T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 20-01-2011, n. 154 Libertà di circolazione e soggiorno

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

H.T. ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, deducendone l’illegittimità per violazione di legge, con particolare riferimento alla mancata comunicazione di avvio del procedimento e alla carenza di motivazione, nonché per eccesso di potere, chiedendone l’annullamento.

Si è costituita in giudizio l’amministrazione resistente, eccependo l’infondatezza del ricorso avversario e chiedendone il rigetto.

Con ordinanza datata 06..09.2007 il Tribunale ha respinto la domanda incidentale di sospensione dell’atto impugnato.

All’udienza del 15.12.2010 la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1) Con il provvedimento impugnato l’amministrazione ha revocato il permesso di soggiorno già rilasciato ad H. per motivi di lavoro subordinato, in quanto dalle indagini effettuate – anche in sede penale per il reato di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – è emerso che la società "Cooperativa C.I.S. a.r.l.", indicata quale datore di lavoro, aveva redatto un falso contratto di lavoro ed altri documenti falsi utilizzati dal ricorrente per ottenere il permesso di soggiorno.

Il provvedimento specifica che la documentazione indicata, diretta a simulare un rapporto di lavoro inesistente, ha tratto in errore il pubblico ufficiale competente, sicché il provvedimento è stato rilasciato "nell’erroneo convincimento della sussistenza di un rapporto di lavoro e della disponibilità di un reddito".

2) Preliminarmente deve essere respinta la richiesta di rinvio del giudizio in attesa della definizione del procedimento di sanatoria attivato dal ricorrente ai sensi del d.l. 2010 n. 78, presentata dalla difesa del ricorrente con atto depositato in data 15.12.2010, atteso che la normativa indicata non concerne la sospensione del processo amministrativo.

3) Con il primo motivo il ricorrente lamenta la mancata comunicazione di avvio del procedimento, evidenziando che il ricorrente è sempre reperibile presso la propria residenza sita in Milano, via Lucania n. 16.

La censura è infondata.

Invero, dalla documentazione versata in atti emerge che l’amministrazione, non solo ha predisposto la comunicazione di avvio del procedimento, ma ha anche cercato di notificarla presso la residenza indicata dal ricorrente, in Milano via Lucania n.16.

Nondimeno, dal verbale di vane ricerche predisposto in data 14.12.2006 emerge che il nominativo dell’H. non compariva né sui citofoni, né sulle cassette postali; inoltre, neppure i condomini, interpellati sul punto dagli operanti, conoscevano il ricorrente.

Ne deriva che, in mancanza di ulteriori indicazioni da parte del ricorrente in ordine al suo domicilio effettivo, l’amministrazione ha correttamente cercato di notificare la comunicazione di avvio del procedimento nel luogo di residenza indicato dal ricorrente medesimo, luogo nel quale egli è risultato sconosciuto, sicché il mancato ricevimento dell’avviso di cui all’art. 7 della legge 1990 n. 241 non è imputabile ad omissioni dell’amministrazione, ma alla irreperibilità dell’interessato.

Del resto, nel ricorso egli si limita a sostenere di essere sempre reperibile nel luogo indicato come residenza, ma tale affermazione, oltre ad essere del tutto generica, è smentita dalle risultanze delle ricerche effettuate dall’amministrazione.

Va, pertanto, ribadita l’infondatezza della censura in esame.

4) Con il secondo e con il terzo dei motivi proposti, che possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi sul piano logico e giuridico, il ricorrente lamenta il difetto di motivazione.

La censura è infondata.

Invero, dal provvedimento impugnato e dagli atti istruttori in esso richiamati, emergono chiaramente le ragioni di fatto e di diritto sottese alla determinazione assunta.

In particolare, il provvedimento fa esplicito riferimento alle indagini, di rilevanza penale, che hanno portato ad accertare che la società indicata come datrice di lavoro – la "Cooperativa C.I.S. a.r.l." – si limitava a redigere contratti di lavoro falsi, simulando rapporti di lavoro con cittadini stranieri mai realmente costituiti.

Del resto, dalla documentazione versata in atti emerge che nel corso di una perquisizione presso gli uffici della società sono stati sequestrati supporti informatici contenenti timbri di Questure, Uffici Inail, Inps e dell’Agenzia delle Entrate di Milano, utilizzati per la contraffazione della documentazione.

Dalle indagini è emerso, poi, l’inadempimento da parte della Cooperativa degli obblighi relativi alle dichiarazioni dei salari dei dipendenti, mentre alcuni cittadini extracomunitari, assunti a verbale come persone informate sui fatti, hanno ribadito la non corrispondenza a rapporti di lavoro effettivi dei contratti di assunzione rilasciati dalla Cooperativa.

Ne deriva che dal provvedimento impugnato e dalla documentazione in esso richiamata emerge un quadro indiziario complessivo, che, da un lato, rende percepibili le ragioni della revoca, dall’altro, è idoneo a supportare la determinazione assunta.

Sotto altro profilo, va osservato che è del tutto irrilevante l’eventuale buona fede del ricorrente – la cui sussistenza è, comunque, solo affermata nel ricorso, ma non ancorata a dati concreti – in quanto si tratta di una circostanza che non incide sulla oggettiva insussistenza dei presupposti necessari per il rilascio del titolo di soggiorno.

Né merita condivisione la censura in esame nella parte in cui considera che l’amministrazione avrebbe potuto rilasciare un permesso per attesa occupazione, in quanto dalla documentazione versata in atti emerge che il ricorrente ha reiteratamente fruito di tale modalità di permesso dal 1996 in poi.

D’altro canto, egli risulta non avere svolto alcuna attività lavorativa dal 2004 al 2007, in quanto formalmente assunto dalla cooperativa nel mese di aprile del 2004 e poi licenziato nel mese di luglio 2004.

Ne deriva che tra la data da ultimo indicata e l’adozione del provvedimento impugnato egli non ha svolto alcuna attività lavorativa, pur permanendo in Italia sulla base del titolo poi revocato e, pertanto, fruendo di un periodo di soggiorno, pur senza svolgere attività lavorativa, per un tempo superiore a quello per il quale è consentito il rilascio di un titolo per attesa occupazione.

In altre parole, il periodo di tempo per il quale è possibile rilasciare un permesso per attesa occupazione è stato ampiamente fruito dall’interessato sulla base del precedente permesso di soggiorno, rimasto efficace sino alla data della revoca, nonostante la mancanza di attività lavorativa, con conseguente insussistenza dei presupposti per rilasciare un permesso per attesa occupazione (cfr. in argomento, tra le tante, T.A.R. Toscana Firenze, sez. I, 02 febbraio 2010, n. 175; T.A.R. Umbria Perugia, 14 giugno 2006, n. 317).

Va, pertanto, ribadita l’infondatezza dei motivi in esame.

5) Con l’ultimo dei motivi proposti il ricorrente lamenta la mancata traduzione del provvedimento in lingua comprensibile al destinatario.

La censura è infondata.

Sul punto è sufficiente osservare che la mancata conoscenza della lingua italiana è affermata dal ricorrente in modo del tutto apodittico e, del resto, la circostanza che egli si trovi in Italia dal 1996 non rende verosimile la non comprensione del provvedimento impugnato adottato nel 2007, ossia più di dieci anni dopo l’arrivo in Italia dell’H..

In ogni caso, va ribadito il costante orientamento giurisprudenziale a mente del quale l’omessa traduzione del provvedimento in lingua italiana non incide sulla legittimità dell’atto, ma integra una mera irregolarità, idonea a porsi, in caso di effettiva non conoscenza della lingua italiana, come presupposto per il riconoscimento dell’errore scusabile in caso di presentazione del ricorso oltre il termine perentorio stabilito dalla legge, circostanza quest’ultima non sussistente nel caso concreto (Consiglio Stato, sez. VI, 21 luglio 2010, n. 4789).

Va, pertanto, ribadita l’infondatezza della censura in esame.

6) In definitiva, il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione terza, definitivamente pronunciando, respinge il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi euro duemila (2.000,00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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