Cons. Stato Sez. V, Sent., 18-01-2011, n. 267 Danno; Giudicato amministrativo; Amministrazione Pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La società S. S.p.A., titolare della concessione mineraria per l’estrazione del salgemma, ricadente nel territorio comunale di Scansano Jonico, poi rinnovata per 15 anni a decorrere dal 18/3/1989 e con scadenza il 18/3/2004, ha avviato la procedura per la realizzazione di un impianto finalizzato alla idrodissoluzione del salgemma. In relazione a tale iniziativa industriale, la società aveva ottenuto un contributo a fondo perduto, ai sensi della legge n. 480 del 1992; il nulla osta ai sensi della legge n.1497 del 1939, rilasciati dal sindaco di Scansano Jonico, nonché le concessioni edilizie rilasciate dal medesimo Comune. Pertanto aveva concluso i contratti di appalto e iniziato i lavori, in data 9/9/1999.

2. Senonché il Presidente della giunta regionale della Basilicata ha disposto la sospensione dei lavori di costruzione dello stabilimento e, nel contempo, ha fatto obbligo alla società S. di presentare apposita istanza di "Screening", ai sensi dell’articolo 13 della legge n. 47 del 1998, ritenendo che il progetto dovesse essere sottoposto alla fase di valutazione di impatto ambientale.

3. Contro tale determinazione la società predetta ha proposto ricorso al Tar della Basilicata, chiedendo anche, oltre l’annullamento degli atti, la condanna dell’amministrazione all’integrale risarcimento dei danni subiti per effetto del provvedimento impugnato, ai sensi dell’articolo 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998.

4. Il Tar ha annullato il provvedimento di sospensione e ha dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento dei danni, ritenendo che la ricorrente si era limitata a fare riferimento al ritardo nella esecuzione delle opere e alla eventualità della revoca del finanziamento concesso. Sicché, ad avviso del giudice di primo grado, la domanda era, per un verso eccessivamente generica e, per l’altro verso, eventuale rispetto all’evento che avrebbe potuto determinare il danno ingiusto.

5. Successivamente il dirigente dell’Ufficio compatibilità ambientale del dipartimento sicurezza sociale politiche ambientali della medesima Regione Basilicata -atteso che la società S. aveva presentato la documentazione richiesta per sottoporre il progetto alla fase di verifica, pur precisando che la presentazione della documentazione avveniva senza pregiudizio alcuno per il ricorso all’epoca pendente avanti al Tar della Basilicata- ha disposto di sottoporre a valutazione il progetto per la costruzione dello stabilimento per la produzione del sale.

Non essendo stata ancora emanata la sentenza relativa al primo ricorso, la società ha impugnato anche tale provvedimento, ottenendo, con ordinanza n. 261 del 27 luglio 2000, la tutela cautelare.

Il Tar ha accolto anche tale ricorso.

6. Entrambe le sentenze non sono state impugnate e comunque l’iniziativa industriale non è stata più proseguita dalla società S..

7. La medesima società ha successivamente presentato ricorso con il quale ha chiesto, a titolo di risarcimento danni, la condanna della Regione Basilicata al pagamento in suo favore della somma di euro 61.885.926,46, oltre interessi e rivalutazione, per il danno subito a seguito dell’illegittimità dei provvedimenti annullati dal Tar.

8. Il tribunale ha accolto parzialmente il ricorso, condannando la Regione Basilicata al pagamento in suo favore della somma di euro 5.504.838,15, oltre interessi e rivalutazione.

Il tribunale ha ritenuto di dover fare riferimento ai danni subiti nel periodo decorrente dalla data del 9/9/1999, ossia quella di emanazione del decreto del Presidente della giunta con il quale era stata disposto l’assoggettamento della costruzione dello stabilimento a valutazione di impatto ambientale, fino al 27/7/2000, data di pubblicazione dell’ordinanza cautelare, con la quale il tribunale aveva sospeso l’efficacia della determinazione dell’ufficio di compatibilità ambientale, laddove aveva deciso di sottoporre a valutazione la costruzione del predetto stabilimento e conseguentemente la sospensione di tali lavori. Ha, invece, ritenuto di non poter risarcire i danni relativi al periodo 9/9/199918/11/1999, dal momento che la sentenza numero n. 367 del 21/6/2000 aveva annullato il decreto, ma aveva anche respinto la domanda di risarcimento dei danni, patiti dalla ricorrente fino alla notifica del ricorso di impugnazione del decreto del presidente della giunta regionale, ossia sino al 18/11/1999. Parimenti aveva ritenuto di non poter riconoscere il risarcimento richiesto a titolo di lucro cessante, sia perché non aveva fornito prova circa le quantità il prezzo e il tipo di salgemma che avrebbe potuto vendere e sia perché la società, ancorché ne avesse la possibilità, non aveva mai iniziato l’attività estrattiva.

9. Tale sentenza è stata impugnata dalla società S., deducendo che il danno lamentato si è verificato nel marzo del 2002, ossia dopo il deposito della prima sentenza e dopo la proposizione del secondo ricorso contro la insistita pretesa della Regione di sottoporre l’impianto di dissoluzione alla procedura di valutazione di impatto ambientale. Più in particolare, il danno si sarebbe verificato quando è stato revocato il finanziamento ottenuto e l’appellante si è trovata, nel contempo, esposta alla richiesta di adempimento dei contratti stipulati per la realizzazione del predetto impianto. Ha dedotto, altresì, che il tribunale ha errato nel qualificare danno da ritardo quello venuto in rilievo con la presentazione della domanda risarcitoria, dichiarata inammissibile con la prima sentenza di annullamento, che comunque era stata proposta prima della emanazione della legge n. 205 del 2000, laddove ha consentito poi la proposizione di domande risarcitorie direttamente collegate alla colposa emanazione di atti dichiarati illegittimi.

10. La medesima sentenza è stata gravata dalla Regione Basilicata, che, con autonomo atto di appello, -dopo aver premesso che, con deliberazione n.2606 del 16/11/2004, era stata respinta l’istanza della società di rinnovo per altri 15 anni della concessione scaduta il 18/3/2004 e che il Ministero delle attività produttive aveva concesso alla società S. un finanziamento di euro 2.236 718,011, rapportato alla spesa che la società aveva dimostrato di aver sostenuto, ha dedotto: 1) l’erroneità della sentenza, laddove, non accogliendo l’eccezione d’inammissibilità del ricorso di primo grado per la mancata impugnazione della sentenza del Tar della Basilicata n. 762/ 99 (in relazione al fatto che la sentenza n. 762 del 31/12/99 aveva erroneamente ristretto la sfera di operatività dell’annullamento ai soli atti direttamente consequenziali a quelli oggetto di impugnativa, ossia le concessioni edilizie rilasciate a favore della S.), non ha consentito di ritenere che l’iniziativa non si è realizzata per mancanza dei necessari titoli giustificativi e invece ha consentito di ritenere che vi fosse responsabilità della regione; 2) ha errato il primo giudice laddove ha rigettato l’eccezione della difesa regionale di violazione del principio del "ne bis in idem", ritenendo che il danno si fosse prodotto nello stesso periodo nella precedente sentenza e dichiarando la domanda risarcitoria inammissibile con sentenza passata in giudicato; 3) ha errato il primo giudice nel qualificare la posizione soggettiva della S. come interesse legittimo di tipo oppositivo, essendo già titolare della concessione mineraria e delle concessioni edilizie, cui si sarebbero frapposti gli atti regionali annullati, che avrebbero impedito la realizzazione dell’iniziativa; 4) ha errato il Tar nel ritenere che vi fossero tutti i presupposti della fattispecie risarcitoria e, in particolare, ha errato nel ritenere che la revoca del finanziamento sarebbe stata determinata dalla mancata ultimazione dell’opera entro i termini previsti dal decreto del Ministero dell’industria n. 24571 del 20/11/96 di assegnazione del contributo di circa 15 miliardi e che, in caso di mancata revoca, l’opera sarebbe stata sicuramente completata, poiché il Ministero non ha prodotto mai in giudizio l’atto di revoca e quindi non è possibile ipotizzare le ragioni su cui è stato fondato; 5) la somma riconosciuta dai primi giudici, costituita dalla differenza fra il contributo a fondo perduto concesso dal Ministero delle attività produttive e il contributo poi rideterminato dal medesimo Ministero, pari ad euro 2.236.718,01, non era dovuta poiché non si conoscono le ragioni della revoca dell’originario contributo; 6) ha errato, infine, il primo giudice nel riconoscere somme rivenienti da fatture emessi dopo la data del 27/7/2000, considerata come il termine finale del periodo in cui si è verificato il danno.

11. Gli appelli sono stati trattenuti in decisione all’udienza del 19 ottobre 2010.

Motivi della decisione

12. Preliminarmente va disposta la riunione degli appelli, essendo stati proposti contro la medesima sentenza, ai sensi dell’articolo 96 del decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104 (Codice del processo amministrativo).

13. I motivi proposti mediante gli appelli ora riuniti possono essere trattati congiuntamente sulla base delle assorbenti considerazioni che seguono.

14. Preliminarmente va chiarito che il ricorso originario proposto dalla società S., notificato alla Regione Basilicata in data 9/12/2002 e al Comune di Scansano Jonico in data 10/12/2002, è stato proposto per il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni derivati alla società ricorrente in dipendenza dei provvedimenti regionali (decreto del Presidente della giunta regionale n. 315 del 9 settembre 1999 e determinazione dirigenziale n. 02E/2000/D/149 del 13/4/2000), annullati definitivamente con le sentenze nn. 367/2000 e 311/ 2002.

15. La situazione giuridica soggettiva della ricorrente al momento della proposizione delle domande di annullamento degli indicati provvedimenti, dal cui annullamento l’appellante fa discendere il danno subito, era costituita, in punto di fatto e di diritto, da un soggetto, titolare di una concessione mineraria con scadenza il 18 marzo 2004, che aveva posto in essere una consistente attività materiale e giuridica, già descritta in narrativa, per ottenere l’estensione della concessione all’attività estrattiva del sale, illegittimamente interrotta dalla Regione Basilicata, così come statuito dalle sentenze passate in giudicato.

Detta situazione giuridica soggettiva, che conferisce la legittimazione alla domanda risarcitoria proposta nel presente giudizio, va qualificata, utilizzando le note categorie giuridiche, come legittimo affidamento alla conclusione delle opere occorrenti per l’inizio dell’attività estrattiva. Con ciò non si vogliono sconfessare le categorie giuridiche utilizzate sia dal primo giudice e sia dalle parti, ossia quelle di interesse oppositivo e pretensivo, ma più semplicemente si vuole utilizzare la situazione giuridica soggettiva, conosciuta e protetta dal nostro ordinamento giuridico (si pensi alla condizione sospensiva o alla revoca illegittima di un atto amministrativo), cui meglio si adatta il caso di specie, costituito dalla posizione di chi ha già una situazione soggettiva compiuta e rilevante, e, tuttavia, per essere completamente soddisfatta, necessita dell’attività strumentale dell’amministrazione affinché l’interessato ottenga (o, come nel caso di specie, allarghi) il bene della vita dato in attribuzione esclusiva al soggetto pubblico.

Il chiarimento suddetto si è reso necessario sia in quanto la questione è stata oggetto del primo giudizio, sia in quanto l’individuazione esatta della situazione giuridica soggettiva è indispensabile per poter individuare il tipo di responsabilità e quindi la natura e l’ambito della risarcibilità.

Va da sè che se la situazione soggettiva la si riguarda dal punto di vista dell’azione lesiva la fattispecie è di tipo oppositivo, anche se non va trascurato l’aspetto pretensivo, costituito dal poter compiere l’attività estrattiva.

16. Venendo alla fattispecie concreta, la società appellante, in buona sostanza, ha chiesto il risarcimento del danno subito a seguito dell’inutile coinvolgimento in un procedimento amministrativo e in un’attività materiale – nel caso di specie si tratta delle concessioni edilizie e nella cantierizzazione per le perforazioni sui terreni all’uopo acquistati- illegittimamente arrestati dall’amministrazione; coinvolgimento che le ha comportato spese ed occasioni mancate di guadagno.

Va da sé che la fattispecie si colloca in quella zona indefinita "turbolenta", che le più sicure categorie del torto civile e del danno contrattuale non riescono a coprire. E’ la stessa zona in cui si colloca la responsabilità precontrattuale nei rapporti civilistici, che dà luogo al c. d. risarcimento dell’interesse negativo.

Atteso che l’attività estrattiva non ha mai avuto inizio, il rapporto amministrativo dedotto nel giudizio attraverso la proposizione autonoma dell’azione risarcitoria va riguardato come un fatto storico, definitivamente cristallizzato, rispetto al quale si configurano le corrispettive responsabilità dei soggetti interessati.

Pertanto, diventa risolutivo stabilire se, al fine di escludere o di affermare la responsabilità, vi sia stata o meno colpa da parte dell’amministrazione per la mancata conclusione del procedimento di allargamento dell’originaria concessione e comunque per il mancato inizio dell’attività estrattiva.

17. È appena il caso di rilevare che la disamina determina implicitamente l’esame del ricorso autonomo proposto dalla Regione, completamente incentrato sull’esclusione della colpa dell’amministrazione nella vicenda amministrativa dedotta in giudizio.

Ebbene, sia dall’esame della scansione procedimentale riassunta in narrativa sia degli atti di causa, risulta in maniera evidente che l’impresa, già titolare di una concessione estrattiva, aveva già ottenuto sia le concessioni edilizie del Comune, che l’annullamento del piano -per pacifica giurisprudenza- non aveva travolto, e sia il nulla osta della soprintendenza dei beni culturali; e, soprattutto, aveva ottenuto il finanziamento pubblico per la realizzazione dell’opera, che si suppone sia avvenuto sulla base di un controllo di compatibilità ambientale, non avendo mai l’amministrazione dimostrato in giudizio, nonostante l’espresso invito a farlo, le ragioni della revoca del finanziamento medesimo e poi della sua riassegnazione parziale.

Se a ciò va aggiunto che i provvedimenti interruttivi da parte della Regione sono stati dichiarati definitivamente illegittimi da parte del giudice di primo grado, si configura sicuramente il requisito della colpa da parte dell’amministrazione. La Regione ha finito con l’incidere direttamente sulla situazione giuridica soggettiva dell’impresa, determinando l’illegittimo arresto dell’ attività e rendendo così inutili ed ingiuste le spese sino a quel momento sostenute dall’impresa, che vanno risarcite, nei limiti in cui il danno risulti provato.

In particolare, la causa esclusiva che ha determinato il danno va rinvenuta nell’illegittima pretesa dell’amministrazione regionale di voler sottoporre a valutazione di impatto ambientale l’impianto di estrazione del salgemma, che, come ha chiarito il giudice con sentenza passata in giudicato, non poteva essere sottoposta a tale valutazione, sia perché l’estrazione avveniva con un impianto a circuito chiuso e sia perché le realizzande opere di superficie non potevano essere considerate in modo autonomo rispetto alla miniera, in quanto necessarie per l’attività mineraria medesima. Inoltre tali opere rientravano nell’ambito della concessione mineraria già rilasciata in epoca in cui non era stata emanata alcuna disciplina in materia di valutazione di impatto ambientale.

18. Prima di passare alla quantificazione del danno, il collegio deve farsi carico dell’ambito del risarcimento; in particolare della questione se rientrino o meno nell’area della risarcibilità quei danni qualificati da ritardo -esclusi dal primo giudice, perché sull’azione dichiarata inammissibile nell’originaria sentenza si sarebbe formato il giudicato- e intervenuti nel periodo decorrente dal 18 novembre 1999 sino al 27 luglio 2000.

Il collegio osserva che il giudicato non copre i danni prodottisi nel periodo indicato in base a due ordini di ragioni: il primo, in quanto la richiesta è stata disattesa con una pronuncia di natura processuale, che non esclude la sua riproposizione ed il suo eventuale accoglimento, purché ne persistano i presupposti di fatto e di diritto (Con. St.,V, n.3531 del 9/6/2009; Con. St.,IV, n. 338 del18 aprile 1994; Cass. S.U. n. 30254 del 23/12/2008); il secondo, in quanto essi costituiscono ora fatti dannosi non più eventuali e genericamente individuati, ma fatti definitivamente realizzatisi e certi nella loro individuazione, che costituiscono, insieme agli altri fatti dannosi, il titolo della presente domanda risarcitoria, che peraltro all’epoca non era prevista dall’ordinamento giuridico.

19.1. Venendo, infine, alla quantificazione del danno, il collegio, a fronte della mancata contestazione da parte della Regione delle singole voci di danno e tenuto conto delle prove fornite per ciascuna di esse, ritiene che spettino, di tutte quelle elencate nell’atto di appello, le seguenti voci: 1) euro 43.044,83 al titolo di compensi per la commissione consultiva di valutazione per l’assegnazione dei lotti dell’area PIP, pagate in data 4/3/1999; 2) euro 10.690,76 a titolo di oneri relativi alla redazione del PIP, pagate in data 4/6/1999; 3) euro 263.640,92, oltre 42.000,00 di Iva, per un totale di euro 305 640,92, per lavori eseguiti dall’impresa Matera Costruzioni Srl; euro 1.658.324,39, comprensivi di Iva, per la costruzione dei pozzi eseguita dalla Mining Italiana S.p.A.; 4) euro 2.866.335,79, comprensivi di Iva, per la realizzazione dell’impianto di purificazione, cristallizzazione ed essiccamento istituito dall’impresa SET S.r.l.; 5) euro 106.384,65, comprensivi di Iva, per le spese relative al progetto redatto dalla Tekne Studio Associato di Matera; 5) euro 12.642,86 per il compenso professionale spettanti all’ingegner Egidio Tamburino. Sommando gli importi si giunge alla somma complessiva di euro 5.106.355,20. Da tale somma vanno sottratti euro 2.236.718,01, costituito dal contributo a fondo perduto concesso dal Ministero dell’industria con decreto n. 2457 del 20 dicembre 1996, determinato in via definitiva con decreto n. 122801 del 30 maggio 2003 del Direttore generale della direzione generale per il coordinamento. Pertanto si giunge alla somma finale di euro 2.869.637,19. La somma portata in sottrazione, nella diversa ottica risarcitoria, va considerata come parziale liquidazione del danno subito.

19.2. In proposito il collegio osserva che il giudice di primo grado ha errato laddove, in presenza del fatto (incontestato) della mai iniziata attività estrattiva e comunque della mai conclusa realizzazione delle opere che la rendevano possibile, ha incluso, nell’area dei danni risarcibili, il contributo nella sua dimensione originaria, opportunamente ridotto dall’amministrazione in considerazione della ridotta realizzazione delle opere che ne giustificavano l’erogazione. In altri termini costituirebbe un controsenso affermare la pretesa ad avere l’intero contributo per un’attività solo parzialmente svolta.

19.3. Sulla somma a tale titolo riconosciuta vanno calcolati gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, a partire dal formarsi delle singole voci di debito, calcolando l’incidenza che su di esse ha avuto la concreta erogazione del contributo statale.

19.4. Non va, invece, riconosciuta la somma relativa all’acquisto del terreno, in quanto esso è entrato definitivamente nel patrimonio dell’impresa e costituisce attualmente un valore vivo e quindi utilizzabile, sia direttamente dall’impresa sia da terzi, per effetto di cessione a vario titolo.

19.5. Parimenti, nessuna somma va riconosciuta a titolo di lucro cessante, in quanto, nell’ottica in cui va inquadrata la fattispecie, riconoscerla significherebbe configurare, nel caso di specie, il danno contrattuale positivo, ossia l’intero guadagno che all’impresa sarebbe derivato dall’esercizio dell’attività estrattiva. Invece risulta pacifico che l’impresa ha volontariamente rinunciato ad intraprendere l’attività. Ma, soprattutto, ha interrotto l’attività procedimentale e materiale, anche quando avrebbe potuto proseguirle per effetto della sospensione giudiziale dell’atto di sospensione della Regione.

Tuttavia, il danno a tale titolo richiesto, va valutato, nei limiti dell’interesse negativo, come occasione perduta di guadagno, nel senso che l’impiego di energie e sostanze nel procedimento, poi rivelatosi inutile, non ha consentito all’impresa di sfruttare altre occasioni di guadagno che in costanza del procedimento le si erano presentate.

Va da sé che la lettera di intenti presente agli atti, rilasciate da talune imprese disposte ad acquistare e distribuire il sale, non solo non costituisce prova sufficiente a configurare un serio impegno giuridico, ma soprattutto sono direttamente collegate alla mancata attività estrattiva, che per ciò solo, per le ragioni spiegate, si collocano fuori dell’area della risarcibilità.

20. In conclusione l’appello dell’impresa S. va rigettato; mentre l’appello della Regione Basilicata va parzialmente accolto.

Ricorrono giusti motivi per compensare le spese del grado del giudizio

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, riunisce gli appelli;

accoglie in parte l’appello della Regione Basilicata e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condanna la Regione medesima al pagamento della somma, così come rideterminata in motivazione;

rigetta l’appello dell’impresa S..

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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