Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 22-12-2010) 21-01-2011, n. 2188 Prova penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con sentenza 10.3.08 la Corte d’Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza emessa all’esito di rito abbreviato il 31.7.07 dal GUP del Tribunale della stessa sede, riduceva la pena nei confronti di S.D. e P.C. – imputati del delitto di rapina pluriaggravata ai danni di N.A. commessa il (OMISSIS) in concorso con C.G., M. F., Pe.Fa. e M.A. (quest’ultimo separatamente giudicato) – rispettivamente ad anni tre e mesi due di reclusione ed Euro 600,00 di multa e ad anni tre e mesi quattro di reclusione ed Euro 800,00 di multa, con conferma nel resto delle statuizioni di prime cure.

Questa, in sintesi, la ricostruzione della vicenda effettuata dai giudici del gravame: mentre viaggiava a bordo della proprio auto il N. era stato fermato dall’alt intimatogli dai due occupanti di una FIAT Uno con il lampeggiante in funzione. Supponendo che si trattasse di forze dell’ordine il N. si era fermato ed aveva esibito i documenti richiestigli; in realtà si trattava di finti esponenti delle forze dell’ordine che, perquisitolo, gli avevano sottratto il denaro che aveva in tasca, per poi allontanarsi alla guida della predetta FIAT Uno e della stessa auto del N. (poi ritrovata bruciata). Complessivamente, fra il denaro che aveva indosso e ciò che era a bordo dell’auto il N. aveva subito la sottrazione, oltre che dell’auto medesima (una Renault Clio), di una macchina fotografica, di diversi orologi di ingente valore e di 60.000,00 Euro in contanti.

Ricorrevano il PG presso la Corte d’Appello di Torino nonchè lo S. (con separati atti a firma degli avv.ti Romeo e Zanalda) ed il P. (con separati atti a firma degli avv.ti Mencobello e Zampogna) contro detta sentenza, di cui chiedevano l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti nei limiti prescritti dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

Con un unico motivo di censura (sostanzialmente coincidente sia nel ricorso a firma dell’avv. Romeo che in quello a firma dell’avv. Zanalda) lo S. deduceva erronea qualificazione del reato come rapina anzichè come furto aggravato ai sensi dell’art. 625 c.p., n. 5, giacchè la sottrazione dei beni era avvenuta con il mero inganno della simulazione della qualità di pubblico ufficiale e non con violenza, minaccia od altro mezzo di coazione, tale non potendosi considerare neppure la perquisizione subita dalla persona offesa, le cui modalità operative erano state solo genericamente descritte dall’impugnata sentenza; inoltre, aggiungeva il ricorso a firma dell’avv. Zanalda, il bene sottratto era stato solo l’autoveicolo incautamente lasciato incustodito dal N. perchè tratto in inganno dai falsi controlli di polizia e dalla perquisizione personale.

Il P. lamentava:

a) violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza di cui agli artt. 521 e 522 c.p.p., in quanto, mentre il Tribunale aveva attribuito al P. la qualità di coautore materiale della rapina così come era stato indicato nel capo d’imputazione, la Corte territoriale, ritenuta insufficiente la prova del concorso materiale, aveva ritenuto che quello del P. fosse stato meramente morale, nel senso che egli avrebbe svolto il ruolo di intermediario fra gli organizzatori della rapina (il C. e lo S.) e i relativi esecutori materiali (i fratelli M.F. e A.), incaricatosi anche di piazzare la refurtiva; per di più, poichè le fattezze fisiche dei fratelli M. erano incompatibili con quelle degli autori della rapina come descritte dalla persona offesa, la ricostruzione dell’impugnata sentenza portava come conseguenza l’esistenza di un settimo concorrente nel delitto, di cui nessun altro aveva parlato;

b) vizio di motivazione e travisamento della prova (oltre che dei motivi d’appello) laddove, secondo la sentenza d’appello, nella conversazione oggetto dell’intercettazione ambientale n. 1445 delle h. 14,10 del 19.4.05 (da cui sarebbe risultato il ruolo organizzativo del ricorrente) lo S., nel rivolgersi al C., avrebbe parlato del P. come di colui che se la sarebbe vista con " F.", nonostante che il nome " C." non figurasse nella proposizione considerata dai giudici del gravame e che non fosse certo che i due si riferissero proprio al P.; inoltre, l’interpretazione del tenore della conversazione contraddiceva il successivo colloquio intercettato (il n. 1453 sempre del 19.4.05, h.

17,37), in cui il C. e lo S., commentando il negativo giudizio che Fr. ( M.) aveva espresso sul P., al cui matrimonio (da tenersi da lì a 5 giorni) non avrebbe partecipato perchè pieno di carabinieri, aggiungevano la loro personale negativa valutazione dicendo che il P. era "uno dalla doppia faccia"; ed ancora, non solo mancavano elementi per poter attribuire al P. il previo accordo affinchè si occupasse di piazzare la refurtiva, ma era altresì contraddittorio attribuirgli tale compito se gli orologi di valore trovati a bordo dell’auto rapinata erano stati solo una imprevista gradita sorpresa, come desumibile dal tenore delle conversazioni intercettate dopo la rapina e dalla conversazione del 20.4.05, non riportata in sentenza; inoltre, l’impugnata sentenza menzionava, travisandola, un commento pronunciato dal P. nel corso della conversazione avuta con il C. la sera dello stesso giorno in cui era stata perpetrato il delitto;

c) violazione della regola della possibilità di emettere condanna solo in presenza di colpevolezza provata al di là di ogni ragionevole dubbio e vizio di motivazione in rapporto al quadro indiziario (di cui i giudici del gravame non avevano specificato i connotati di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 192 c.p.p., comma 2) da cui era stato ricavato il concorso morale del P., nonostante la molteplicità di letture alternative cui si prestavano le poche risultanze probatorie acquisite; nè la Corte territoriale aveva saputo chiarire numero ed identità degli esecutori materiali; ad indebolire ulteriormente la tenuta della motivazione contribuivano i rilievi che inizialmente il P. era stato iscritto nel registro degli indagati per il delitto di ricettazione e non di rapina, che il GIP aveva respinto per difetto di gravità indiziaria del materiale acquisito (e rimasto poi immutato) la misura cautelare richiesta nei confronti del ricorrente e che nessuno dei coimputati che avevano reso confessione lo aveva chiamato in correità; nè era risultato alcunchè dalla perquisizione effettuata il 16.12.06 presso l’abitazione del P., il bar dove lavorava e all’interno dell’autovettura della moglie; ancora illogico e contraddittorio era affermare, da un lato, che il P. avrebbe avuto un ruolo fondamentale – quale intermediario – nella rapina e, dall’altro, che tale ruolo non lo avrebbe esposto a rischi eccessivi (come si leggeva nella gravata pronuncia a proposito del trattamento sanzionatorio); gli indizi (costituiti soltanto dall’intercettazione ambientale n. 1445 delle h.

14,10 del 19.4.05 e dalle intercettazioni telefoniche n. 4 dello stesso giorno e n. 1 di quello successivo e che dovevano essere valutati dapprima separatamente) si erano rivelati incerti, le conversazioni poco chiare e tali da consentire spiegazioni alternative all’ipotesi accusatoria (come, ad esempio, che il P. fosse intervenuto solo dopo la rapina e semplicemente quale persona interessata all’acquisto della refurtiva o come incaricato inconsapevole del M., che non voleva esporsi in prima persona, al fine di fissare ora e luogo degli appuntamenti con il C. e lo S.); nè poteva trascurarsi che, a fronte della mole delle conversazioni intercettate che coinvolgevano altri imputati, vi era un’esigua quantità di telefonate che vedevano il P. come interlocutore;

d) mancata ammissione di una prova decisiva ed omessa motivazione sulla relativa richiesta di rinnovazione dibattimentale avanzata nell’atto d’appello per procedere alla ricognizione ex art. 213 c.p.p. e ss., del P. da parte della persona offesa, approfondimento che avrebbe consentito di acquisire una prova diretta e certa in ordine all’ascrivibilità al ricorrente del ruolo di esecutore materiale della rapina (questo motivo era esposto nel ricorso a firma congiunta degli avv.ti Mencobello e Zampogna);

c) vizio di motivazione sul diniego delle attenuanti generiche malgrado il carattere assai risalente dei precedenti penali, da cui il P. era stato riabilitato, sicchè non si comprendeva donde fosse stata ricavata l’affermata attualità della sua inclinazione a delinquere; era, poi, contraddittoria l’equiparazione di trattamento sanzionatorio fra il P. e M.F., nonostante la diversità dei ruoli; infine, non era argomentato il notevole scostamento della pena dal minimo edittale (questo motivo era esposto nel ricorso a firma congiunta degli avv.ti Mencobello e Zampogna).

Da ultimo, sempre nel ricorso a firma congiunta degli avv.ti Mencobello e Zampogna, si chiedeva il rigetto per infondatezza del ricorso presentato dal PG territoriale.

Con motivo nuovo la difesa del P. deduceva altresì che con sentenza del 20.1.09 (non passata in giudicato) il Tribunale di Torino, nel condannare M.A. (concorrente nel reato, giudicato separatamente), aveva parlato del P. come di uno degli esecutori materiali della rapina, sicchè, per prevenire un futuro contrasto di giudicati, chiedeva l’annullamento con rinvio della sentenza 10.3.08 della Corte d’Appello di Torino affinchè in sede di rinvio si confermasse o si smentisse quanto stabilito in primo grado circa l’esatta ricostruzione dell’accaduto.

Il PG presso la Corte d’Appello di Torino faceva valere, come unico motivo di impugnazione, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione con cui la Corte d’Appello, pur rilevando il ruolo fondamentale del P. nell’organizzazione della rapina, gli aveva ridotto la pena sol per equipararla a quella del M., nonostante che questi avesse ammesso all’udienza del 10.3.08 di essere stato esecutore materiale del delitto e sebbene il P. non si fosse nemmeno esposto a rischio (restando dietro le quinte) ed avesse partecipato al reato solo per arricchirsi, non avendo necessità economi che (come pure affermato in sentenza): il giudizio finale della Corte territoriale – concludeva il PG ricorrente – violava l’art. 133 c.p., comma 2, nella parte in cui prevedeva la valutazione del parametro inerente ai motivi a delinquere.

1 – Il ricorso dello S. è inammissibile perchè manifestamente infondato.

Per antico e costante insegnamento giurisprudenziale di questa S.C. (che va dalla più recente Cass. Sez. 2^ n. 948 del 16.12.09, dep. 13.1.10, fino alla più risalente Cass. Sez. 2^ n. 511 del 24.2.71, dep. 31.12.71), cui va data continuità, integra la minaccia costitutiva del delitto p. e p. ex art. 628 c.p., la condotta del soggetto che, falsamente presentandosi come operatore di polizia, effettui una fittizia perquisizione (domiciliare o personale), con ciò comprimendo la libertà psichica della vittima, allo scopo di impossessarsi dei suoi beni.

Ciò va ribadito perchè, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la minaccia può essere esercitata con qualsiasi comportamento che, prospettando un male, limiti l’altrui libertà di autodeterminazione, libertà sicuramente compressa nel sottoporre taluno a perquisizione, a nulla rilevando che i beni sottratti siano indosso al soggetto passivo o conservati a bordo dell’auto che, come nel caso di specie, egli sia stato costretto ad abbandonare proprio a cagione dell’intervento dei falsi pubblici ufficiali, sicchè non può nemmeno dirsi che l’autovettura sia stata incautamente lasciata incustodita dal N. o che la sottrazione sia avvenuta mediante inganno: infatti, tra l’inganno (simulazione della qualità di pubblici ufficiali) e la sottrazione dei beni della persona offesa si pone, come mezzo della sottrazione medesima, la costrizione consistita nella perquisizione eseguita ai danni del soggetto passivo.

Nè ha alcun rilievo che nell’impugnata sentenza le modalità operative della perquisizione non siano state meglio descritte, essendo onere del ricorrente allegare e spiegare – semmai – che nel caso di specie non si sarebbe trattato di perquisizione.

Alla coazione consistita nella perquisizione la Corte territoriale ha altresì aggiunto, correttamente, anche quella consistita nell’alt intimato per provocare l’arresto della marcia dell’autoveicolo del N., trattandosi di ordine che, provenendo da apparenti pubblici ufficiali, non poteva essere disatteso se non andando incontro al rischio di conseguenze pregiudizievoli, quanto meno in termini amministrativi.

Del pari manifestamente infondata è l’obiezione (che si legge nel ricorso a firma dell’avv. Romeo) secondo cui, negando la qualificazione giuridica del fatto di specie come violazione dell’art. 624 c.p., e art. 625 c.p., n. 5, non si riuscirebbe ad immaginare in quale ipotesi tali norme troverebbero applicazione: al contrario, la loro applicazione ricorre ogni qual volta la simulazione della qualità di pubblico ufficiale sia usata non per imporre una perquisizione od altra forma di coazione, ma semplicemente per allentare il livello di guardia del soggetto passivo e, poi, sottrargli (senza violenza o minaccia) cose mobili da lui detenute.

2 – Anche il ricorso del P. è inammissibile.

Il motivo che precede sub a) è manifestamente infondato perchè, per diffusa giurisprudenza di questa S.C., meritevole di essere qui condivisa, non ricorre un’ipotesi di mutamento della contestazione qualora l’imputato, cui sia stato contestato di essere autore materiale del reato, venga riconosciuto responsabile a titolo di concorso morale in esso: infatti tale modificazione non comporta una trasformazione essenziale del fatto addebitato, nè menoma il diritto di difesa perchè l’accusa di partecipazione materiale nel reato necessariamente implica, a differenza di quanto avverrebbe nell’ipotesi inversa, la contestazione di un concorso morale nella commissione del reato medesimo (cfr. Cass. Sez. 1^ n. 42993 del 25.9.08, dep. 18.11.08; Cass. Sez. 5^ n. 7638 del 17.1.07, dep. 23.2.07; Cass. Sez. 5^ n. 42691 del 3.6.05, dep. 25.11.05; Cass. Sez. 5^ n. 1258 del 21.1.98, dep. 3.2.98; Cass. Sez. 1^ n. 3791 del 16.2.94, dep. 31.3.94; Cass. Sez. 1^ n. 63 del 28.2.79, dep. 7.1.80).

In altre parole, il normale rapporto di continenza tra concorso materiale e concorso morale esclude la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p..

Il precedente di Cass. Sez. 1^ n. 21918 invocato dalla difesa del P. in realtà non nega in punto di diritto tale principio (v. motivazione), ma si limita ad affermare la doverosità di una sua verifica in relazione al caso concreto per saggiare il rapporto di continenza o di eterogeneità sostanziale fra le due ipotesi concorsuali, per poi giungere alla conclusione che in quella concreta vicenda, in cui la condotta attribuita in sentenza all’imputato (partecipazione alle riunioni preparatorie) era diversa da quella a lui contestata nel capo di accusa (esecuzione dell’omicidio con esplosione di due colpi di pistola contro la vittima), aveva prodotto un reale pregiudizio per i diritti della difesa, che non era stata in grado di apprestare in modo completo i mezzi di prova ritenuti favorevoli all’imputato con particolare riferimento all’effettiva presenza alle riunioni preparatorie non soltanto dell’imputato medesimo, ma anche dei suoi accusatori.

Nel caso di specie, al contrario, non vi è alcuna eterogeneità tra il capo d’accusa (che ipotizzava il concorso materiale del P. nella rapina) e la sentenza d’appello che ne ha ritenuto provato il concorso morale, restando in dubbio solo che l’odierno ricorrente abbia altresì partecipato alla materiale esecuzione della rapina.

Dunque, non si ravvisa alcuna eterogeneità, atteso che ben si può partire come intermediari, istigatori e/o procacciatori di correi e, poi, finire con il contribuire anche all’esecuzione materiale del delitto.

3 – I motivi che precedono sub b) e sub c) si collocano al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 606 c.p.p., perchè sostanzialmente in essi si svolgono mere censure sulla valutazione operata in punto di fatto dai giudici del gravame, che richiederebbero un accesso diretto agli atti processuali ed un loro apprezzamento nel merito preclusi in sede di legittimità.

Nè può censurarsi la motivazione, esauriente e scevra da vizi, attraverso la quale l’impugnata sentenza ha ricavato la prova della penale responsabilità del P. dal tenore di conversazioni oggetto di intercettazioni ambientali e telefoniche, la cui interpretazione, anche quando il linguaggio adoperato sia criptico o cifrato, resta questione di mero fatto, sottratta al giudizio di legittimità se la valutazione compiuta dai giudici del merito risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (cfr., ad es., Cass. Sez. 6^ n. 17619 dell’8.1.2008, dep. 30.4.2008;

Cass. Sez. 6^ n. 15396 dell’11.12.2007, dep. 11.4.2008; Cass. Sez. 6^ n. 35680 del 10.6.2005, dep. 4.10.2005; Cass. Sez. 4^ n. 117 del 28.10.2005, dep. 5.1.2006; Casse. Sez. 5^ n. 3643 del 14.7.97, dep. 19.9.2007).

Nè i riferimenti a taluni brevi stralci delle intercettazioni ambientali o telefoniche riportati in ricorso sono idonei a fondare il denunciato travisamento della prova potenzialmente rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla legge 20.2.2006 n. 46, risolvendosi anche essi in una differente lettura degli atti e in difformi delibazioni sulla mera persuasività della motivazione addotta dai giudici d’appello, il che è ovviamente precluso in sede di legittimità.

E’ noto infatti che, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett. e), come modificato dalla cit. L. n. 46 del 2000, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una nuova delibazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Invero la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 15556 del 12.2.2008, dep. 15.4.2008; Cass. n. 39048/2007, dep. 23.10.2007;

Cass. n. 35683 del 10.7.2007, dep. 28.9.2007; Cass. n. 23419 del 23.5.2007, dep. 14.6.2007; Cass. n. 13648 del 3.4.06, dep. 14.4.2006, ed altre) si è consolidata nello statuire che la previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purchè specificamente indicati nei motivi di impugnazione, non ha trasformato il ruolo e i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto. In questa prospettiva il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli "atti del processo" non rappresenta altro che il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il c.d. travisamento della prova finora ammesso solo in via di interpretazione giurisprudenziale, vizio in forza del quale questa Corte Suprema, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza travisamenti, all’interno della decisione.

Perciò rispetto alla denuncia del vizio di travisamento della prova costituisce onere preliminare, cui il ricorrente è tenuto in ossequio alla regola di autosufficienza del ricorso (operante anche in sede penale), il suffragare la validità dell’assunto mediante la trascrizione completa del contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone o delle conversazioni intercettate o con la produzione integrale del mezzo di prova: diversamente, citandosene solo singoli brani, non si consente l’effettivo apprezzamento del vizio dedotto (cfr. Cass. Sez. F n. 32362 del 19.8.10, dep. 26.8.10; Cass. Sez. 1^ n. 6112 del 22.1.09, dep. 12.2.09; Cass. Sez. 4^ n. 37982 del 26.6.08, dep. 3.10.08).

Lo stesso dicasi in ordine alla conversazione del 20.4.05, di cui pure si parla in ricorso.

Involgono, ancora, apprezzamenti di merito le considerazioni svolte in ricorso circa la minor quantità di elementi d’accusa a carico del P. rispetto a quelli emersi nei confronti degli altri correi e la difforme valutazione del quadro indiziario a suo tempo svolta dal GIP (che, come è noto, non vincola il giudice della cognizione).

Ed ancora: non integra vizio di motivazione la mancata od incompleta ricostruzione di tutti i singoli passaggi esecutivi della condotta criminosa e l’esatta identificazione, tra più correi, di chi abbia rivestito anche il ruolo di esecutore materiale, ruolo che l’impugnata sentenza non ha attribuito al P. non perchè ne abbia escluso la fattiva partecipazione all’agguato ai danni del N., ma sol perchè gli elementi per indicarlo come uno degli esecutori materiali non erano univoci, il che non ha impedito ai giudici d’appello di qualificare espressamente il concorso del P. "quantomeno come preventivo accordo".

In breve – giova ribadire – l’insufficienza probatoria per ritenere un concorso materiale non contraddice il ravvisato concorso morale.

Per il resto, le doglianze del ricorrente si dilungano nel formulare mere ipotesi alternative a quella accolta in sentenza, trascurando che, affinchè sia ravvisabile una manifesta illogicità argomentativa denunciabile per cassazione, non basta rappresentare la mera possibilità di un’ipotesi alternativa – magari altrettanto logica in via di astratta congettura – rispetto a quella ritenuta in sentenza (a riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è antica e consolidata: cfr. Cass. Sez. 1^ n. 12496 del 21.9.99, dep. 4.11.99;

Cass. Sez. 1^ n. 1685 del 19.3.98, dep. 4.5.98; Cass. Sez. 1^ n. 7252 del 17.3.99, dep. 8.6.99; Cass. Sez. 1^ n. 13528 dell’11.11.98, dep. 22.12.98; Cass. Sez. 1^ n. 5285 del 23.3.98, dep. 6.5.98; Cass. S.U. n. 6402 del 30.4.97, dep. 2.7.97; Cass. S.U. n. 16 del 19.6.96, dep. 22.10.96; Cass. Sez. 1^ n. 1213 del 17.1.84, dep. 11.2.84 e numerosissime altre).

Per chiudere il punto, si aggiunga che il preteso travisamento dei motivi d’appello da parte della Corte territoriale (di cui pure si parla in ricorso) è censura non consentita ai sensi dell’art. 606 c.p.p..

4 – Del motivo che precede sub d) va preliminarmente rilevato il difetto di interesse, noto essendo che quello richiamato dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento censurato e sussiste solo se il gravame è idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di una decisione pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente.

Sussiste un interesse concreto solo ove dalla denunciata violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare e nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (cfr.

Cass. S.U. n. 42 del 13.12.95, dep. 29.12.95; Cass. n. 6301/97; Cass. n. 514/98; Cass. Sez. 2^ n. 15715 del 28.5.2004, dep. 8.6.2004; Cass. Sez. 1^ n. 47496 del 17.10.2003, dep. 11.12.2003, nonchè numerose altre analoghe).

L’interesse ad impugnare non è costituito dalla mera aspirazione della parte all’esattezza tecnico-giuridica della motivazione del provvedimento, ma da quello a conseguire – attraverso la riforma o l’annullamento del provvedimento impugnato – un concreto vantaggio, atteso che l’impugnazione si configura pur sempre come un rimedio a disposizione della parte per la tutela di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti e non già di interessi di mero fatto, non apprezzabili dall’ordinamento giuridico: nello specifico, l’eventualità di poter escludere con maggior convincimento – attraverso la ricognizione ex art. 213 c.p.p., – l’apporto del P. anche all’esecuzione materiale della rapina (che la gravata pronuncia ha negato solo in via dubitativa) non produrrebbe alcun effetto concreto a vantaggio del ricorrente.

5 – Il motivo aggiunto proposto dal P. è inammissibile per l’assorbente rilievo che un futuro ipotetico contrasto fra giudicati potrà essere oggetto, semmai e se del caso, di istanza di revisione ex art. 630 c.p.p., lett. a), e sempre che si tratti di sentenze emesse tutte all’esito di una plena cognitio, non anche in via di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. (cfr., ex aliis, Cass. S.U. n. 6 del 25.3.98, dep. 8.7.98).

Non costituisce, invece, motivo di ricorso ex art. 606 c.p.p., la prevenzione di un ipotetico conflitto di giudicati.

6 – Il motivo che precede sub e) e quello fatto valere nel ricorso del PG territoriale sono manifestamente infondati.

I giudici d’appello non hanno negato l’avvenuta riabilitazione in ordine alle risalenti condanne riportate dal P., ma l’hanno controbilanciata con la sua inclinazione al delitto, commesso pur senza averne necessità economica, il che lo ha reso immeritevole delle invocate attenuanti generiche.

In proposito è noto che ai fini della determinazione della pena e dell’applicabilità delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p., non è necessario che il giudice, nel riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., li esamini tutti, essendo invece sufficiente che specifichi a quale di essi ha inteso fare riferimento. Ne consegue che con la ritenuta inclinazione al delitto del P. l’impugnata sentenza ha adempiuto l’obbligo di motivare sul punto (cfr. ad esempio Cass. Sez. 1^ n. 707 del 13.11.97, dep. 21.2.98; Cass. Sez. 1^ n. 8677 del 6.12.2000, dep. 28.2.2001 e numerose altre).

Quanto all’equiparazione del suo trattamento sanzionatorio con quello applicato al M., essa non è contraddittoria perchè, se è vero che l’inclinazione a delinquere del P. e il suo restare dietro le quinte potevano – in ipotesi – pesare di più del comportamento processuale del coimputato (che ha ammesso, ma solo in appello, la propria responsabilità), nondimeno è altrettanto indiscutibile che la gravata pronuncia ha dato atto dei numerosi e specifici precedenti penali del M..

Dunque, non si ravvisano illogicità o contraddittorietà, così come non si riscontra inadeguatezza di motivazione sulla pena, tutt’altro che notevolmente discosta dal minimo edittale, essendo quella prevista dall’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, pari ad anni quattro e mesi sei di reclusione ed Euro 1.032,00 di multa: nel caso di specie la pena base è stata stimata dalla Corte territoriale in anni cinque ed Euro 1.200,00 di multa, ridotta di un terzo per la diminuente del rito. Anzi, non risulta calcolata nella pena base l’ulteriore aggravante dell’art. 61 c.p., n. 7, pur contestata in epigrafe e non esclusa (si tratta però di errore non emendabile per difetto di impugnazione sul punto).

7 – In conclusione, va dichiarata l’inammissibilità di tutti i ricorsi. Ex art. 616 c.p.p., consegue la condanna degli imputati ricorrenti alle spese processuali e di ciascuno di essi al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che stimasi equo qualificare in Euro 1.000,00 alla luce dei profili di ravvisati nelle impugnazioni, secondo i costituzionale nella sentenza n. 186/2000.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale dichiara inammissibili i ricorsi degli imputati che condanna al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende. Dichiara inammissibile, altresì, il ricorso del PG. Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2010.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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