Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 09-12-2010) 20-01-2011, n. 1557

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Napoli ha ribadito la responsabilità di M.A. per il delitto di associazione a delinquere di natura camorristica, quale componente del Clan Mazzarella, di cui aveva assunto la provvisoria reggenza, successivamente all’arresto del nominato capo, e per il delitto di estorsione, aggravata L. n. 203 del 1991, ex art. 7, commessa in danno dei coniugi T. e Ma., così confermando, anche per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, la sentenza emessa dal Gip di quel Tribunale.

Ricorrono i difensori dell’imputato e deducono mancanza ed illogicità della motivazione sulla affermazione di responsabilità per il delitto associativo, poichè la Corte si era sottratta alla disamina critica delle dichiarazioni dei collaboratori, e ribadiscono che erano state trascurate sia la denunciata genericità delle accuse, sia le numerose contraddizioni delle stesse, sia la mancanza di elementi individualizzanti; con il secondo motivo, i ricorrenti escludono che la corte abbia fornito adeguata motivazione sul ruolo apicale rivestito dal M. all’interno del clan e che le attività economiche poste in essere fossero finanziate con i proventi delittuosi e infine con il terzo motivo ribadiscono la insufficienza del ragionamento seguito per negare la concessione delle invocate generiche.

Motivi della decisione

Il ricorso è da dichiarare inammissibile.

La Corte distrettuale non si è sottratta all’onere motivazionale ed ha dato compiuta risposta alle censure introdotte con il gravame, ripercorrendo le propalazioni dei collaboratori di giustizia, tutte convergenti in punto di individuazione dell’assunzione di reggente della cosca da parte del M., e mettendo in evidenza i punti significativi delle dichiarazioni e la totale assenza di contraddizioni tra le stesse. Emerge chiaramente dal testo della pronuncia che l’imputato dal 2005, epoca della sua uscita dal carcere, "comandava" sulla zona di Forcella a Napoli, occupandosi di tutte le attività criminali proprie della cosca e anche della assistenza agli associati, condotta questa che ne caratterizzava il ruolo decisionale di spicco all’interno del clan. A fronte di tale iter argomentativo, che ha posto l’accento sulla assonanza delle dichiarazioni di ben sette collaboratori di giustizia, peraltro di diversa estrazione criminale, eppure a conoscenza della posizione apicale dell’imputato, riconosciuta, dunque, non solo all’interno del suo clan, ma nell’ambiente criminale partenopeo, i ricorrenti oppongono censure generiche, giacchè non indicano quali siano le contraddizioni che la corte non avrebbe risolto e come le stesse in ipotesi inciderebbero sulla affermazione di responsabilità. La insistenza sul difetto di riscontro esterno alle propalazioni dei collaboratori non ha poi alcun fondamento; è principio acquisito che in caso di più chiamate convergenti, i dati individualizzanti estrinseci alla propalazioni possono anche consistere nella circostanza che le tutte le stesse riconducano, anche se in modo non sovrapponibile, il fatto all’imputato, essendo sufficiente la confluenza su comportamenti riferiti alla sua persona e alle imputazioni a lui attribuite, cioè l’idoneità delle dichiarazioni a riscontrarsi reciprocamente nell’ambito della cosiddetta "convergenza" del molteplice.

Anche in relazione al delitto estorsivo in danno dei coniugi T. – Ma., i ricorrenti limitano la loro doglianza ad una assetta mancanza di motivazione, non tenendo conto che il giudice di appello può, come nella specie avvenuto, richiamare lo svolgimento dei fatti, riportato nella sentenza di primo grado, purchè affronti le censure proposte e dia adeguata risposta alle stesse. Nel caso in esame, la Corte ha adeguatamente spiegato le ragioni per cui uno dei coniugi, la T., non abbia esplicitamente indicato il M. come uno dei malavitosi che la avevano minacciato, dando atto che l’altro coniuge, il Ma. lo aveva menzionato proprio in relazione ad un episodio in cui aveva spalleggiato altro delinquente, e offrendo una plausibile spiegazione in ordine alla mancata osservazione da parte della donna della presenza del M., rimasto fuori dalla abitazione e quindi visibile solo dal solo Ma., che aveva aperto la porta di ingresso ma non aveva fatto entrare i due all’interno.

Si tratta, dunque, di una motivazione adeguata e priva di salti logici che non presenta evidenti vizi di illogicità, censurabili in sede di legittimità, non potendosi estendere il controllo ad una rivisitazione alternativa degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, così come in sostanza chiesto dai ricorrenti. Del pari manifestamente infondato è il motivo relativo alla omessa motivazione sulle contestate aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 2 e 6, peraltro generica, mentre il giudice distrettuale ha individuato entrambe le ipotesi con adeguato riferimento alle propalazioni dei collaboratori in ordine al ruolo apicale dell’imputato ed al consequenziale reinvestimento dei proventi delittuosi in attività economiche connesse a tali risorse ex delicto.

In ultimo è inammissibile la censura relativa alla mancanza di motivazione in ordine alla denegata concessione delle generiche.

La Corte, ha posto l’accento sulla gravità dei fatti addebitati, sul ruolo preminente assunto dall’imputato nella organizzazione criminale, sulla rilevanza dei precedenti penali, con ciò dando spiegazione delle ragioni a sostegno del rigetto delle chieste attenuanti generiche. Ed è noto che il giudice di merito non è tenuto a procedere ad un’analitica valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli alla concessione delle medesime, dedotti dalla parte o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente che egli indichi gli elementi ritenuti decisivi o rilevanti e rimanendo implicitamente disattesi tutti gli altri (cfr. Cass. 2A 11.10.04 n. 2285), come nella specie avvenuto.

Dalla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna al pagamento delle spese del procedimento ed anche al versamento della somma a favore della Cassa per le Ammende che si ritiene equo fissare in Euro 1000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma di Euro mille in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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