Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 21-12-2010) 26-01-2011, n. 2742 Aggravanti comuni aggravamento delle conseguenze del delitto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 3 giugno 2010 il Tribunale di Catania, costituito ex art. 309 c.p.p., confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa confronti di B.S. dal Gip dello stesso tribunale, in data 12.5.2010, in relazione al reato di omicidio premeditato (capo A), detenzione e porto di arma clandestina (capo B), distruzione di cadavere, escludendo l’aggravante di cui all’art. 577 c.p., n. 4 (contestata al capo A) e quella di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 (contestata ai capi A, B e C).

Richiamando testualmente alcuni passi dell’ordinanza del gip, il tribunale riteneva la sussistenza a carico del B. dei gravi indizi di colpevolezza in ordine all’omicidio, avvenuto nell’aprile 2009, di G.S. il cui cadavere era stato trovato bruciato all’interno della sua autovettura che era stata incendiata.

Il compendio indiziario emergeva in primo luogo dalle dichiarazioni di T.S. che si autoaccusava della partecipazione all’omicidio affermando che era stato deciso da L.A. e B.S. perchè il G., che partecipava alle attività illecite gestite nel territorio di (OMISSIS) da un gruppo facente capo al L. ed altri, non si era attenuto alle disposizioni del sodalizio. Il giorno dell’esecuzione egli stesso aveva accompagnato il B. il quale aveva sparato alla vittima che si trovava nell’auto alla quale poi avevano appiccato il fuoco.

Il B. aveva, quindi, nascosto lungo la strada l’arma utilizzata per sparare.

Il T. aveva, quindi, ripetutamente ribadito tali dichiarazioni, fornendo, altresì, ulteriori particolari che trovavano conferma: a) dal rinvenimento dell’arma (pistola semiautomatica cal. 7,65) nel luogo indicato dal T.; b) dalla compatibilità di detta arma con il bossolo rinvenuto nell’autovettura della vittima; c) dai risultati degli accertamenti tecnici dai quali emergeva che la vittima era stata sparata alla testa, che la canna della pistola trovata recava tracce ematiche riconducibili al G., che la maglia utilizzata per avvolgere l’arma occultata recava tracce biologiche da contatto appartenenti all’indagato ed anche le impronte papillari presenti sulla busta di plastica nella quale era custodita la pistola erano riconducibili al B..

2. Avverso il citato provvedimento ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, B.S., denunciando al primo punto vizio di motivazione, con riferimento all’art. 192 c.p.p., comma 3 e art. 273 c.p.p., per motivazione meramente apparente e manifestamente illogica. In specie, lamenta l’acritico richiamo del tribunale all’ordinanza genetica e conseguente illegittimità della motivazione per relationem; l’omessa motivazione in ordine alla valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3 ed alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, delle dichiarazioni del collaboratore T.; la contraddittorietà tra la esclusione dell’aggravante contestata di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e la predetta valutazione delle dichiarazioni del T. avuto riguardo al movente dell’omicidio.

Con il secondo motivo di ricorso lamenta il vizio della motivazione con riferimento agli artt. 274 e 275 c.p.p.: privo di qualsivoglia aggancio fattuale sarebbe la affermazione della elevatissima caratura criminale dell’indagato; inoltre, pur tenendo conto della disciplina dell’art. 275 c.p.p., comma 3, il tribunale non ha in alcun modo motivato in ordine alla sussistenza, argomentata dalla difesa, di elementi dai quale andava desunta l’insussistenza di esigenze cautelari, in particolare, avuto riguardo al comportamento del B. che, pur essendo a conoscenza di essere indiziato di un gravissimo reato, si è sottoposto alle verifiche investigative e non si è mai allontanato, tanto che il provvedimento di fermo del pubblico ministero è stato eseguito nel luogo di lavoro, mesi dopo gli accertamenti del RIS.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato e, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.

1. Con specifico riferimento alla motivazione dei provvedimenti emessi nella fase cautelare, il vaglio demandato a questa Corte non può non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, prescritti dall’art. 273 c.p.p. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni riservate al giudice di merito.

Tanto premesso, quanto alla censura in ordine alla ritenuta motivazione per relationem, secondo il costante indirizzo di questa Corte, la motivazione "per relationem" può determinare l’illegittimità del provvedimento conclusivo del giudizio di impugnazione cautelare soltanto se lo stesso sia genericamente motivato con un rinvio generale al provvedimento impugnato tale da costituire una sostanziale vanificazione del mezzo di impugnazione;

mentre la motivazione per relationem può svolgere una funzione integrativa, inserendosi in un contesto che disattende i motivi di gravame con richiamo ad argomenti contenuti nel provvedimento impugnato (S.U., 26 novembre 2003, n. 919, Gatto, rv. 226488; Sez. 1, 1 ottobre 2004, n. 43464, Perazzolo, rv. 231022).

Nella specie, invero, il tribunale del riesame non ha rinviato per relationem alla motivazione dell’ordinanza genetica della misura cautelare, ma, piuttosto, ha riportato testualmente parti della stessa al fine esplicitato di sintetizzare la ricostruzione dei fatti emersi dalle indagini e le dichiarazioni del collaboratore. Quindi, il tribunale, con motivazione completa e del tutto esente da incongruenze e da interne contraddizioni, ha rappresentato le ragioni che hanno indotto a ravvisare, a carico del ricorrente, i gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati contestati.

Specifica, completa ed articola è la motivazione in ordine alla valutazione obiettiva ed ancorata alle concrete e specifiche acquisizioni probatorie delle dichiarazioni rese dal collaborante, T.S., nella quale il tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto, esplicitamente richiamati, avuto riguardo ai criteri di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3. Nè può inferirsi – come assunto dal ricorrente – alcuna contraddizione o incongruenza dalla esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 in quanto ritenuta fondata esclusivamente sulle dichiarazioni del collaborante.

2. La motivazione della ordinanza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse anche con riferimento alla valutazione della esigenze cautelari ed alla adeguatezza della misura applicata.

Deve essere ricordato che l’insussistenza delle esigenze cautelari è censurabile in sede di legittimità soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme o nella mancanza o manifesta illogicità della motivazione, rilevabili dal testo del provvedimento impugnato (Sez. 1, 6 febbraio 1996, n. 795, rv. 204014).

Sullo specifico punto contestato dal ricorrente il tribunale non si è limitato a richiamare la disposizione dell’art. 275 c.p.p., comma 3, ma ha ritenuto sussistenti i presupposti di cui all’art. 274 e 275 c.p.p. evidenziando: la gravità dei fatti e l’allarmante modalità dell’azione (oltre alle modalità dell’esecuzione dell’omicidio, l’incendio dell’auto e del cadavere, l’occultamento dell’arma), espressione di particolare efferatezza, dalle quali ha tratto la valutazione di elevata caratura criminale dell’indagato – ad onta dell’incensuratezza – con valutazione, quindi, obiettiva ed ancorata alle concrete e specifiche emergenze fattuali.

Il provvedimento impugnato, quindi, anche sotto tale profilo ha fatto corretta applicazione dei canoni ermeneutici indicati dalla corte di legittimità, laddove ha affermato che il giudizio prognostico relativo al pericolo di recidiva deve avere riguardo alle specifiche modalità e circostanze del fatto, indicative dell’inclinazione del soggetto a commettere reati della stessa specie.

Generico ed inidoneo a contraddire la predetta valutazione deve ritenersi l’argomento difensivo che l’indagato non si è reso irreperibile pur essendo a conoscenza delle indagini in corso.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi idonei ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Costituzionale sent. n. 186 del 2000), al versamento a favore della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro mille, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle Ammende.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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