Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-02-2012, n. 1665

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 9 maggio 1997 O.M. evocava, dinanzi al Tribunale di Oristano, C.P. esponendo di essere proprietaria del terreno sito in (OMISSIS) distinto in catasto al f. 6 mapp. 96 e 467 ex 53 formante un unico corpo, confinante con strada provinciale, P.S., strada comunale, V.P., e cimitero per due lati, per successione legittima della sorella O.C. (come da dichiarazione di successione del 14.12.1995 dell’Ufficio del registro di (OMISSIS));

aggiungeva che detto terreno era detenuto a titolo di comodato precario da C.P., al quale con lettera racc. A/R del 24.12.1996 aveva intimato il rilascio senza sortire alcun effetto, per cui chiedeva la condanna del convenuto al rilascio del terreno e al risarcimento dei danni.

Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza del C., il quale contrastava la domanda attorea deducendo che il terreno era stato a lui donato nell’agosto 1975 dal O.G.B., fratello e procuratore dell’attrice e delle sorelle, perchè vi avviasse un’attività lavorativa e di avere da quella data posseduto pacificamente il fondo su cui aveva eseguito importanti opere di trasformazione (costruzione strada di accesso, sbancamenti per livellarlo, realizzazione di due baracche, poi di un capannone industriale, recinzione del fondo, muri di sostegno, trivellazione di un pozzo, allacci idrici, elettrici e telefonici, costruzione di un silos di cemento e di una cisterna di acqua, apertura di altra strada di accesso sulla provinciale per (OMISSIS)), spiegata riconvenzionale per avere usucapito il diritto di proprietà del terreno ed in via subordinata la dichiarazione del diritto a percepire una indennità pari all’aumento del valore conseguito dall’immobile per effetto delle opere di miglioramento, il Tribunale adito, espletata istruttoria, accoglieva la domanda attorea dichiarando il convenuto tenuto all’immediato rilascio del terreno, con rigetto di quella risarcitoria.

In virtù di rituale appello interposto dal C., con il quale lamentava oltre all’incertezza dell’oggetto della domanda con conseguente nullità della citazione, l’illegittimità dell’ammissione delle prove perchè prodotte dall’attrice con memoria ex art. 183 c.p.c., nel merito che il giudice di prime cure aveva errato nel riconoscere nella specie la mera detenzione in nomine alieno, la Corte di appello di Cagliari, nella contumacia dell’appellata, rigettava l’appello. A sostegno della decisione impugnata la corte distrettuale evidenziava che il giudizio, introdotto dalla O. per ottenere la restituzione dell’immobile detenuto dal C. a titolo di comodato precario, era stato formalizzato nelle forme dei rito ordinario, cui si era associato il convenuto, anche in appello, notificando l’atto con le nullità evidenziate il 17.9.2002 (e quindi entro trenta giorni dalla notifica della sentenza avvenuta il 4.7.2002), ma non depositandolo nello stesso termine, circostanza che nel rito speciale avrebbe comportato la inammissibilità dell’appello, per cui per orientamento giurisprudenziale costante l’omesso mutamento del rito da ordinario a speciale ai sensi dell’art. 426 c.p.c., per le materia indicate dall’art. 447 bis c.p.c., non spiegava effetti invalidanti, tranne le ipotesi di violazione del contraddittorio, dei diritti della difesa, delle determinazioni sulla competenza e sul regime delle prove, non ricorrenti nella specie per essere stata dalla O. dedotta la sola prova contraria, considerando che peraltro il mutamento del rito avrebbe dovuto comportare la concessione di un termine perentorio entro cui le parti avrebbero dovuto provvedere alla integrazione degli atti introduttivi.

Aggiungeva che le argomentazioni del giudice di prime cure circa la natura del contratto in virtù del quale la O. aveva maturato il diritto alla restituzione del bene erano condivisibili essendo rimasto accertato che il C. aveva la mera detenzione in nomine alieno del fondo conseguente alla sussistenza di comodato precario ex art. 1810 c.c., senza pattuizione di un termine di durata. Dimostrato che il possesso esercitato dal CADEDDU si fondava su un titolo che a ciò lo legittimava, mentre il possesso utile "ad usucapionem" operava se e in quanto non si fosse trattato di rapporto obbligatorio, non risultava essere stata manifestata la sua volontà di possedere non più nomine alieno ma uti dominus, per privare l’altra parte del suo possesso, mediante una interversio possessionis, essendosi l’appellante limitato a non ottemperare alla richiesta di rilascio da parte della O. avvenuta con nota del 23.12.1996. Del pari era condivisibile il rigetto della domanda subordinata di indennità quale possessore di buona fede ex art. 1147 c.c. per i miglioramenti e le addizioni ex art. 1150 c.c., comma 2 e u.c. per non avere dimostrato un possesso di buona fede, ma solo una detenzione a titolo precario, proposta solo in appello la domanda ai sensi dell’art. 1808 c.c., comma 2, nonchè quella di riconoscimento del suo diritto di ritenzione.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Cagliari ha proposto ricorso per cassazione il C., che risulta articolato su cinque motivi, al quale ha resistito la O. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 164 c.p.c., comma 4 e art. 183 c.p.c., comma 5, nonchè dell’art. 277, comma 1, combinato con l’art. 112 c.p.c., oltre a difetto di motivazione, essendo rimasto assolutamente incerto il presupposto logico-giuridico della domanda di rilascio, se da riferire a recesso dal contratto di comodato ovvero da detenzione sine titulo da parte del C. e ciò anche in relazione alla scelta del rito da parte della O. per essere stata la domanda introdotta nelle forme ordinarie e non dell’art. 447 bis c.p.c.. In altri termini, sostiene il ricorrente che dalle argomentazioni del giudice del gravame non si evince con certezza l’effettiva ragione legittimante la condanna di rilascio del terreno: se sulla base del recesso da un supposto contratto di comodato, non dimostrato, ovvero a detenzione del terreno per mancanza di titolo da parte dello stesso a continuare ad utilizzarlo contro la volontà della proprietaria, ciò anche ai fini della determinazione del petitum e della causa petendi e della valutazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, per questo denunciato il vizio di pronuncia di ultra o extra petita. Aggiunge che l’attrice avrebbe dovuto dare prova della sua qualità di comodante.

Nel caso in esame non sono ravvisabili gli asseriti vizi di motivazione e le dedotte violazioni di legge: la sentenza impugnata è del tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto e che presuppongono una ricostruzione dei fatti di causa (con riferimento, in particolare, all’individuazione del titolo di detenzione del ricorrente e alla titolarità del bene da parte della resistente) diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice di secondo grado. Come ampiamente riportato nella parte narrativa e motiva della decisione, la Corte di appello ha proceduto alla attenta e meticolosa disamina delle risultanze istruttorie e, sulla base di elementi e circostanze di fatto qualificanti, ha coerentemente ricostruito – nel pieno rispetto delle regole che disciplinano l’onere della prova – le vicende relative alla detenzione del terreno in contesa ed alla proprietà dello stesso, nonchè ai rapporti intercorsi tra le parti connessi a detto fondo. Al riguardo la corte di merito ha affermato che: a) l’azione proposta era costituita da domanda di restituzione di un bene detenuto dal C. senza titolo a seguito di cessazione del rapporto conseguente ai conferimento con titolo precario del terreno da parte di O.G. B., procuratore di O.C., deceduta; b) quanto alla legittimazione della appellata ha affermato che la qualità di comodante le derivava dall’essere erede della sorella, O. C.; c) trattandosi di detenzione derivante da rapporto obbligatorio, doveva ritenersi che il potere esercitato sul fondo dall’appellante era in nomine alieno, conseguente alla sussistenza di comodato precario ex art. 1810 c.c., senza pattuizione di un termine di durata.

La corte territoriale è pervenuta a tali conclusioni attraverso argomentazioni complete ed appaganti, improntate a retti criteri logici e giuridici, nonchè frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze istruttorie riportate nella decisione impugnata, dando conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esaminando compiutamente le risultanze istruttorie ed esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento. Alle dette valutazioni il ricorrente formula ingiuste critiche di indeterminatezza, in particolare quanto all’omesso mutamento del rito da ordinario a speciale, ai sensi dell’art. 426 c.p.c., per le materie indicate dall’art. 447 bis c.p.c., laddove il giudice distrettuale ha correttamente chiarito, facendo applicazione dei principi già affermati da questa corte, che non spiega effetti invalidanti sulla sentenza, che non è nè inesistente nè nulla, e la relativa doglianza, che può essere dedotta come motivo di impugnazione, è inammissibile per difetto di interesse qualora non si indichi uno specifico pregiudizio processuale che dalla mancata adozione del diverso rito sia concretamente derivato, in quanto l’esattezza del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma può essere invocata solo per riparare una precisa ed apprezzabile lesione che, in conseguenza del rito seguito, sia stata subita sul piano pratico processuale (v., in tal senso, di recente Cass. 18 luglio 2008 n. 19942).

Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro, inoltre, che la Corte di appello, nel porre in evidenza gli elementi probatori favorevoli alle tesi della O. ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi del C.. In definitiva, poichè resta istituzionalmente preclusa in sede di legittimità ogni possibilità di rivalutazione delle risultanze istruttorie, non può il ricorrente pretendere il riesame del merito sol perchè la valutazione delle accertate circostanze di fatto come operata dal giudice di secondo grado non collima con le sue aspettative e confutazioni.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., comma 5 e conseguente illegittima valutazione, da parte dei giudici di merito, di elementi decisivi ai fini della decisione, oltre a difetto di motivazione, per illegittimità dell’ordinanza di ammissione dei mezzi istruttori, in particolare della prova per testi contraria articolata dalla O., nonchè delle produzioni documentali della stessa O. in quanto acquisiti oltre i termini perentori fissati dal giudice.

Il mezzo, che peraltro deduce una questione nuova, è anche erroneamente prospettato sotto il duplice e peraltro intrinsecamente contraddittorio profilo della violazione di norma di diritto e del vizio di motivazione (art. 360 c.p.c, comma 1, nn. 3 e 5), è apprezzabile solo sotto il diverso profilo della nullità del procedimento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4). Esso è in ogni caso infondato.

Vero è che, a seguito della Legge di riforma 26 novembre 1990, n. 353, il procedimento di primo grado è scandito dall’ordinata successione delle fasi destinate, rispettivamente, alla trattazione della causa e della definizione del thema decidendum, e successivamente del thema probandum. Con specifico riguardo al problema dei limiti alla produzione di nuovi documenti, questa corte ha osservato che, al fine di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di efficienza del processo ed il diritto di difesa delle parti in relazione al giudizio di cognizione ordinaria, il legislatore ha disciplinato le modalità di produzione del documenti e la proposizione dei mezzi di prova, inserendo la fase delle deduzioni e richieste istruttorie (art. 184 c.p.c.) tra la fase di trattazione (fissazione del thema decidendum) e quella di assunzione delle prove costituende (fase istruttoria in senso stretto); ed ha poi fissato il momento in cui scatta per le parti la preclusione in tema di istanze istruttorie, facendola decorrere dall’ordinanza di ammissione delle prove, ne caso in cui non sia stato chiesto il termine ex art. 184 c.p.c., ovvero, quando tale termine sia stato concesso, dallo spirare del termine in questione, per le richieste di nuovi mezzi di prova e la produzione dei documenti, e dallo spirare del secondo termine per l’indicazione della (eventuale) prova contraria (art. 184 c.p.c., commi 1 e 2, sostituito, con decorrenza dal 30 aprile 1995, dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 18). Il superamento della barriera preclusiva di cui al già citato art. 184 importa, poi, la decadenza dal potere di esibire documenti, salvo che la loro produzione sia giustificata dallo sviluppo assunto dal processo o che la formazione sia successiva allo spirare del suddetti termini (Cass., Sez. un., 20 aprile 2005 n. 8203). Ne discende che la produzione di un documento in un momento (udienza di rinvio fissata a norma dell’art. 183 c.p.c., comma 5) destinato in realtà ancora alla trattazione della causa, e all’eventuale modificazione delle eccezioni già proposte, ma per ciò stesso anteriore alla preclusione al deposito di nuovi documenti ex art. 184 c.p.c., commi 1 e 2, non viola le menzionate disposizioni.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 in quanto l’accertamento del rapporto di comodato non sarebbe risultato da elementi sufficienti, essendo le dichiarazioni dei testi generiche in quanto nessuno aveva dichiarato di avere assistito alla conclusione del contratto di comodato e l’oggetto della donazione da effettuarsi nei confronti del Comune era insufficiente a chiarire se la volontà riguardasse il terreno nella sua interezza ovvero una minore porzione, destinazione cimiteriale del terreno che peraltro sarebbe irrealizzabile per questioni altimetriche, oltre alla presenza di vicini insediamenti abitativi. Anche detto mezzo è privo di pregio.

Occorre affermare che le doglianze relative alla valutazione delle risultanze istruttorie (deposizioni dei testi P., D. e Ca.) non sono meritevoli di accoglimento anche per la loro genericità, oltre che per la loro incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito.

Nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentato errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento si è formato, onde la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base. In proposito va ribadito che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità logica tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, si da far ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata avrebbe portato ad una decisione diversa.

Nella specie le censure mosse dal CADEDDU con il motivo in esame sono carenti sotto l’indicato aspetto, in quanto non riportano il contenuto specifico e completo delle prove testimoniali e documentali genericamente indicate in ricorso e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di dette prove. Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dal ricorrente.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1158 c.c., nonchè il difetto di motivazione, in relazione al diritto esercitato dal C. di acquisto per usucapione del diritto di proprietà del terreno in contestazione in virtù del possesso continuato per oltre venti anni, per avere tutti i testi escussi confermato che il C. esercita, senza interruzioni e/o opposizioni dei proprietari e in modo manifesto, atti denotanti il potere sulla cosa in godimento corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale.

Con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1141, 1147 e 1150 c.c., oltre al difetto di motivazione in quanto la mancata acquisizione della prova certa ed inconfutabile circa l’effettiva sussistenza di un rapporto obbligatorio di comodato, avrebbe dovuto indurre i giudici di merito a riconoscere il diritto del C. al diritto le indennità per i miglioramenti recati alla cosa, stante l’operatività a suo favore delle presunzioni di cui al citato art. 1141 c.c., incontestata la relazione di fatto dello stesso con le aree predette.

In conseguenza del rigetto dei primi tre motivi, è assorbito l’esame del quarto e del quinto motivo del ricorso, con i quali il C. si duole dell’omesso esame della sua tesi difensiva di tutela possessoria, sostenendo che la controversia era da risolvere sotto il profilo della prescrizione acquisitiva del diritto fatto valere e di infondatezza nel merito della pretesa.

Per completezza si osserva, quanto al momento della consegna del terreno, che il richiamo effettuato dal ricorrente alle deposizioni testimoniali a lui favorevoli è privo di autosufficienza, in quanto non specifica il contenuto delle prove erroneamente valutate ovvero non esaminate. fronte della critica, dalla decisione del giudice di appello emerge una valutazione delle deposizioni testimoniali nel senso che, salvo una, escludevano la donazione verbale; inoltre, nella sentenza si da ampio conto che ciò che ha radicato il convincimento dei giudici di merito è stata l’assenza di prova dell’interversione della detenzione e, in ogni caso, di un possesso ventennale, sia per il tenore del ricorso proposto al TAR dallo stesso C. sia per essere stata l’autorizzazione dei lavori di spianamento nel 1982 richiesta dall’ O. e a questo concessa.

Del resto una volta accertato che si trattava di rapporto di comodato, correttamente la corte di merito ne ha fatto discendere tutte le conseguenze in tema di possesso ad usucapionem e di restituzioni.

In conclusione il ricorso va rigettato alla stregua delle precedenti considerazioni.

Al rigetto del ricorso consegue, come per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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