosicché la precedente ponderazione di interessi pubblici e privati che ha condotto all’istituzione del Parco non può che rifluire positivamente anche sull’attuale valutazione di carattere culturale;

° che alcune di queste destinazioni (polo museale di tipo etnografico, attività didattiche di ricerca e studio in campo botanico) sono obiettivamente coerenti con finalità di valorizzazione culturale di un immobile, a suo tempo dichiarato di importante interesse ex lege 1089/1939;

° che, in definitiva, non si ravvisano – nella relazione allegata alla deliberazione impugnata – insufficienze e/o illogicità sotto il profilo motivazionale, tali da integrare vizi di legittimità della funzione amministrativa, gli unici apprezzabili al sindacato estrinseco esercitabile da questo Giudice in una materia connotata da alta discrezionalità dell’Amministrazione, pena l’inammissibile sconfinamento del sindacato stesso – come segnalato anche dal Comune – nel campo proprio del merito e dell’opportunità amministrativi.

9.5. Le censure di cui al punto III.5 e al IV motivo del ricorso devono, pertanto, essere respinte.

10.1. In via subordinata, parte ricorrente prospetta questione di costituzionalità dell’art. 60 e ss. D. Lgs. 42/2004 nel duplice rilievo:

I) che l’applicazione letterale del comma 1 di tale articolo violerebbe gli articoli 3, 42 e 97 Cost., laddove la mancata denuncia "non sia affatto sanzionabile perché dovuta all’ignoranza dell’esistenza del vincolo": la norma sarebbe, dunque, incostituzionale nella parte in cui non prevede che – in caso di pattuizione di prezzi oggettivamente inferiori al valore del bene culturale alienato, giustificata da ragioni oggettive (quale l’ignoranza senza colpa del vincolo) – il valore del bene debba essere determinato ai sensi dei successivi commi 2 e 3 dell’art. 60, in luogo di quello stabilito nell’atto di alienazione;

II) alla stregua della più recente giurisprudenza della C.E.D.U. in tema di congruità degli indennizzi espropriativi rispetto all’art. 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, le disposizioni in materia di prelazione artistica sarebbero incostituzionali nella parte in cui consentono l’esercizio della prelazione in ogni tempo "per compressione del diritto reale dell’alienante ingiustificatamente sottoposto a un trattamento diverso da quello riservato a ogni altro espropriato" e "per mancata garanzia dell’espropriato per il mancato indennizzo nel caso in cui la prelazione sia esercitata a distanza di lungo tempo dall’atto di alienazione".

10.2. Il primo profilo difetta di rilevanza, poiché il presupposto su cui lo stesso si fonda (ignoranza incolpevole del vincolo) non ricorre nel caso di specie, giusta le specifiche considerazioni in contrario esposte sul punto al precedente capo 7.6.

In ogni caso, come invece riportato al capo 8.2., nella propria sentenza 269/1995 la Corte Cost. ha già escluso che, in caso di violazione tardiva, il prezzo da erogare possa essere rapportato al valore venale del bene, anziché a quello pattuito all’atto del trasferimento dello stesso.

D’altra parte, è connaturato all’istituto giuridico della prelazione (pur essendo quella artistica una prelazione sui generis) che l’avente titolo la eserciti allo stesso prezzo stabilito dai contraenti originari; cosicché, del tutto coerentemente il legislatore ha riservato, ai commi 2 e 3 dell’art. 60 Codice beni culturali invocati dai ricorrenti, il diverso criterio del valore economico del bene ai soli casi in cui la peculiarità del negozio inter alios non consenta di conoscerne l’esatto corrispettivo: con ciò introducendo un necessitato correttivo alla regola generale.

L’ulteriore estensione del criterio del valore economico del bene ad ipotesi non ben circoscritte, quale quella prospettata dai ricorrenti (pattuizione di prezzi "oggettivamente" inferiori al valore del bene culturale alienato, giustificata da ragioni "oggettive") finirebbe per snaturare l’istituto della prelazione artistica e introdurre forti elementi di incertezza nella sua disciplina (legati alla difficoltà di stabilire l’oggettiva inferiorità del prezzo e la sussistenza o meno di oggettive ragioni giustificative), così ponendosi in contrasto con il principio di ragionevolezza cui ogni norma legislativa deve soggiacere.

10.3. Il secondo profilo è, invece, manifestamente infondato poiché si pone in aperta contraddizione con le acquisizioni del diritto vivente (giurisprudenziale, dottrinale, dello stesso Giudice delle leggi), che portano pacificamente "ad escludere la comparabilità delle procedure ablative connesse al settore della tutela artistica e storica con le ordinarie procedure espropriative previste per beni di diversa natura", ciò valendo, in particolare, per la prelazione storicoartistica "che, pur manifestando – quanto meno nel caso contemplato dal secondo comma dell’art. 61 – una sostanza ablativa, è istituto ben distinto dagli ordinari provvedimenti di natura espropriativa"(così il capo 3 della sentenza C. Cost. n. 269/1995; nello stesso alveo, in seguito, ad es.: Cons. Stato, Sez. II, parere n. 2208/01 del 17 ottobre 2001; T.A.R. Lazio Roma, n. 18615/2010, cit.).

Le funzioni e finalità dei due istituti sono, infatti, ontologicamente diverse: mentre nella prelazione artistica il presupposto è, comunque, la determinazione del proprietario di dismettere il bene, risultando in definitiva solo il terzo acquirente quale vero e sostanziale ablato della legittima aspettativa a conseguire una cosa che non ha; nell’esproprio l’ablazione si dirige verso l’attuale proprietario, che si vede colpito nell’interesse a conservare una cosa che già ha e cioè nel suo diritto soggettivo di proprietà.

D’altra parte, anche la sentenza Grande Chambre CEDU 5.1.2000, n. 33202, citata da parte ricorrente nell’ultima memoria (e relativa al noto caso della prelazione tardiva esercitata nel 1988 dallo Stato italiano sul quadro "Il giardiniere" di Van Gogh) evita, nello stesso brano ivi riportato, di ricorrere all’espressione "esproprio" o "espropriazione", utilizzando, invece, locuzioni atecniche (perlomeno nel nostro ordinamento interno) quali "ingerenza nel diritto di ogni persona al rispetto dei propri beni".

E come osservato dalla dottrina italiana che ha commentato la sentenza, la mancata qualificazione – da parte della Corte – del diritto dell’acquirente come diritto di proprietà impedisce che l’intervento della pubblica autorità possa qualificarsi come esercizio di un potere di espropriazione (che logicamente presuppone la titolarità di un diritto di proprietà): e, infatti, la CEDU non ha sindacato se l’esercizio della prelazione risponda ai requisiti di legittimità, previsti dalla Convenzione, nell’ipotesi di espropriazione – e consistenti nella esistenza di una causa di pubblica utilità e nell’osservanza delle condizioni prescritte dalla legge e dai principi del diritto internazionale -, ma si è limitata soltanto a giudicare della violazione della norma "generale", contenuta in quella parte dell’art. 1 del I Protocollo, nella quale è stabilito che "ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni".

In definitiva, per invocare la violazione del parametro di uguaglianza ex art. 3 Cost. parte ricorrente ha addotto un tertium comparationis disomogeneo, siccome riferito a un istituto che non si applica alla fattispecie dedotta in causa: ne risulta inficiata alla radice la questione di costituzionalità in tali termini enunciata.

10.4. Peraltro, il Collegio rileva che analoga questione di costituzionalità, riproposta recentemente dinanzi al Consiglio di Stato, è stata disattesa dalla Sez. VI di quel Supremo consesso (27 giugno 2007, n. 3688).

11. Conclusivamente, il ricorso deve essere respinto.

La obiettiva peculiarità della fattispecie e la complessità delle questioni giuridiche trattate consente, tuttavia, di disporre l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese di lite, fermo restando che il contributo unificato resta carico della parte ricorrente che l’ha anticipato.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo RESPINGE.

Spese compensate e contributo unificato a carico della parte ricorrente che l’ha anticipato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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