Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-12-2010) 21-01-2011, n. 2184 Impugnazioni; Contributi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Ha proposto ricorso per Cassazione Z.G. per mezzo del proprio difensore, avverso la sentenza della Corte di Appello di Cagliari del 3.5.2010, che confermò la sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti dal Gup del locale Tribunale il 30.6.2005, per il reato di truffa aggravata in concorso.

Deduce il vizio di violazione di legge e il difetto di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla prova del dolo e alla qualificazione giuridica del fatto.

Sotto il primo profilo, la difesa rileva che la responsabilità civile del ricorrente, solidale con quella del socio separatamente giudicato, non potrebbe tradursi automaticamente in aspetti di responsabilità penale.

Non potrebbe inoltre ritenersi superata la giustificazione dell’imputato circa un errore del proprio consulente contabile, e, infine, il ricorso al patteggiamento del socio, "lascerebbe trapelare" un’ammissione di responsabilità esclusiva riverberante a favore del ricorrente. Quanto alla qualificazione giuridica del fatto, sarebbero ravvisabili, nella specie, al più, gli estremi del reato di cui alla L. n. 689 del 1991, art. 37, o della violazione, ormai depenalizzata, del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 116.

Il ricorso è manifestamente infondato.

In punto di fatto, i giudici di merito hanno accertato la concorrente paternità formale, in capo all’imputato, della fraudolenta domanda di conguaglio, e tanto deve ritenersi sufficiente, in effetti, ai fini della rilevazione dell’elemento psicologico del reato, in assenza della prova di circostanze concrete idonee ad escluderlo.

L’accertamento del dolo, riguardando l’intima e di per sè intrinsecamente insondabile disposizione psicologica del soggetto agente rispetto alla realizzazione di un fatto di reato, non può infatti che misurarsi sugli elementi oggettivi della condotta e dei risultati conseguiti, secondo un rapporto di reciproca adeguatezza così come rappresentabile al reo alla stregua della logica comune.

Ma è sotto questo profilo del tutto esente da vizi logico-giuridici la sentenza impugnata, in quanto ricollega la positiva verifica dell’elemento soggettivo del reato in contestazione alla riferibilità anche al ricorrente delle dichiarazioni mensili contenenti le richieste di conguaglio per l’intero importo delle indennità di malattia dovute alla C. ma alla stessa corrisposte solo in parte, come riconosciuto dal medesimo imputato nel corso del proprio interrogatorio.

E’ evidente, infatti, che la sproporzione tra il chiesto e il dovuto corrispondeva ad un dato di conoscenza di immediata percepibilità da parte dell’imputato quale autore delle richieste di conguaglio, derivandone un oggettivo rapporto di strumentalità tra le domande di rimborso in eccesso e il conseguimento dell’illecito profitto della truffa, che nei suoi impliciti aspetti intenzionali non può essere superato, ai fini dell’esclusione del sostrato soggettivo della condotta di reato, con l’allegazione, in nessun modo provata, ma soltanto genericamente supposta, di un ipotetico errore del commercialista incaricato di seguire la pratica. Così come del tutto irrilevante è la condotta processuale del coindagato, dalla quale non si comprende quali deduzioni potrebbero trarsene a favore del ricorrente, come bene hanno rilevato i giudici territoriali, anche con riferimento a limiti dell’accertamento sulla responsabilità penale tipici del rito patteggiato (cfr. Cass. Sez. 6, n. 649 del 27/11/1995 Imputato: Birba, secondo cui la richiesta di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p., non implica ammissione di responsabilità nè tanto meno confessione per fatti concludenti, ma solamente rinuncia a difendersi e accettazione di una pena "scontata" in cambio delle energie e del tempo fatto risparmiare nell’interesse generale della amministrazione della giustizia. Il patteggiamento definisce infatti in modo negoziale il procedimento e dalla "equiparazione" di cui all’art. 445 c.p.p., non può derivare alcuna ammissione di responsabilità da far valere fuori del procedimento così definito.

La sentenza di patteggiamento, pertanto, non è utilizzabile in altro procedimento per reato collegato o probatoriamente connesso).

Manifestamente infondate sono anche le questioni sul titolo giuridico dei reati, perchè, come notano correttamente i giudici di appello, le fattispecie alternative indicate dal ricorrente sono identificabili solo in relazione a condotte di mera evasione rispetto ai contributi dovuti, e non quando, come nella specie, la condotta del debitore, oltre che finalizzata all’evasione, sia diretta al conseguimento di un ingiusto profitto (Cass. sez. 2, n. 11184 del 27/02/2007 Imputato: Maravalle, dove appunto la formulazione del principio secondo cui integra il delitto di truffa, e non il meno grave reato di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 37, il datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme come corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva; in motivazione, si precisa ulteriormente che il meno grave reato, di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 37, si differenzia dalla truffa sia per l’assenza di artifici e raggiri sia per la finalizzazione del dolo specifico, consistente nel fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatoria; Vedi anche, Cass Sez. 2, Sentenza n. 30682 secondo cui è configurabile il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.) e non l’illecito (ora) amministrativo di cui al R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, artt. 115 e 116, qualora venga ottenuta l’erogazione, da parte dell’Inps, dei sussidi previsti per lavori socialmente utili, mediante produzione di dichiarazioni false, costituendo "quid pluris" richiesto appunto per la sussistenza dell’illecito penale in luogo di quello previsto dalla citata norma speciale).

Alla stregua delle precedenti considerazioni, il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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