Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 17-12-2010) 05-01-2011, n. 221 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Napoli, costituito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., con ordinanza del 13-28 luglio 2010, ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere applicata dal Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale, con ordinanza in data 26 giugno 2010, nei confronti di D.C.G., G.V. e S.S., sottoposti ad indagini per il delitto di concorso in tentata violenza privata, aggravata dall’uso di armi e dal metodo mafioso, in danno dei fratelli D.V.S., D. V.A. e di D.V.V., che, nella notte del (OMISSIS), cercavano di costringere ad allontanarsi dal quartiere (OMISSIS), poichè non avevano aderito al loro sodalizio criminale, rifiutandosi di vendere la droga per conto degli stessi indagati.

1.1 Il Tribunale ha ricostruito i fatti, sulla base delle dichiarazioni dei predetti fratelli: D.V.A., D.V. V. e D.V.S..

D.V.A. aveva denunciato che alle ore 1,10 circa del (OMISSIS), nel rientrare nella propria casa, in (OMISSIS), aveva incrociato D.C.G. e G.V., i quali, a bordo di un Piaggio Beverly, gli avevano chiesto di farli passare. Subito dopo aveva visto sostare nei pressi della sua abitazione, distante pochi metri, un’altra persona a lui nota, S.S., detto "(OMISSIS)", il quale aveva puntato una pistola contro il fratello del denunciante, D.V. S., in quel periodo sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, mentre era fermo sull’uscio di casa, pronunciando al suo indirizzo le seguenti parole: "Orecchiett, domani mattina devi lasciare questa abitazione, altrimenti ammazzo tuo fratello V.".

Dopo la proferita minaccia, il S., che era accompagnato da altri due soggetti dei quali il denunciante non conosceva le generalità, si era allontanato a bordo di un ciclomotore.

Trascorsi alcuni istanti, erano sopraggiunti il D.C. e il G., poco prima incrociati dal D.V.A., i quali, fermatisi con la moto davanti alla stessa casa, avevano estratto una pistola, detenuta dal D.C., e nuovamente avevano minacciato il D.V.S. con le seguenti parole: " S., apri questa porta, altrimenti la distruggo, riferisci a tuo fratello V. che, domani, deve lasciare il quartiere".

D.V.A., terrorizzato, si era rifugiato in uno stabile attiguo dove era stato raggiunto dal D.C. che aveva minacciato anche lui con la pistola.

Il D.C. e il G. avevano, poi, raggiunto il S. e gli altri due soggetti, non identificati, che erano rimasti ad attenderli poco più avanti, e tutti e cinque si erano velocemente allontanati, dopo avere urlato espressioni ingiuriose nei confronti dei D.V., ribadendo che il loro fratello, V., avrebbe dovuto lasciare il quartiere.

Circa i motivi delle minacce, D.V.A. aveva rappresentato che essi erano da ricercare in un precedente dissidio tra il S. e il G., a causa del quale quest’ultimo, insieme al D.C., era stato costretto a lasciare il rione e a trasferirsi in un’altra zona della città, per problemi attinenti alla spartizione dei proventi della vendita di droga su alcune piazze di spaccio ubicate nel medesimo quartiere. In quell’occasione, il D.C. aveva chiesto al fratello del denunciante, D.V. V., di seguirlo nella nuova destinazione, ma questi si era rifiutato. Da qui l’antagonismo nei confronti del predetto D. V., che aveva spinto il D.C. e il G., una volta superato il dissidio col S. e ritornati ad operare nel rione, a minacciare di morte il rivale.

D.V.V., gravato da precedenti di polizia per spaccio di sostanze stupefacenti, aveva integralmente confermato il movente dell’accaduto, così come narrato dal fratello, A., precisando di non avere assistito alle intimidazioni perpetrate dal S., dal D.C. e dal G., perchè non era presente in casa.

In particolare, pur dichiarando di non aver mai partecipato alla vendita di sostanza stupefacente, D.V.V. aveva ammesso di essere a conoscenza che alcune delle "piazze" di spaccio ubicate nel quartiere (OMISSIS) erano coordinate dai predetti soggetti, precisando che egli stesso era stato tratto in arresto, ma scarcerato subito dopo, per traffico di stupefacenti nella medesima piazza, gestita, in quel periodo, dal S. e dal cognato di quest’ultimo, D.C..

D.V.V. aveva aggiunto che, dopo la denuncia presentata da lui e dai fratelli, i familiari degli indagati avevano posto in essere ulteriori azioni intimidatorie, prospettando ritorsioni in danno di un loro quarto fratello, all’epoca detenuto.

Anche D.V.S., al momento del fatto agli arresti domiciliari, aveva confermato le minacce rivolte dai tre indagati, armati di pistole, tramite suo, al fratello, V., non presente in casa in quel frangente, affermando tuttavia di ignorare i motivi di sì gravi intimidazioni.

1.2 Il Tribunale ha respinto le censure mosse nella richiesta di riesame, rilevando, innanzitutto, che i denunzianti, pur appartenendo ad un contesto delinquenziale nel quale sono maturati gli atti intimidatori denunciati, rivestono a pieno titolo lo status di parti offese e non anche di indagati in procedimento connesso e/o collegato, con la conseguenza di ritenere del tutto inappropriato il riferimento alla regola di giudizio di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, non essendo ravvisatale alcun procedimento in relazione al quale i dichiaranti rivestano la detta qualità.

Quanto alle rilevate divergenze tra il racconto di D.V. A. e quello D.V.S. (secondo D.V. S., infatti, i tre aggressori, S., D.C. e G., arrivarono tutti insieme ed erano tutti e tre in possesso di una pistola; le minacce di morte furono indirizzate esclusivamente al fratello, V., al momento assente; ed egli si chiuse in casa solo dopo l’allontanamento dei cinque aggressori), esse sarebbero marginali e del tutto verosimilmente attribuibili alla concitazione del momento, senza scalfire la sostanziale attendibilità delle denunce sporte dai fratelli D.V., i quali, proprio perchè operanti in contesti criminali, avrebbero percepito in maniera netta e cogente la grave valenza intimidatoria delle minacce loro rivolte, reputando quale unico rimedio possibile ed efficace il ricorso alle forze dell’ordine.

Le dichiarazioni rese dagli indagati, nel corso dei rispettivi interrogatori di garanzia, poi, essendo del tutto inverosimili, rafforzerebbero la credibilità dei fatti denunciati: sia il S. che il D.C. hanno, infatti, ammesso l’incontro con i fratelli D.V., nella notte del fatto, rappresentandolo come pacifico e disarmato (il S.) e del tutto casuale (il D.C., accompagnato dal G., il quale pure ha confermato la sua presenza).

1.3 Il Tribunale ha ritenuto sussistente anche la contestata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, poichè, pur non essendo stata accertata l’appartenenza degli indagati ad una associazione di tipo mafioso, tuttavia le frasi pronunciate con la rivendicata esclusività di azione nel comune territorio e l’intimato ordine ai concorrenti di allontanamento da esso; il contesto e le modalità della condotta intimidatoria, in piena notte, da parte di più soggetti armati, recatisi presso l’abitazione dei rivali; la storia criminale delle persone coinvolte, tutte orbitanti in contesti criminali di tipo camorristico; la successiva reiterazione di comportamenti minacciosi, anche plateali, da parte delle congiunte (mogli e madri) degli indagati, nonostante l’intervento delle forze dell’ordine; ebbene, tutto concorrerebbe nel concretizzare i presupposti di applicazione della contestata aggravante, con la conseguente pericolosità degli indagati emergente anche dalle concrete modalità del fatto e la rigorosa presunzione di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere.

2. Avverso la predetta ordinanza ricorre per Cassazione personalmente il S. e, tramite il comune difensore, il D.C. e il G..

2.1 Con il primo motivo il S. denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), l’inosservanza e l’erronea applicazione del combinato disposto dell’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, e art. 192 c.p.p., commi 3 e 4.

Secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe erroneamente disconosciuto la qualità di chiamanti in reità dei fratelli D. V., sulle dichiarazioni dei quali è esclusivamente fondato l’impianto accusatorio omettendo di applicare le regole di giudizio che postulano la valutazione delle dichiarazioni dei chiamanti unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità, nella fattispecie inesistenti anche per il mancato ritrovamento, nonostante le eseguite perquisizioni, delle armi asseritamente utilizzate nel tentativo di violenza privata.

La qualità di chiamanti in reità dei denuncianti emergerebbe, innanzitutto, dalla ricostruzione dei fatti operata nella stessa informativa di reato, dove si legge che i fratelli D.V. sono soggetti pienamente inseriti nell’attività di spaccio di sostanze stupefacenti nel rione (OMISSIS); il D.V.S., in particolare, era sottoposto, al momento del fatto, alla misura cautelare degli arresti domiciliari proprio per la violazione prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73; lo stesso D.V. V., nell’anno precedente, era stato tratto in arresto per spaccio di sostanze stupefacenti; e anche a carico di D.V. A. risultavano registrati precedenti di polizia.

Gli stessi denuncianti avevano ammesso i loro precedenti in materia:

in particolare, D.V.V., pur negando il suo coinvolgimento nella vendita di stupefacenti, aveva dichiarato di essere stato tratto in arresto in relazione ad una "piazza" di traffico gestita per conto di D.C. e del S., e aveva riferito che, nel processo a carico del fratello, D.V. S., il G. aveva testimoniato a favore dello stesso, senza essere ritenuto attendibile e, perciò, subendo denuncia per falsa testimonianza.

Non può, quindi, sussistere dubbio, secondo il ricorrente, circa l’appartenenza dei D.V. al medesimo contesto criminale dei loro accusati e sulla connessione probatoria esistente tra i fatti oggetto del presente procedimento e quelli che vedono coinvolti i fratelli D.V. nell’ambito dei procedimenti a loro carico.

Il Tribunale, conseguentemente, avrebbe dovuto valutare le dichiarazioni dei D.V. con particolare rigore, apprezzandone il grado di attendibilità intrinseca e la presenza di riscontri esterni, tanto più in considerazione della rilevanza della zona (quartiere (OMISSIS)) contesa da più gruppi delinquenziali insediati sul territorio.

La circostanza che i fratelli D.V. si siano rivolti alle forze dell’ordine non va intesa, secondo il ricorrente, come dimostrazione della credibilità degli stessi, ma piuttosto come circostanza idonea a suffragare l’ipotesi contraria e, cioè, che gli stessi svolgano attività di spaccio per conto di un sodalizio egemone che intendono, in tal modo, agevolare.

2.2 Con il secondo motivo di gravame il S. denuncia la manifesta illogicità della motivazione dell’ordinanza impugnata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), poichè, contrariamente a quanto in essa si legge, le denunce dei fratelli D. V.A. e D.V.S. non sarebbero affatto dettagliate e tra loro coerenti, avendo ciascuno narrato il fatto in modo assolutamente dissimile dall’altro.

Il ricorrente reitera, al riguardo, l’elenco dei contrasti tra le due narrazioni, già esposti nella richiesta di riesame e sopra incidentalmente richiamati, cui va aggiunta la circostanza che D. V.S. avrebbe riferito che il fratello A., durante la consumazione della minaccia a suo carico, si trovava in macchina a pochi metri di distanza dalla propria abitazione, mentre quest’ultimo ha dichiarato che stava risalendo a piedi la strada per recarsi a casa, allorchè vide il S. minacciare il fratello, Sa..

Il Tribunale avrebbe, dunque, palesemente travisato il materiale probatorio nel ritenere le denunce dei fratelli D.V. convergenti e reciprocamente rafforzate.

2.3 Altro vizio di motivazione denunciato attiene alla valutazione cumulativa e non specifica delle posizioni dei tre indagati, senza alcun riferimento al ruolo rivestito da ogni singolo concorrente nell’ambito dei fatti contestati, violando la regola di giudizio, avallata da consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la motivazione dei provvedimenti giudiziari non può essere riferita ad una pluralità di persone, ma deve riguardare specificamente ogni singola persona, tanto più in materia di libertà personale ai sensi dell’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e c bis).

2.4 Il ricorrente, infine, contesta la ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, intesa come mera adozione del metodo mafioso, in mancanza di elementi indicativi dell’appartenenza degli indagati a specifica associazione criminale, e, perciò, da valutare con criterio di particolare rigore, nella fattispecie non applicato dal Tribunale.

Sussisterebbe, in particolare, contraddizione tra la ritenuta appartenenza di autori e vittime degli atti intimidatori ad un comune contesto delinquenziale e la condizione di soggezione psichica attribuita alle persone offese per le modalità mafiose dell’azione, evocanti l’intervento di una compagine criminale radicata sul territorio.

3. Il D.C. e il G., tramite il difensore, deducono due motivi.

3.1 Col il primo lamentano l’inosservanza dell’art. 192 c.p.p., comma 1, e art. 273 c.p.p., perchè, riconosciuta ai fratelli D.V. la qualità di persone offese dai reati, le loro dichiarazioni avrebbero dovuto essere valutate con particolare attenzione all’attendibilità intrinseca, soggettiva ed oggettiva, delle rispettive denunce, mentre tale vaglio sarebbe stato omesso dal Tribunale che non avrebbe neppure dato adeguato conto delle numerose contraddizioni esistenti tra le versioni dei denuncianti, portatori tra l’altro di interessi collegati ed avversi rispetto a quelli degli indagati e rispetto a quest’ultimi qualificati, nella stessa ordinanza impugnata, come rivali.

La valutazione di attendibilità non avrebbe dovuto essere omessa anche in relazione alla condizione soggettiva del D.C. e del G., indicati come persone senza alcun precedente penale.

3.2 Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano l’erronea applicazione del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, convertito con mod. dalla L. n. 203 del 1991, cit. poichè l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’aggravante in esame, ispirata ai canoni di materialità ed offensività del fatto, impone la verifica, in concreto, del collegamento del fatto con le condizioni di assoggettamento e di omertà, e la dimostrazione che il contesto di diffusa intimidazione abbia oggettiva mente agevolato la perpetrazione del delitto ovvero ne abbia significativamente incrementato il livello di offensività, mentre la motivazione del provvedimento impugnato non adduce alcun argomento che dimostri l’efficienza causale derivante dal collegamento del fatto ascritto con il contesto oggetto della ritenuta circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, più volte cit..

I ricorrenti chiedono, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con ogni conseguenza di legge.

Motivi della decisione

4. I primi motivi dei distinti ricorsi proposti, rispettivamente, dal S. personalmente, e dal G. e D.C. tramite il comune difensore, essendo attinenti alla natura ed ai conseguenti canoni di valutazione della fonte di prova, costituita dalle dichiarazioni dei fratelli D.V., e alla loro contestata attendibilità, vanno trattati congiuntamente.

Trattasi di motivi infondati.

Contrariamente alla tesi del S., l’ordinanza impugnata non è incorsa in alcuna erronea applicazione della legge penale per non avere attribuito ai denuncianti la qualità di indagati o imputati in procedimento connesso a norma dell’art. 12 c.p.p. ovvero di indagati o imputati di un reato collegato a quello per cui si procede ai sensi dell’art. 371 c.p.p., comma 2, lettera b), e, conseguentemente, per non avere applicato le regole di giudizio di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, vigenti anche in sede cautelare in forza del rinvio operato dall’art. 273 c.p.p., comma 1 bis.

Non risultano, infatti, specificamente indicati i procedimenti ed i reati che costituirebbero in capo ai fratelli D.V. la pretesa qualità, dovendo escludersi che la veste di imputati o indagati in procedimento connesso o collegato possa discendere, come postula il ricorrente, dai meri precedenti penali o carichi pendenti dei denuncianti, ovvero dalla loro appartenenza al medesimo contesto criminale e territoriale dei denunciati (quartiere "(OMISSIS)" della città di (OMISSIS)), in potenziale contrasto di interessi tra loro per attività criminali concorrenziali nello stesso settore (traffico di sostanze stupefacenti), cosicchè la censura in esame, anche in adesione al principio di autosufficienza del ricorso, deve ritenersi destituita di alcun fondamento.

Parimenti infondata è la doglianza del D.C. e del G. con riguardo all’omessa valutazione dell’attendibilità intrinseca (soggettiva ed oggettiva) dei fratelli D.V., esclusa la qualità di indagati o imputati in procedimento connesso o collegato, ma riconosciuta loro l’indiscutibile veste di persone offese dal reato per cui si procede, la quale, senza la necessità di riscontri esterni, impone comunque un particolare rigore nella valutazione della fonte di prova.

Nella diffusa motivazione dell’ordinanza impugnata, il Tribunale non ha eluso il tema dell’attendibilità intrinseca dei fratelli D. V., risolvendolo positivamente non malgrado, ma proprio in considerazione del contesto criminale di appartenenza dei denuncianti, tale da permettere loro di percepire la grave valenza intimidatoria delle minacce subite e la necessità del ricorso alle forze dell’ordine come unico rimedio possibile ed efficace.

Quanto alle contraddizioni tra il racconto del fatto da parte di D. V.A. e quello, su alcuni punti divergente, reso da D. V.S., il Tribunale ha adeguatamente valutato le incorrispondenze emerse come marginali, tali cioè da non incidere sulla sostanza del fatto intimidatorio mirante a costringere l’assente, D.V.V., tramite le pesanti minacce a mano armata rivolte ai suoi fratelli, ad allontanarsi dal quartiere per consentire al S., al D.C. e al G., con i loro amici, di operarvi indisturbati.

Ad ulteriore supporto della credibilità delle denunce delle persone offese, il decidente ha anche posto in evidenza l’inverosimiglianza proprio delle versioni rese dagli indagati, nei rispettivi interrogatori, laddove, pur avendo ammesso il loro incontro con i fratelli D.V., nelle circostanze di tempo e luogo indicate da quest’ultimi, lo hanno ridotto ad un pacifico chiarimento delle ragioni dei reciproci contrasti, incorrendo in contraddizioni tra loro circa le ragioni della congiunta presenza quali interlocutori dei rivali.

Va aggiunto che, mentre la motivazione dell’ordinanza impugnata, in tema di attendibilità soggettiva ed oggettiva delle persone offese, esiste ed è immune da vizi logici o giuridici, la strategia attribuita dai ricorrenti ai fratelli D.V., i quali mirerebbero a neutralizzarli come concorrenti nell’egemonia sul territorio attraverso la calunniosa denuncia nei loro confronti, presentata all’Autorità giudiziaria, costituisce allo stato una pura ipotesi, non essendo stato indicato dagli interessati alcun atto del procedimento idoneo a suffragarla.

5. Altro motivo comune a tutti i ricorrenti attiene alla contestata sussistenza della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Anch’esso è infondato.

In adesione alla costante giurisprudenza di questa Corte (c.f.r., tra le molte, sez. 6, sentenza n. 21342 del 2/04/2007, dep. 31/05/2007, Rv. 236628), le modalità mafiose del metodo utilizzato per commettere un qualsiasi delitto, non punito con l’ergastolo, sono quelle che si concretizzano in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una coazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale evocata, a prescindere dalla qualità delle vittime e dalle loro reazioni, e, quindi, considerata la natura oggettiva della circostanza, anche quando il metodo mafioso venga adottato nei confronti di soggetti a loro volta orbitanti, come nella fattispecie, in circuiti criminali.

In altri termini, l’eventuale capacità a delinquere della persona offesa, anche se appartenente ad associazione criminale e, perfino, se agente a sua volta con modalità mafiose, non esclude l’aggravante del metodo mafioso ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7, cit., ove esso sia concretamente impiegato dall’autore del delitto, nè postula l’effettiva intimidazione della vittima, discendendo il più severo trattamento sanzionatorio dalla sola maggiore potenzialità coattiva della condotta criminosa richiamante le modalità d’azione di strutture criminali organizzate, che sono presenti in determinati contesti spazio-temporali.

Nella fattispecie, pur riconoscendo ai fratelli D.V. interessi criminali, peraltro dagli stessi non negati, potenzialmente confliggenti con quelli dei loro aggressori, è indubbio che le modalità del fatto, provvisoriamente contestato ai ricorrenti, caratterizzato dalla presentazione degli indagati a più riprese ravvicinate e in più persone armate a D.V.S. e D. V.A., con l’intimazione di riferire a D.V.V. di allontanarsi dal quartiere, pena la morte, rivendicando cosi la loro esclusiva presenza nel rione (OMISSIS) della città di (OMISSIS), sia stata evocatrice della forza di intimidazione propria di associazioni criminali, operanti sul territorio, e sia stata, perciò, idonea a provocare nei destinatari una situazione di particolare timore e soggezione psicologica.

6. Resta da esaminare l’ultima censura, mossa dal solo S., con riguardo alla valutazione cumulativa e non differenziata, da parte del giudice del riesame, delle posizioni dei tre indagati, senza distinguere i rispettivi ruoli e comportamenti nel fatto contestato.

Il motivo, oltre ad essere generico, è infondato, poichè, come emerge dall’ampia motivazione dell’ordinanza impugnata, sopra riportata, sono stati puntualmente ricostruiti ed esaminati i comportamenti dei singoli indagati e l’apporto di ciascuno al fatto criminoso, senza che il ricorrente abbia mosso specifiche critiche alla detta analisi.

7. Alla luce di quanto esposto, i ricorsi vanno, dunque, rigettati e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.

La cancelleria provvedere alle comunicazioni previste dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al Direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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