Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 11-01-2011) 26-01-2011, n. 2650 Misure di prevenzione

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Svolgimento del processo e motivi della decisione

Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Trani, con ordinanza in data 16.2.2010, applicava nei confronti di D. V.N. la misura cautelare della custodia in carcere, in relazione ai delitti di furto aggravato, incendio e violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale.

Il Tribunale di Bari, Sezione del riesame, con ordinanza in data 8.3.2010 annullava il predetto titolo cautelare, disponendo l’immediata remissione in libertà del ricorrente ove non ristretto per altra causa.

Il Tribunale, dopo avere diffusamente ripercorso l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in ordine all’interpretazione del disposto di cui all’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, rispetto alla valutazione della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza per l’applicazione di misure cautelari, con riferimento alle dichiarazioni rese da soggetto indagato in procedimento connesso ovvero collegato ex art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), rilevava che, nel caso di specie, i riscontri alle dichiarazioni rese dal minore L., figlio della titolare dell’esercizio commerciale teatro del furto di cui al capo A) della rubrica, non risultavano connotati da elementi individualizzanti. L.G. aveva, infatti, riferito ai Carabinieri di essere stato avvicinato da D.V. N. – conosciuto per avere in diverse occasioni fumato insieme hashish – e di essere stato indotto dal D.V. ad impossessarsi delle chiavi della gioielleria della madre, al fine di effettuare un duplicato. Il dichiarante aveva pure riferito che la notte del (OMISSIS) si era incontrato con D.V.; e che quest’ultimo gli aveva confidato di avere coinvolto altri due complici, ai quali aveva assegnato il compito di incendiare una vettura, al fine di sviare le forze dell’ordine. L. aveva precisato che uno dei complici, tale G., aveva rotto il cassettino dove si trova il pulsante per azionare l’apertura della serranda, mentre l’altro, Gi., aveva consegnato al D. V. una ricetrasmittente per tenersi in contratto durante la consumazione del delitto. L. aveva riferito che una volta all’interno del negozio D.V. si era impossessato di gioielli, assegni e denaro contante, riempiendo un borsone che aveva portato con sè; e che dopo il furto tutti si erano recati a casa del D.V., ove questi aveva trattenuto la refurtiva. Il dichiarante aveva, infine, precisato che G. si era presentato utilizzando un fuori strada di colore scuro munito di un carrello per trainare barche; ed aveva effettuato il riconoscimento fotografico per D.V. e per G., ossia A.B..

Nel procedere al vaglio critico delle dichiarazioni del L., il Tribunale del riesame rilevava che la madre del dichiarante aveva riferito che il figlio G., tossicodipendente, pochi giorni prima del fatto per cui si procede aveva perpetrato un furto presso la gioielleria; e che la donna aveva riferito, inoltre, che un duplicato delle chiavi del negozio si trovava nell’abitazione familiare e che il figlio era a conoscenza del luogo ove il mazzo veniva custodito. Al riguardo, il Tribunale evidenziava che le circostanze riferite dalla donna apparivano rilevanti al fine di valutare l’attendibilità del racconto del L., giacchè rendevano inverosimile la riferita evenienza, relativa alla necessità di effettuare un duplicato delle chiavi della gioielleria.

Sotto altro aspetto, il Tribunale osservava che il racconto del L. risultava inattendibile anche in relazione all’incendio della autovettura ai danni di Am.Vi., avvenuto effettivamente la notte del (OMISSIS); sul punto, il collegio evidenziava che non era stato rinvenuto materiale infiammabile indicativo del carattere doloso dell’incendio; e che lo stesso proprietario del veicolo aveva riferito che la vettura aveva avuto problemi di perdita di gasolio dal motore. Il Tribunale considerava l’inidoneità delle ricognizioni fotografiche effettuate dal minore a costituire riscontro alla partecipazione dei due indagati al furto, atteso L. conosceva D.V., per avere i due consumato insieme sostanze stupefacenti. Il Collegio evidenziava che il messaggio inviato dal ragazzo, tramite telefono cellulare, al D. V. risultava unicamente indicativo della relazione di conoscenza tra i due.

Avverso la richiamata ordinanza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Trani, deducendo la violazione della legge processuale e la mancanza di motivazione. Rilevava parte ricorrente che risultava accertata la perpetrazione del reato di cui al capo C), da parte del D.V., atteso che le intercettazioni telefoniche effettuate avevano evidenziato l’illegittimo uso del telefono da parte del prevenuto, rispetto alle prescrizioni impostegli; e che il provvedimento adottato dal Tribunale risultava carente di ogni motivazione, sul punto.

Secondo il ricorrente le dichiarazioni rese da L., soggetto non punibile ai sensi dell’art. 649 c.p., non dovevano essere riscontrate sulla base di elementi individualizzanti; non di meno, osservava la parte che anche ritenendo necessario reperire elementi individualizzanti di riscontro, il Tribunale non aveva adeguatamente considerato che tutti i fatti indicati dal L. erano risultati riscontrati. Il ricorrente richiamava, al riguardo: le modalità del furto, la relazione di conoscenza tra il dichiarante ed il D.V., il messaggio telefonico inviato dal ragazzo al D. V., l’intervenuto incendio dell’autovettura, il possesso da parte dell’ A. di un fuori strada ed altro.

Il ricorso è fondato, nei sensi di seguito specificati.

Si osserva, primieramente, che non appare revocabile in dubbio che la chiamata in correità resa dal minore L.G., ai fini dell’individuazione dei gravi indizi di colpevolezza, legittimanti l’adozione di una misura cautelare personale, necessiti della selezione di elementi esterni di conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni. Ed invero, questa Suprema Corte ha chiarito che l’ipotesi prevista dall’art. 649 c.p. integra una causa personale di esenzione dalla pena (Cass. Sez. 4, sentenza n. 26386 del 7.5.2009, dep. 25.6.2009, Rv. 244385), giacchè sotto il profilo oggettivo e sotto quello soggettivo il fatto commesso da imputato non punibile contiene gli elementi tipici del fatto-reato e la punibilità è esclusa soltanto per ragioni di politica criminale. Conseguentemente, le dichiarazioni rese da soggetto non punibile ai sensi dell’art. 649 c.p., come nel caso di specie, devono essere valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità, ex art. 192 c.p.p., comma 3, norma che viene in rilievo anche ai fini della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, stante il disposto di cui all’art. 273 c.p.p., comma 1 bis. Sotto tale profilo, l’ordinanza impugnata non appare censurabile: le dichiarazioni eteroaccusatorie rese dal L., per potere integrare un quadro indiziario utile ai fini cautelari, ex art. 273 c.p.p., comma 1, necessitano certamente di elementi di riscontro di portata individualizzante, idonei cioè a riferire il fatto storico alla persona del chiamato.

Tanto chiarito, occorre ora soffermarsi sulle censure specificamente mosse dal ricorrente in ordine al compiuto apprezzamento della gravità indiziaria da parte del Tribunale di Bari. In ordine alla questione che oggi occupa, si osserva che questa Suprema Corte ha affermato il seguente principio: "ai fini dell’adozione di misure cautelari personali, le dichiarazioni rese dal coindagato o coimputato del medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato possono costituire grave indizio di colpevolezza, ex art. 273 c.p.p., commi 1 e 1bis, soltanto se, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, siano sorrette da riscontri esterni individualizzanti, sì da assumere idoneità dimostrativa in relazione all’attribuzione del fatto-reato al soggetto destinatario della misura, fermo restando che la relativa valutazione, avvenendo nel contesto incidentale del procedimento "de libertate" e, quindi, allo stato degli atti, cioè sulla base di materiale conoscitivo ancora "in itinere", deve essere orientata ad acquisire non la certezza, ma la elevata probabilità di colpevolezza del chiamato" (Cass. Sez. Un., Sentenza n. 36267 del 30/05/2006, dep. 31/10/2006, Rv. 234598). Nel caso, la motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Bari resa in data 8.3.20101 risulta affetta da manifesta illogicità, risultante dal testo del provvedimento impugnato, per l’incongruità delle argomentazioni svolte, rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 2146 del 25/05/1995 Cc., dep. 16/06/1995, Rv. 201840). Segnatamente, la valutazione degli elementi indizianti di cui all’art. 273 c.p.p. non appare conferente rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 22500 del 03/05/2007 Cc, dep. 08/06/2007, Rv. 237012). Si osserva che fondatamente il PM impugnante rileva che il Tribunale, pur condividendo i richiamati principi, ha poi omesso di valutare gli elementi di riscontro presenti in atti. E’ noto che la giurisprudenza di questa Corte, richiamata del resto anche dal Tribunale, ha sostenuto che l’art. 192 c.p.p., comma 3 non pone alcuna limitazione per quanto riguarda l’individuazione dei riscontri, che possono consistere in elementi di qualsivoglia natura purchè, pur non avendo autonoma forza probante, siano in grado di corroborare la chiamata in correità, conferendole la credibilità propria di qualsiasi elemento indiziario. Nel caso, deve invero rilevarsi che il Tribunale di Bari ha proceduto ad una valutazione atomistica dei plurimi elementi di conferma dell’attendibilità della chiamata di correo effettuata dal L., di talchè il ragionamento diviene censurabile in sede di legittimità, non rispondendo ai criteri della completezza e della plausibilità riguardo alla valutazione in ordine alla idoneità dei riscontri a porsi quale efficiente conferma della credibilità del chiamante in correità. E’ appena il caso di osservare, al riguardo, che del tutto inconferente risulta l’apprezzamento operato dal Collegio circa la portata individualizzante da assegnare al fatto, inequivocamente accertato, che il dichiarante ebbe ad inviare al D. V. un messaggio tramite telefono cellulare il giorno stesso in cui ebbe a verificarsi il furto nella gioielleria. Invero, il contenuto del messaggio – finalizzato ad un incontro tra i due – ed il fatto che l’invio del messaggio intervenne lo stesso giorno di perpetrazione del reato di cui al capo A) ed in un contesto temporale prossimo alla consumazione del furto in gioielleria, inducono logicamente a ritenere che l’evenienza riscontri non solo l’affermazione relativa alla sussistenza di un rapporto di conoscenza tra i due, come ritenuto dal Tribunale, ma anche la dichiarazione eteroaccusatoria del L., il quale ha riferito di essersi appositamente incontrato con D.V. in data 1 febbraio 2010, secondo gli accordi intercorsi con il chiamato, al fine di realizzare il preordinato programma criminoso.

Oltre a ciò, deve rilevarsi che la motivazione del provvedimento gravato risulta incompleta rispetto al tema del decidere, non contenendo alcun riferimento al compendio indiziario relativo al reato di cui al capo C), fattispecie che pure soddisfa, a termini di contestazione, le condizioni di applicabilità della misura cautelare richiesta.

Si impone, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Bari, in diversa composizione personale. Viene disposta la trasmissione di copia del presente provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario competente perchè provveda a quanto stabilito dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Bari in diversa composizione personale. La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmesso al direttore dell’istituto penitenziario competente perchè provveda a quanto stabilito dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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