Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 05-10-2010) 17-01-2011, n. 982

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

D.G.S., L.F., D.M. e G.G., tramite i rispettivi difensori ricorrono per Cassazione avverso la sentenza 22.10.2008 con la quale la Corte d’Appello di Napoli, confermando la decisione 23.12.2004 del Tribunale della medesima città, li ha condannati alla pena di anni quattro di reclusione e 1.000,00 Euro di multa ciascuno, siccome ritenuti responsabili del delitto di cui agli artt. 110, 81 cpv. c.p., art. 629 c.p., comma 1 e 2.

I ricorrenti richiedono l’annullamento della sentenza impugnata, deducendo rispettivamente i seguenti motivi:

D.G.S. lamenta:

1) La violazione degli artt. 197,102 e 603 c.p.p. ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c), d), ed e); perchè il giudice dell’appello: A) ha assunto una decisione che non è coerente sul piano logico; B) non ha effettuato un’analisi esauriente delle risultanze probatorie; C) non ha preso in considerazione la denuncia di "travisamento del fatto" e quella di inattendibilità della persona offesa; D) ha omesso di indicare i riscontri delle affermazioni della persona offesa che non ha narrato episodi concreti; E) non ha accolto la richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale.

2) La violazione degli artt. 110, 629, 393 c.p. ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed c), perchè la Corte territoriale non ha indicato gli elementi costitutivi della fattispecie e in particolare lo estremo della minaccia diretta al conseguimento di un ingiusto profitto.

3) Violazione dell’art. 157 c.p. in relazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e); perchè la Corte territoriale non ha dichiarato la prescrizione dei reati contestati che, sulla scorta del contenuto della denuncia presentata dalla parte offesa, risultano essere stati consumati nell’anno 1990, ex art. 157 c.p..

Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato in tutte le sue articolazioni, perchè la difesa, in primo luogo, non ha formulato (punti) 1A, 1B, 1C puntuali censure indicando vizi specifici della motivazione, desumibili dal testo del provvedimento impugnato. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa punto 1D la Corte territoriale, ha messo in evidenza v. pag. 7 – 9 le ragioni per le quali ha ritenuto attendibile la parte offesa ponendo in evidenza che: la vittima dell’estorsione M., ha ribadito in aula le proprie accuse e che le eventuali imprecisioni trovano ampia giustificazione nel lungo lasso di tempo trascorso tra il momento del verificarsi dei fatti e quello della deposizione; che il M. ha chiarito i rapporti avuti con tale C., precisando peraltro le ragioni per le quali era ricorso al prestito usurario; che la parte offesa non ha formulato richieste risarcitorie di natura civile e che le ragioni per le quali si era determinata dopo un apprezzabile lasso di tempo erano da individuarsi nell’episodio dell’incendio del proprio ristorante verificatosi il 28.1.1994. La motivazione del giudice dell’appello è pertanto esauriente, coerente con il resto della decisione, non presenta contraddizioni e non appare manifestamente illogica. Il giudice dell’Appello inoltre, ha indicato ad ulteriore conforto della sua valutazione l’elemento di riscontro dichiarazioni rese dall’Ispettore di polizia F. esterno, costituente ulteriore conferma della attendibilità del M.. Con riferimento alla doglianza di cui al punto 1E), va invece osservato che la difesa ha omesso di indicare fa natura dell’atto probatorio richiesto e non ammesso dalla Corte territoriale, nonchè l’idoneità della prova richiesta a condurre ad una soluzione diversa rispetto a quella assunta. Il difetto di indicazione dei suddetti elementi rende il motivo generico e come tale inammissibile.

Il secondo motivo formulato dalla difesa del D.G. è infondato. In particolare la difesa lamenta una erronea applicazione dell’art. 629 c.p., perchè non esisterebbe la prova della minaccia di un male ingiusto, quale elemento costitutivo della fattispecie da ricondursi al massimo alla ipotesi di violazione dell’art. 393 c.p. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte territoriale ha individuato l’elemento costitutivo delle minacce nel susseguirsi di atti di intimidazione posti in essere dal L., dal G. e dal D.G. nei confronti del M. e da questi puntualmente riferiti e in parte riscontrati anche attraverso le dichiarazioni testimoniali dell’Ispettore di P.s. F..

L’ingiustizia del profitto è stata poi ravvisata dalla Corte territoriale nell’atto di esazione di interessi usurari relazionati ai prestiti fatti di denaro fatti alla vittima. Sia l’uno che l’altro sono elementi fattuali adeguatamente individuati e sono entrambi (natura della minaccia e natura della richiesta contra ius) da valutarsi come elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 629 c.p..

Conseguentemente non è fondata la tesi della difesa, avendo la Corte d’Appello in modo corretto indicato la natura degli elementi costitutivi di un delitto di usura che si è protratto nel tempo e ha avuto termine con l’intervento della Polizia giudiziaria che ha sequestrato numerosi titoli di credito trovati nella disponibilità del prevenuto e riconducigli alla parte offesa del reato.

Parimenti non è fondato il terzo motivo. L’imputato è accusato del delitto di concorso in estorsione aggravata la cui pena edittale massima è di anni 20, ed è stato condannato in primo grado con sentenza del 23.12.2004.

In forza dell’art. 10 delle disposizioni transitorie della L. n. 251 del 2005, alla luce della giurisprudenza di legittimità, nel caso in esame deve trovare applicazione la disciplina dell’art. 157 c.p., nella sua formulazione previgente ai vigore della L. n. 251 del 2005.

In base alla citata disposizione il reato ascritto al prevenuto si prescrive in quindici anni, ai quali deve essere aggiunto l’ulteriore periodo di anni sette e mesi sei, per effetto degli atti interruttivi secondo la previsione dell’art. 160 c.p.. Pertanto il delitto contestato all’imputato, volendo accettare la tesi della sua consumazione 1990, si prescriverà solo nel giugno 2011.

Il ricorso va quindi rigettato L.F. lamenta:

1) Vizio di omessa motivazione per mancanza di correlazione tra la contestazione e la sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) ed in relazione agli artt. 521 e 522 c.p., perchè la Corte territoriale non ha dedicato una motivazione adeguata circa la divergenza tra il fatto indicato nel capo di imputazione di cui al decreto che disponeva il giudizio e quanto invece emerso nel corso del giudizio, concretantesi nel fatto che è risultata essere provato un prestito di L. 10.000.000= ad un interesse mensile del 10% e non già una dazione di 30.000.000= con interessi usurari al 30% mensile;

2) Vizio di erronea applicazione dell’art. 644 c.p. ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), perchè erroneamente è stato ritenuto sussistente lo "stato di bisogno" in relazione all’art. 644 c.p., nella sua vecchia formulazione; ed in relazione all’estremo delle minacce finalizzate ad ottenere un ingiusto profitto di cui all’art. 629 c.p., con vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). In particolare la difesa lamenta che la Corte territoriale ha assolto l’imputato dal delitto di usura ex art. 644 c.p., per intervenuta prescrizione e non già con proscioglimento nel merito, imposto dalla circostanza che mancherebbe l’estremo dello "stato di bisogno" che era elemento costitutivo della fattispecie dell’art. 644 c.p., nella formulazione previgente al 1996.

In particolare la difesa rileva che la Corte territoriale: 1) ha affermato che la parte offesa è ricorsa al prestito usurario di D. G. nel 1988 per esigenze connesse allo stato di malattia dei propri genitori e che nel 1990 si rivolse anche al L.; 2) ha ritenuto che la situazione di penuria economica nella quale si era ritrovata la parte offesa, derivava anche da un infelice operazione finanziaria con tale C..

Ad avviso della difesa, tale assunto della Corte territoriale sarebbe frutto di un "travisamento" di quanto riportato nel verbale 20.11.2002 del M., allorchè questi ha affermato che la madre venne colpita da malattia nel 1974, essendo il padre morto per analoga malattia neoplastica in epoca antecedente. Di qui la difesa inferisce vizio di motivazione nel punto in cui il giudice dell’appello ha ritenuto le dichiarazioni rese dal M. improntate a logicità, coerenza, spontaneità e costanza.

La difesa inoltre rileva che agli atti del dibattimento risulta essere acquisita la sentenza 2443/2002 con la quale il Tribunale di Napoli ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti della parte offesa M. per un episodio di usura commesso in danno osservando come, contrariamente a quanto affermato nella decisione qui impugnata, fosse chiara la responsabilità dell’imputato pur essendo stato dichiarato estinto il delitto di cui usura di cui era accusato il M. per prescrizione. La difesa rileva altresì che il M. è stato condannato dalla Corte d’Appello di Napoli per un ulteriore reato di estorsione commesso in danno di un medico, fatto commesso nell’anno 1983. Da quanto sopra la difesa conclude che non è provata quindi la circostanza addotta dall’imputato di avere fatto ricorso ai prestiti di denaro presso il L. per ragioni connesse allo stato di salute dei propri genitori, essendo diverse le emergenze processuali e specificatamente: a) nel 1974 le esigenze economiche connesse alla malattia della madre; b) nel 1979 le esigenze economiche connesse alla vicenda C.; c) nel 1983 la estorsione commessa in danno del medico; d) nel 1992 la vicenda del prestito usurario in danno della R.. Da quanto sopra la difesa del L. inferisce quindi la inesistenza dello "stato di bisogno quale elemento costitutivo del delitto di usura rappresentato", posto che il detto "strato di bisogno" non può essere giustificato dalla esigenza di reperire denaro da destinare ad attività illecite.

La mancanza della dimostrazione dell’esistenza del delitto di cui all’art. 644 c.p., comporterebbe, ad avviso della difesa, la susseguente mancanza di prova del elemento costitutivo dell’ingiustizia del profitto, proprio delitto di estorsione. La difesa, inoltre denuncia il vizio di motivazione della decisione della Corte territoriale in riferimento al punto nel quale è affermata la piena credibilità della parte offesa M., pur a fronte delle obbiezioni mosse con l’atto di impugnazione.

Il primo motivo di ricorso è infondato. Invero, come già affermato in precedenti giudizi di legittimità, cui questo Collegio ritiene di adeguarsi, si deve ribadire che: "il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato quando nei fatti – rispettivamente descritti e ritenuti – non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, non in rapporto di continenza, bensì di eterogeneità" (Cass. pen., sez. 6^, 6.11.2008, n. 81 in Ced Cass., rv. 242368).

Nel caso sottoposto al vaglio di questo collegio si deve rilevare che il raffronto tra il fatto contestato nel capo di imputazione (dazione della somma di L. 30.000.000 al tasso usurario pattuito del 30%) e quello ritenuto (dazione della somma di 10.000.000 al tasso usurario pattuito del 10%) rende di tutta evidenza come fra gli stessi intercorra un rapporto di continenza; permane infatti, tra l’uno e l’altro l’identità dell’illecito contestato caratterizzato da un nucleo comune. La diversità riscontrata dalla difesa, tra fatto contestato e fatto ritenuto, non incide pertanto sul principio di "correlazione", ma al massimo sulla valutazione della gravità del fatto ascritto.

Parimenti è infondato il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa dell’imputato deduce l’inesistenza della prova del delitto di estorsione (per il quale è stata pronunciata condanna), sull’assunto di una erronea ritenuta sussistenza del presupposto delitto di usura, causa (in tesi di accusa) dell’ingiustizia del profitto conseguito attraverso l’estorsione.

Va sul punto osservato che il Tribunale, definendo il primo grado di giudizio, ha pronunciato l’estinzione del delitto di usura contestato all’imputato al capo C) in concorso con il D., per sua sopravvenuta prescrizione. L’imputato non ha "rinunciato" alla prescrizione, così come previsto dall’art. 157 c.p.. Di qui consegue che ogni questione connessa al merito riferentesi al delitto di usura, proprio perchè dichiarato estinto per prescrizione, non può più essere oggetto di ulteriore giudizio, essendosi, formato giudicato sul punto.

A ciò deve aggiungersi che nel caso di specie deve applicarsi il principio per il quale " in presenza di una declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione del reato, è precluso alla Corte di Cassazione un riesame dei fatti finalizzato a un eventuale annullamento della decisione impugnata per vizi attinenti alla sua motivazione v. in tal senso Cass. pen., sez. 4^, 22.6.2005, Borda.

Tale principio deve essere confermato anche nell’ipotesi in cui il reato dichiarato estinto (usura) costituisca l’antecedente logico fattuale (come nel caso in esame) di un delitto di estorsione che finalizzato al conseguimento dell’illecito profitto costituito dalla riscossione di interessi di somme di denaro date nell’ambito proprio di quel delitto di usura dichiarato estinto per prescrizione.

Di qui consegue che tutte le argomentazioni introdotte dalla difesa volte a dimostrare la insussistenza del delitto di usura e l’infondatezza de quella accusa, sono del tutto irrilevanti a fronte della dichiarata prescrizione.

Per ottenere un nuovo esame del fatto di usura l’imputato avrebbe dovuto previamente rinunciare alla pronuncia della causa estintiva, ai sensi dell’art. 157 c.p., potendo così devolvere l’intero fatto al giudice del merito il quale, per la scelta fatta dall’imputato nell’accettare la dichiarazione della causa estintiva, non ha potuto ulteriormente prendere in considerazione gli elementi di fatto attinenti al delitto di cui all’art. 644 c.p.. Pertanto il ricorso va rigettato D.M. lamenta:

1) La erronea applicazione degli artt. 197 e 192 c.p., rilevando come si appalesi erronea la decisione della Corte di ritenere credibile la parte offesa, rilevando altresì come il ruolo del ricorrente fosse quello di mero accompagnatore senza che avesse mai profferito minacce.

2) La erronea applicazione degli artt. 629 e 393 c.p., in quanto i fatti non integravano gli elementi costitutivi della estorsione, non presentando le minacce profferite i caratteri della idoneità ad intimidire e la pretesa vantata, secondo quanto conosciuto dal D., si appalesa una legittima richiesta di restituzione di somme di denaro.

3) La erronea applicazione degli artt. 133, 62 bis c.p., perchè la sanzione irrogata appare eccessiva e comunque non ricorrevano motivi per negare la concessione delle attenuanti generiche G. G. lamenta:

1) Il vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), anche in relazione all’art. 194 c.p.p..

In particolare la difesa lamenta la mancanza della motivazione in ordine alla credibilità della persona offesa e in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di reato contestata.

2) Erronea applicazione degli artt. 133, 62 bis, 69 c.p. e vizio di motivazione non essendo possibile ricostruire il percorso logico della decisione del giudice del merito.

Il primo motivo del ricorso proposto dal D., il primo motivo e il secondo motivo del ricorso proposto dal G. ricalcano le ragioni del primo sub 1d e del secondo motivo del ricorso proposto dalla difesa del D.G.. Pertanto, in assenza di argomenti diversi ed ulteriori rispetto a quelli già esaminati, si fa rinvio alla relativa parte della motivazione della presente decisione ove si sono trattate le questioni riguardanti il giudizio di credibilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa e i problemi connessi alla verifica della esistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di estorsione, dovendosi qui ribadire come la decisione della Corte territoriale debba essere giudicata esaustiva e immune da vizi ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Va aggiunto infine, con riferimento al primo motivo di ricorso (ove il solo D.M., in particolare, sostiene, attraverso la citazione di passi della deposizione della parte offesa, la sua sostanziale estraneità al delitto di estorsione per avere svolto la funzione di mero "accompagnatore", senza mai profferire minacce), che la prospettata tesi di insussistenza di una ipotesi di un concorso nel delitto di estorsione deve essere giudicata manifestamente infondata essendo evidente il contributo causale conferito dall’imputato alla commissione del reato, proprio attraverso l’atto di "accompagnare" la vittima, presso colui che formulerà le minacce estorsive.

Pertanto i motivi esaminati devono essere dichiarati inammissibili.

Con il terzo motivo nei rispettivi ricorsi, sia il D. che il G. si dolgono della carenza di motivazione circa il mancato riconoscimento della massima estensione delle accordate attenuanti generiche, nonchè (il D.) della eccessività del trattamento sanzionatorio.

La questione inerente all’entità del trattamento sanzionatorio è stato oggetto di vaglio da parte della Corte territoriale la quale, sul punto, ha rilevato come, in relazione alla gravità del fatto, alla personalità degli imputati (desunta dalla modalità e dalla reiterazione delle condotte e per il L. anche per i precedenti penali) la pena già irrogata dal Tribunale, sia adeguata.

La motivazione sul punto è esauriente e il motivo di doglianza dei ricorrenti è infondato. Infatti, nel caso in esame, con un giudizio non sindacabile nel merito, la Corte territoriale, conformemente alla più recente giurisprudenza v. Cass. pen., sez. un., 25-02-2010, n. 10713 in Ced Cass., rv. 245931 ove: Le statuizioni relative ai giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto, ha preso in considerazione i parametri di cui all’art. 133 c.p., comma 1, n. 1 e del comma 2, n. 1, sulla cui base ha riconosciuto l’adeguatezza della pena al fatto commesso, ex art. 132 c.p..

Per tutte le suddette ragioni i ricorsi vanno quindi rigettati e i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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