T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 07-01-2011, n. 55 Procedimento e punizioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il sig. B.C. dichiara d’esser sottufficiale in s.p.e. della Guardia di finanza, all cui ruolo Ispettori appartiene con il grado di maresciallo capo.

Il sig. C. rende noto d’esser stato sottoposto a procedimento penale, in esito al quale il GIP presso il Tribunale di Bari, con sentenza n. 64 del 18 gennaio 2001, lo condannò, su richiesta delle parti, alla pena di anni uno e mesi sette di reclusione ed a Lit. 2 milioni di multa per millantato credito.

Proposto gravame avverso detta statuizione, la Suprema Corte di cassazione (se. VI), con ordinanza del 2 ottobre 2002, lo dichiarò inammissibile, donde il passaggio in giudicato della citata condanna. In relazione a ciò, la GDF, in data 10 febbraio 2003, ha contestato al sig. C. gli addebiti inerenti alla vicenda penale, iniziando il procedimento disciplinare poi culminato con il deferimento di questi alla relativa Commissione. In esito al procedimento, con determinazione del 6 maggio 2003, notificata il successivo giorno 21 e su conforme parere della Commissione, il Comandante generale della GDF dispose, nei confronti del sig. CARONI, la perdita del grado per rimozione.

Avverso tal provvedimento il sig. C. insorge allora innanzi a questo Giudice, con il ricorso in epigrafe, deducendo in punto di diritto quattro gruppi di censure. Resistono in giudizio le Amministrazioni statali intimate, che concludono per l’infondatezza della pretesa attorea.

Alla pubblica udienza del 9 dicembre 2010, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.

Motivi della decisione

Si controverte in questa sede della legittimità della perdita del grado per rimozione, irrogata dalla Guardia di finanza nei riguardi del m.llo capo B.C., a causa della condanna definitiva di costui, per millantato credito, ad un anno e sette mesi di reclusione, oltre alla multa di Lit. 2 milioni.

Il ricorso in epigrafe non ha pregio alcuno e va disatteso, per le ragioni di cui appresso.

In primo luogo, non è condivisibile l’assunto attoreo dell’intervenuta perenzione del procedimento disciplinare per cui è causa, dal ricorrente invece affermata sia per violazione del termine di novanta giorni dalla contestazione degli addebiti (10 febbraio 2003), sia per la mancata instaurazione del procedimento stesso entro il termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna (2 ottobre 2003).

Ebbene, reputa anzitutto il Collegio erroneo il richiamo del ricorrente nella specie ai termini ex art. 10, c. 3 della l. 27 marzo 2001 n. 97 e ciò per tre ordini di ragioni. Per un verso, è vero che, in virtù della lettura additiva del citato art. 10, c. 3 come fornita dal Giudice delle leggi (cfr. C. cost., 24 giugno 2004 n. 186), i procedimenti disciplinari nei confronti dei dipendenti pubblici per fatti commessi anteriormente alla data d’entrata in vigore della l. 97/2001 vanno instaurati entro novanta giorni dalla comunicazione della sentenza alla P.A. (cfr., da ultimo, Cons. St., VI, 9 aprile 2009 n. 2195) e non da quello di centoventi giorni dalla conclusione del procedimento penale con sentenza irrevocabile di condanna, ma tal dato non è applicabile al caso di specie per esser il procedimento relativo al sig. C. già concluso prima della pubblicazione della sentenza di legittimità in G.U. Per altro verso, anche ad ammettere la piena applicazione del citato art. 10, c. 3, nella parte in cui il procedimento disciplinare è da instaurare entro centoventi giorno dalla sentenza irrevocabile di condanna, il dies a quo va individuato soltanto quando la P.A. procedente abbia avuto piena ed effettiva conoscenza del testo integrale della sentenza medesima, sonde l’impossibilità di far decorrere il termine de quo fintanto che colui, che ne invochi la perenzione, non dimostri, cosa nella specie non accaduta, il tempo di tal piena conoscenza. Per altro verso ancora, il termine ex art. 10, c. 3 della l. 97/2001 riguarda i procedimenti inerenti alle fattispecie criminose espressamente indicate nel precedente art. 3. c. 1 (peculato, concussione, corruzione per un atto d’ufficio, etc.), sicché non può concernere anche la posizione particolare del ricorrente, invece condannato per millantato credito, ossia per un reato non assimilabile a quelli di cui al citato art. 3.

Da ciò discende anzitutto che, anche a considerare sicuramente applicabile nella specie l’art. 10, c. 3 della l. 97/2001, il preteso ritardo (10 febbraio 2003) nella contestazione degli addebita, rispetto alla decisione irrevocabile di condanna, va considerato in relazione esclusivamente al momento dell’effettiva piena conoscenza da parte della P.A. intimata e non dalla data d’emanazione della statuizione che ha sancito l’irrevocabilità della condanna.

In secondo luogo, il procedimento disciplinare de quo, non scaturendo da uno dei reati ex art. 3, c. 1 della l. 97/2001, soggiace alle regole ed ai termini di cui all’art. 9 della l. 7 febbraio 1990 n. 19, ferma comunque, per l’esatta individuazione del dies a quo del doppio termine colà contenuto (c. 2), la piena conoscenza del contenuto del provvedimento di condanna definitiva (cfr. Cons. St., IV, 9 ottobre 2009 n. 6224). In tal caso siffatto sistema, per il quale la sanzione della destituzione (qual è in effetti la perdita del grado per rimozione) può essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare "… che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni…", implica che i due termini in parola sono destinati a cumularsi, indipendentemente dal momento in cui la P.A. abbia avviato la procedura stessa (cfr., da ultimo, Cons. St., VI, 8 giugno 2010 n. 3632). Pertanto, il termine di novanta giorni, posto dal citato art. 9, c. 2 per la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti del dipendente pubblico, inizia a decorrere non già dalla data dell’effettivo avvio del procedimento stesso, bensì dalla scadenza del termine dei centottanta giorni, anch’esso colà stabilito, che costituisce il periodo temporale massimo entro il quale, avuta conoscenza della sentenza di condanna irrevocabile, deve aver inizio (o, se del caso, proseguire) il procedimento stesso. Poiché, dunque, il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di 270 giorni, nella specie, grazie alla contestazione degli addebiti, il procedimento ha rispettato il primo termine (10 febbraio 2003) con riguardo alla decisione di condanna irrevocabile (2 ottobre 2002) e s’è concluso il successivo 6 maggio, ben prima, quindi, del secondo termine.

È appena da osservare, a confutazione della censura attorea sul punto, che la P.A. ha pure notificato il provvedimento sanzionatorio (21 maggio 2003) entro il termine complessivo dei 270 giorni ex art. 9 della l. 19/1990, che sarebbe spirato solo il successivo 28 giugno.

Neppure convince la tesi attorea, secondo cui, da un lato, l’impugnata sanzione non avrebbe tenuto conto della derubricazione del reato ab origine contestato al ricorrente e, dall’altro, la P.A. intimata avrebbe dovuto esaminare con maggior approfondimento i fatti penalmente rilevanti, avendo egli aderito al patteggiamento solo per evitare il pregiudizio discendente dalla prosecuzione del processo penale, ferma comunque, a suo dire, l’inapplicabilità dell’art. 653, c. 1bis, c.p.p.

Ora, è notorio che la richiesta applicazione della pena con il rito di cui all’art. 444 c.p.p. implichi sì certi benefici all’imputato, ma non certo l’elisione del duplice contenuto dell’istituto, confessorio quanto all’ascrivibilità del reato per cui si procede e negoziale in ordine alla scelta di avvalersi del regime giuridico che ne deriva.

L’assunzione della responsabilità, qualunque sia la ragione che in concreto abbia spinto il ricorrente ad accettare il patteggiamento, tuttavia di per sé non esclude, per le particolari connotazioni del procedimento penale in parola, la necessità di autonomi accertamenti in sede disciplinare. L’eventuale opportunità di tal delibazione, da parte della P.A. procedente e negli ovvi limiti della ragionevolezza e della proporzionalità (dell’accertamento in sé, piuttosto che della sanzione irrogabile) che sempre deve connotare la discrezionalità tecnica in materia, per vero discende da una sentenza che non contiene un pieno accertamento dei fatti. Sicché sfugge al Collegio la ragione per cui, come asserisce il ricorrente a pag. 11 del gravame introduttivo, la P.A. non avrebbe mai potuto discostarsi dalle risultanze del processo penale, sol perché "…una sentenza penale aveva già statuito in ordine alla responsabilità…". Assodata allora la responsabilità de qua grazie a detta sentenza patteggiata e non revocata in dubbio dalla diversa qualificazione giuridica dell’ originaria imputazione, essa non ne esclude né l’imputabilità in capo al ricorrente, né l’utilizzabilità in sede disciplinare proprio per le gravi mende che la condanna ha posto a suo carico. Rettamente, quindi, la P.A. intimata ha tenuto conto, ai precipui fini disciplinari, di tutta la complessiva vicenda penale, utilizzando tutte le fonti di prova acquisite in quella sede ed prezzandone autonomamente la rilevanza nell’ambito del procedimento allo specifico scopo di tutelare gli interessi sottesi ai doveri di correttezza, lealtà e fedeltà dei militari del Corpo.

Non è allora chi non veda come la reciproca autonomia dei due procedimenti in questione implichi, tra l’altro, la pienezza dell’accertamento disciplinare alla luce ed in coerenza, ma non anche in pedissequa adesione alla vicenda delibata dall’AGO, secondo strumenti logici ed ermeneutici propri del procedimento amministrativo e, come tali, non sindacabili in questa sede di legittimità se non per evidenti vizi di congruenza, logicità e ragionevolezza, nella specie non verificatisi. Anzi, dalla serena lettura degli atti del procedimento stesso e dell’atto impugnato ben s’evince come la P.A. intimata abbia correttamente evidenziato la relazione tra comportamento contestato, a suo tempo ritenuto penalmente illecito dall’AGO e violazione disciplinare, determinando la consequenziale sanzione irrogabile nella vicenda così accertata, secondo una sequenza logicogiuridica coerente ed in sé non illogica, arbitraria o discriminatoria nei confronti del ricorrente, oppure in contrasto con il diritto sostanziale.

Non a diversa conclusione deve il Collegio pervenire per le doglianze del ricorrente in ordine alla pretesa carenza dell’istruttoria procedimentale o alla violazione del diritto di difesa di costui in quell’ambito. Per un verso, infatti, il ricorrente fin dalla contestazione degli addebiti è stato invitato a prender visione degli atti ed a partecipare attivamente al procedimento disciplinare con pienezza di garanzie, donde l’infondatezza della pretesa compressione del diritto di difesa quando, poi, egli è stato informato dello stato della questione e ha prodotto documenti e memorie. Per altro verso, non basta alla tesi del ricorrente aver chiesto un supplemento d’istruttoria purchessia per poi contestarne la mancata concessione da parte dell’organo inquirente o di quello collegiale, quando non se ne confuti espressamente la statuizione sul punto o non si fornisca un serio principio di prova su quale sarebbe potuto essere l’apporto del supplemento invocato. Per altro verso ancora, neppure giova affermare una situazione di sindrome ansiosodepressiva, giacché essa di per sé non è in grado di elidere in radice ogni capacità di cognizione del ricorrente (e, quindi, di seria consapevolezza di questi) circa il contenuto del procedimento, se non se ne diagnostichi con rigore, a cura di organismi di sanità militare, siffatta evenienza.

Parimenti da rigettare è la pretesa assenza di proporzionalità tra il fatto disciplinare contestato e la sanzione espulsiva irrogata (ossia, quella massima di stato), in quanto è jus receptum che i comportamenti disciplinari più gravi non sono sanzionati con misure d’intensità crescenti, ma si confrontano con il superamento di una soglia giuridica, contraddistinta dalla violazione del giuramento ed oltrepassata la quale non v’è altro rimedio legittimo, per la tutela dell’integrità dell’ordinamento generale e della posizione del Corpo nel sistema, che la definitiva risoluzione del rapporto con il militare sanzionato.

Al riguardo, non sembra al Collegio che, nella specie ed a fronte del reato per cui il ricorrente fu condannato in via definitiva, emergano forti o evidenti irrazionalità nell’applicazione della sanzione espulsiva. Invero, il reato di millantato credito non solo è odioso in sé per la coartazione della libera determinazione della persona offesa (il contribuente nei cui confronti il ricorrente partecipò alla verifica fiscale ed al quale costui asserì di poterlo aiutare presso i superiori), ma soprattutto è uno di quelli per la cui repressione il ricorrente ha prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica ed al Corpo. In tal caso, pretestuoso s’appalesa l’assunto per il quale, in realtà, la vicenda penale avrebbe frainteso in millantato credito un prestito pecuniario da parte di detto contribuente, ossia proprio dal soggetto nei cui confronti egli stava effettuando un controllo tributario, giacché è ben più che imprudente, oltre che in patente contrasto con il giuramento di fedeltà, l’accettazione, peraltro a suo dire mai richiesto, di tal prestito. E che tal comportamento del ricorrente si mostri con ogni evidenza in aperta ribellione al giuramento di fedeltà non par dubbio, sol che si pensi che egli, all’epoca dei fatti penalmente rilevanti, era già in servizio nel Corpo da diciannove anni e da dieci adibito al servizio nell’espletamento del quale tali fatti accaddero.

Né può dirsi immotivata la sanzione irrogata al ricorrente, quando, come nella specie, l’atto che la reca espliciti chiaramente le ragioni, in fatto e di diritto, poste a base della statuizione assunta, e con dovizia di particolari.

Le spese del presente giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (sez. II), respinge il ricorso n. 8219/2003 RG in epigrafe.

Condanna il ricorrente al pagamento, a favore delle Amministrazioni resistenti e costituite, delle spese del presente giudizio, che sono nel complesso liquidate in Euro 2.000,00 (Euro duemila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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