Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 01-12-2010) 11-01-2011, n. 536

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 2 Marzo 2010 il Tribunale di Rimini ha applicato al Sig. A. la pena di un anno e dieci mesi di reclusione e Euro 5.000,00 di multa in relazione al reato previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commesso fino al (OMISSIS). Il Tribunale ha concesso le circostanze attenuanti generiche e quella prevista dal citato art. 73, comma 5, che sono state considerate, pur in assenza di esplicita motivazione, prevalenti sulla contestata aggravante ex art. 61 c.p., n. 11 bis.

Avverso tale decisione il Sig. A. ha proposto ricorso tramite il Difensore, lamentando che la diminuzione della pena non sia avvenuto nella misura massima e prospettando un vizio di motivazione con riferimento al bilanciamento delle circostanze.

Motivi della decisione

Il motivo di ricorso è manifestamente infondato.

I limiti che la giurisprudenza ha fissato circa l’interpretazione degli artt. 129 e 444 c.p.p. e circa l’obbligo di motivazione del giudice sono ormai costanti a far data dalla decisione delle Sezioni Unite Penali n. 10732 del 27 settembre – 18 dicembre 1995, Serafino (rv 202270), che ha affermato il principio secondo cui la motivazione può limitarsi a dare conto degli estremi del materiale probatorio depositato in atti dal cui esame il giudice ha tratto la convinzione che non emergono gli estremi della dichiarazione di non procedibilità prevista dall’art. 129 c.p.p., così che in presenza dell’accordo delle parti non sono necessari ulteriori approfondimenti (Sezioni Unite Penali, sentenza n. 3 del 1999, udienza 25 Novembre 1998, Messina, rv 212437).

Da tali e consolidati principi la giurisprudenza ha fatto seguire il principio che le parti che hanno sottoscritto e proposto l’accordo sull’applicazione della pena che il giudice abbia accolto non sono legittimate a mettere in discussione mediante successiva impugnazione i presupposti dell’accordo medesimo (principio costantemente affermato a far data dalla sentenza della Prima Sezione Penale n. 1549 del 1995, Sinfisi, rv 201160), con la conseguenza che il controllo di legittimità in ordine alla sentenza di applicazione della pena può avere ad oggetto la motivazione soltanto nel caso che dal provvedimento emerga l’evidenza dell’esistenza di una delle condizioni indicate dall’art. 129 c.p.p. (per tutte, sentenza della Terza Sezione Penale n. 2309 del 1999, Bonacchi, rv 215071). Ciò non significa che la motivazione del giudice possa ridursi ad un mero esercizio di stile, ma è evidente che essa risulta correttamente proposta allorquando la sentenza di applicazione della pena dia conto del materiale probatorio rilevante ai fini della decisione e dell’avvenuto controllo circa l’assenza delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p., essendo, piuttosto, onere del ricorrente il fornire puntuale indicazione dell’eventuale errore che assuma compiuto dal giudicante.

Posto che nel caso di specie la motivazione non appare meritevole di censure e che il ricorrente non ha provveduto a dedurre doglianze specifiche, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000. n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "Versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Infine, considerata la contestazione mossa al ricorrente, la Corte ritiene necessario rilevare che ai fini delle determinazione della pena il Tribunale non ha preso in esame la circostanza aggravante ex art. 61 c.p., n. 11 bis, così che non sussiste ragione per ritenere rilevante nel caso in esame la decisione con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato tale disposizione illegittima; la pena base è stata, infatti, fissata nella misura di due anni e nove mesi di reclusione, che si giustifica esclusivamente con la piena applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e su tale pena è stata operata la ulteriore riduzione ai sensi dell’art. 62 bis c.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonchè al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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