Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 17-12-2010) 05-01-2011, n. 223 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 23 giugno 2010, il Tribunale del riesame di Palermo ha respinto l’appello proposto da R.V., in stato di custodia cautelare in carcere, avverso l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo in data 26 maggio 2010, con la quale era stata respinta la sua istanza, intesa ad ottenere la declaratoria di estinzione della misura cautelare in atto per decorso dei termini massimi di durata della medesima.

2. Il Tribunale, dopo aver rilevato un profilo di inammissibilità dell’appello proposto dal R., in quanto il provvedimento impugnato sarebbe stato del tutto autonomo rispetto all’ordinanza impositiva della misura cautelare, ha rilevato che, in applicazione del principio devolutivo, la cognizione del giudice d’appello era da ritenere circoscritta entro i limiti segnati non solo dai motivi dedotti dalla parte, ma anche dal decisum e che, inoltre, nella specie, il ricorrente non aveva indicato in modo chiaro i profili di censura addotti nei confronti del provvedimento impugnato.

3. Il Tribunale ha poi rilevato che, nel merito, non sussistevano i presupposti per far luogo alla chiesta declaratoria di estinzione della misura cautelare inframuraria.

Nei confronti del ricorrente, in custodia cautelare in carcere fin dal 31 ottobre 2005, era stata emessa una sentenza di primo grado da parte del Tribunale di Marsala, di condanna alla pena di anni 6 di reclusione per il reato di partecipazione ad associazione mafiosa.

La Corte d’Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, con sentenza del 13 aprile 2010, aveva unificato il delitto giudicato (violazione art. 416 bis c.p.) con quello di tentata estorsione aggravata, giudicato dalla medesima Corte d’Appello con precedente sentenza del 30 aprile 2009, rideterminando la pena complessiva nei confronti del R. in anni 7 e mesi 8 di reclusione.

Secondo il Tribunale, la norma applicabile al ricorrente era quella di cui all’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. b), si che, nella specie, la durata complessiva della custodia cautelare era di 4 anni, termine al quale dovevano tuttavia essere aggiunti i periodi di sospensione dei termini di durata, legittimamente disposti dall’autorità giudiziaria procedente, nonchè i tempi previsti per la redazione delle sentenze di primo e di secondo grado, si che, in concreto, il termine massimo di durata della custodia cautelare doveva essere aumentato da anni 4 ad anni 6, conformemente a quanto disposto dall’art. 304 c.p.p., commi 2 e 6. 3. Avverso detto provvedimento del Tribunale del riesame di Palermo, R.V. ha proposto ricorso per Cassazione per il tramite del suo difensore, che ha dedotto inosservanza ed erronea applicazione della legge processuale, nonchè motivazione contraddittoria ed illogica.

Ha rilevato che nei suoi confronti era stata emessa una sentenza di primo grado, con la quale era stato condannato alla pena di anni 6 di reclusione per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.; che, avverso detta sentenza egli aveva proposto appello, in esito al quale la Corte d’appello di Palermo gli aveva ridotto la pena ad anni 5 di reclusione, pena che, su sua richiesta, era stata poi applicata in continuazione con la pena detentiva di anni 2 e mesi 8 a lui inflitta con sentenza del 30 aprile 2009 dalla medesima Corte d’Appello, si che la pena finale complessiva era stata determinata nei suoi confronti in anni 7 e mesi 8 di reclusione.

Pertanto, per determinare la durata complessiva della custodia cautelare nei suoi confronti, occorreva far riferimento all’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. b), si che il periodo massimo di custodia cautelare doveva essere fissato nei suoi confronti in anni 4.

E poichè egli era in custodia cautelare ininterrottamente dal 31 ottobre 2005, a tale periodo massimo di anni 4 poteva solo essere aggiunto il doppio termine di mesi 6 (3 + 3), resosi necessario per la redazione delle due sentenze di merito, si che il termine massimo di custodia cautelare in carcere, pari ad anni 4 + mesi 6, era da ritenere maturato fin dal 31 marzo 2010.

Motivi della decisione

1. Il ricorso proposto da R.V. è inammissibile siccome manifestamente infondato.

2. Non sussiste invero la dedotta erronea applicazione della legge processuale, avendo il provvedimento impugnato correttamente indicato i motivi per i quali il periodo massimo di custodia cautelare da calcolare nei confronti dell’odierno ricorrente, pari ad anni 4, così come disposto dall’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. b), doveva essere nella specie prorogato fino ad anni 6. 3. Conformemente invero a quanto ritenuto dal provvedimento impugnato, all’anzidetto termine massimo di custodia cautelare, fissato in anni 4 dall’art. 303 c.p.p., comma 4, lett. b) occorre altresì aggiungere, nella specie in esame, il periodo di sospensione dei termini di durata massima di custodia cautelare, previsto dal successivo art. 304 c.p.p., comma 2, essendo emerso dagli atti che la Corte d’Appello ha adottato uno specifico provvedimento di sospensione, ai sensi della norma da ultimo citata, idoneo ad incidere, a differenza del congelamento dei termini di custodia cautelare previsto dall’art. 297 c.p.p., comma 4, anche sugli intervalli e sui tempi morti del processo d’appello, si che, nel caso in esame, l’intervenuta adozione di tale specifico provvedimento ex art. 304 c.p.p., comma 2, ha determinato l’assorbimento, oltre che della norma di cui all’art. 297 c.p.p., comma 4, altresì della norma di cui all’art. 304 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 544 c.p.p., comma 3, relativo al tempo richiesto per la redazione della sentenza (cfr. Cass. 1A, 20.10.97 n. 5864, rv. 208769).

4. Pertanto è da ritenere che l’adozione, da parte della Corte d’Appello, del citato provvedimento di proroga ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 2, consente, nella specie, il legittimo prolungamento dei termini massimi di custodia cautelare fino ad anni 6, conformemente a quanto disposto dall’art. 304 c.p.p., comma 6. 5. Da quanto sopra consegue la declaratoria d’inammissibilità del ricorso in esame, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

6. Si dovrà provvedere a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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