Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 07-10-2010) 20-01-2011, n. 1775 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con ordinanza in data 29 marzo 2010 il Tribunale del riesame di Napoli, così riformando su appello del pubblico ministero il provvedimento reiettivo del locale giudice per le indagini preliminari, ha disposto l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di B.A., quale indagato per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa pluriaggravata.

Mentre il G.I.P. aveva ritenuto che il B., già pienamente inserito nel clan camorrista facente capo a M.G., avesse operato in tale ambito soltanto fino all’anno (OMISSIS), e che il clan stesso non fosse ormai più operativo per la scelta della maggior parte dei suoi componenti di collaborare con la giustizia, il Tribunale ha invece raggiunto il convincimento che l’attività criminosa fosse continuata e che il B. avesse seguitato ad agire da custode dei proventi illeciti, ponendo anche a disposizione del sodalizio il suo esercizio commerciale.

Ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, per il tramite del difensore, affidandolo a un solo motivo articolato in tre censure.

Con la prima di esse deduce vizi di motivazione in ordine alla ritenuta attualità della condotta illecita attribuitagli, a tal fine svolgendo una dettagliata analisi delle dichiarazioni provenienti dai collaboratori di giustizia; con la seconda lamenta la mancanza, nell’iter motivazionale, di un parametro certo che consenta di affermare la perdurante esistenza della struttura associativa; con la terza deduce l’insussistenza del pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, la mancanza di precedenti penali significativi e l’assenza di elementi dimostrativi del pericolo di reiterazione dei reati.

Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito esposte.

La prima delle censure con esso elevate, dietro l’apparente denuncia di vizi della motivazione, si traduce nella sollecitazione di un riesame del merito – non consentito in sede di legittimità – attraverso la rinnovata valutazione degli elementi indi-ziari acquisiti.

Il Tribunale ha dato pienamente conto delle ragioni che l’hanno indotto a ritenere protratto ben oltre il limite temporale dell’anno (OMISSIS) il contributo prestato dal B. all’associazione camorrista facente capo al clan Missi; a tal fine ha valorizzato le plurime chiamate in correità rivenienti dai collaboratori di giustizia M.G., Ma.Mi. e M. M., donde si è appreso che il B. svolgeva il ruolo, altamente fiduciario, di custode dei proventi delle attività illecite perseguite; che il denaro così ricavato era custodito nel bar da lui gestito; che in quello stesso esercizio, nel quale si praticava il totocalcio clandestino, venivano effettuati i conteggi degli introiti derivanti da tale attività illecita e dai videopoker installati sul territorio. Quanto al perdurare dell’associazione criminosa malgrado le dissociazioni dei suoi componenti, ha rilevato quel collegio che, per un verso, le ultime defezioni si erano verificate nell’anno (OMISSIS) (a conferma, in tutta evidenza, che fino ad allora l’associazione si era mantenuta viva e operante); per altro verso ha considerato che la perdita dei capi storici non è sufficiente a decretare la fine di un sodalizio criminoso quando esso, come nella specie, sia presente e radicato sul territorio da molti anni, anche in virtù di strategici rapporti intrattenuti con altri analoghi gruppi.

Della linea argomentativa così sviluppata il ricorrente non segnala alcuna caduta di consequenzialità, che emerga ictu oculi dal testo stesso del provvedimento; mentre il suo tentativo di trarre dal tenore delle dichiarazioni dei collaboranti elementi di segno contrario, rispetto alla ricostruzione operata dal Tribunale, si risolve nella prospettazione di una lettura del materiale indiziario alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di cassazione.

In argomento corre l’obbligo di ricordare che, ai fini del controllo del giudice di legittimità sulla motivazione, il vizio deducibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) è solo l’errore revocatorio (sul significante), in quanto il rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata non può che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione (sulle premesse): mentre ad esso è estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per "brani" nè fuori dal contesto in cui è inserito. Ne deriva che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità, se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa: e che pertanto restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (Cass. 11 gennaio 2007 n. 8094).

La seconda censura è inconcludente in quanto con essa il ricorrente si limita ad esprimere un proprio convincimento di segno opposto, rispetto a quello manifestato dal Tribunale, insistendo nel sostenere che l’alto numero di dissociazioni fra i componenti del clan camorristico sarebbe stato sufficiente a causare l’azzeramento della sua struttura piramidale; siffatta contrapposizione di punti di vista, riguardando l’accertamento di un fatto, inerisce esclusivamente alla sfera del merito e non può supportare l’istanza di annullamento per vizi di legittimità.

L’inammissibilità della terza censura risiede nella sua manifesta infondatezza. Ed invero, una volta accertata la sussistenza di un grave compendio indiziario a carico del B. in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., la sussistenza delle esigenze cautelari, nonchè della necessità di fronteggiarle con la misura di massimo rigore, è presunta ex lege in base al disposto dell’art. 275 c.p.p., comma 3: onde non giova al ricorrente limitarsi a contestare l’esistenza dei presupposti di cui all’art. 274 c.p.p., la prova liberatoria dovendo piuttosto consistere nell’acquisizione di elementi che dimostrino positivamente l’insussistenza delle esigenze di tutela social-preventiva.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso conseguono le statuizioni di cui all’art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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