Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-11-2010) 26-01-2011, n. 2797

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Hanno proposto ricorso per cassazione:

– D.G.G., detenuto;

– M.E., detenuto;

– T.O., libero;

– V.D., detenuto;

avverso la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta in data 16 luglio 2009;

con la quale, per quello che qui interessa, e salvo modifiche del trattamento sanzionatorio di V. e D.G., è stata ribadita la affermazione di responsabilità degli stessi in ordine ai reati addebitati con la sentenza di primo grado (emessa dal Gup di Caltanissetta, all’esito di giudizio abbreviato, il 16 ottobre 2008), come di seguito specificati:

– per D.G., i reati di cui ai capi A) (partecipazione ad associazione di stampo mafioso denominata "stidda" e sue articolazioni, aggravato, L. n. 575 del 1965, ex art. 7, dal fatto di avere posto in essere il reato mentre si trovava sottoposto a misura di prevenzione), con aumento anche per recidiva specifica infraquinquennale, fatto commesso da (OMISSIS));

C) (concorso nella estorsione pluriaggravata in danno di I. C., fatto commesso dal (OMISSIS)), D) (concorso nella estorsione pluriaggravata in danno di A. R., fatto commesso dal (OMISSIS)); e J) (violazione delle prescrizioni inerenti la misura di prevenzione);

– V.: capo B) (concorso in estorsione in danno di G. V., aggravata L. n. 152 del 1991, ex art. 7), fatto commesso nel gennaio 2007;

– M., capo C) (concorso nella estorsione pluriaggravata in danno di I.C., fatto commesso dal (OMISSIS)); J) (violazione delle prescrizioni inerenti la misura di prevenzione);

– T., capo D) (concorso nella estorsione pluriaggravata in danno di A.R., fatto commesso dal (OMISSIS)).

D.G. deduce:

1) la violazione dell’art. 192 c.p.p., e il vizio di motivazione.

Nell’atto di appello erano state articolate deduzioni per contestare la attendibilità dei collaboratori di giustizia S. e Z. e soprattutto la linearità per percorso argomentativo del Gup il quale aveva dapprima affermato la attendibilità dei dichiaranti per poi invece valorizzare, in relazione ai singoli reati, diverse risultanze di indagine. In particolare, con riferimento al capo C), il Gup aveva sostenuto che le dichiarazioni dei collaboranti e quelle della persona offesa coincidevano in parte, con ciò ammettendo che non erano affatto sovrapponibili. Quindi aveva proceduto ad un’opera di "collage" dei diversi particolari provenienti dalle diverse fonti probatorie, utili alla affermazione di responsabilità. Si era trattato però della predisposizione di una motivazione manifestamente illogica posto che il G up avrebbe dovuto scegliere a quale ricostruzione proveniente dalle due differenti fonti aderire.

La Corte aveva ripetuto l’errore de Gup. Il collaboratore Z. era stato valorizzato senza considerare che si trattava di chiamante in reità informato solo de relato e che aveva reso dichiarazioni sul reato associativo dal quale esso ricorrente era stato poi assolto.

Inoltre la Corte aveva mal risolto la illogicità che derivava dal fatto che dei cinque collaboranti escussi, tre ( C., L. e Te.) non avevano confermato la partecipazione del ricorrente alla associazione mafiosa.

Ancor più evidente era la illogicità della motivazione con cui si era affermata la credibilità del collaborante S.. Questi non aveva infatti concluso positivamente l’atto di individuazione fotografica del D.G., avendo indicato come riferita a tale soggetto, la foto di un altro; inoltre lo aveva accusato di partecipazione alla estorsione dell’ I., omettendo di autoaccusarsi dello stesso reato.

Per tali motivi, evidentemente, nella sentenza di appello è stato valorizzato, quale centrale elemento di accusa, la ricostruzione della persona offesa, la quale, però, ha potuto riferire una circostanza pacifica (la dazione di danaro) ma non la relativa causale.

Invero, la difesa aveva dimostrato che la conoscenza dell’ I., da parte del D.G., non poteva essere anteriore all’ottobre 2006 (data della denuncia di atto vandalico, a seguito del quale l’ I. si era recato dal perito per ottenere la valutazione del danno e ivi aveva conosciuto il D.G.).

Invece la Corte aveva valorizzato il fatto che il D.G. avesse collocato temporalmente tale incontro al 2005, ignorando che tale ricostruzione era stata molto incerta, come sottolineato nei motivi di appello.

Era vero, piuttosto, che l’incontro e la dazione di danaro erano da correlare alla data di redazione della perizia ed aveva come causale il mandato ad effettuare una vendetta contro l’autore dello sfregio alla vettura, mandato che l’ I. non poteva confessare essendo illecito. Egli infine, aveva reso due versioni, tra loro contrastanti e neppure di ciò la Corte d’appello si era occupata.

In relazione al capo D) la Corte aveva omesso di motivare su una vistosa incongruenza emersa dalla istruttoria. E cioè sul fatto che secondo la persona offesa A., la vicenda estorsiva si era protratta fino all’inizio del 2005, mentre secondo la versione di T. e dei collaboranti il contributo di D.G. era riferibile al periodo 2006 – 2007. La Corte aveva ritenuto che la collaborazione, viceversa, risalisse addirittura al 2004, quando il D.G. era detenuto.

Sul capo A), le dichiarazioni dei collaboranti erano state ritenute riscontrate dalla prova dei reati fine (estorsioni) mentre è vero che la chiamata di correo deve essere sostenuta da un riscontro individualizzante sulla riferibilità cioè del reato oggetto della chiamata (quello associativo) e non di altri, al ricorrente.

Vi era una illogicità, poi, nella motivazione della sentenza tra la parte in cui si dava atto della occasionale partecipazione del D. G. alla realizzazione dei reati fine e la parte in cui si sostiene, viceversa, il suo contributo non occasionale;

sul capo J) il ricorrente evidenzia che l’eventuale accoglimento del motivo di ricorso sul reato associativo, farebbe cadere il presupposto per la sussistenza del reato di violazione delle prescrizioni connesse alla misura di prevenzione, reato che, appunto, si basa sulla previa configurabilità del reato associativo a carico del proposto;

2) la erronea applicazione dell’aggravante L. n. 575 del 1965, ex art. 7.

La Corte non aveva valutato la documentazione prodotta dalla difesa per dimostrare che all’atto della consumazione dei reati ritenuti aggravati ex art. 7 cit., il provvedimento applicativo della misura di prevenzione era ancora sub judice;

3) la erronea applicazione dell’art. 62 c.p., n. 6.

Le parti avevano raggiunto un accordo sul danno da risarcire e tale danno era stato rifuso, con revoca della costituzione di parte civile. Il Giudice nulla avrebbe potuto osservare sulla adeguatezza di tale accordo posto che, comunque, la parte civile aveva perso qualsiasi possibilità di adire ulteriormente il giudice civile a seguito della transazione sottoscritta.

4) il vizio di motivazione sul diniego delle attenuanti generiche, a fronte di una consistente documentazione prodotta dalla difesa;

5) la illogica applicazione della misura della libertà vigilata, in assenza di prova su una consistente pericolosità sociale.

M. deduce:

il vizio di motivazione e la violazione di legge.

La affermazione di responsabilità per il concorso nella estorsione ai danni di I. era stata pronunciata nonostante che, nell’atto di appello, si fosse sottolineato che due collaboratori S. e Z. non avevano fatto cenno a tale partecipazione.

La Corte aveva ignorato tale doglianza basandosi solo sulle dichiarazioni accusatorie della persona offesa e senza dare conto del silenzio dei due chiamanti in reità le cui affermazioni erano state riportate, come credibili, in sentenza.

T. deduce;

il vizio di motivazione.

Nei motivi di appello era stata segnalata, nella ricostruzione della presunta partecipazione del T., la contraddizione fra il ruolo attribuitogli dalla persona offesa A. e quello di cui ha parlato il teste Ca..

Il primo aveva affermato che era il Ca. a gestire i pagamenti del pizzo e a comunicargli, all’atto del pensionamento, che egli avrebbe dovuto continuare a pagare nelle mani di T. G. Il Ca. aveva invece sostenuto che era stato l’ A. ad affidargli l’incarico di pagare il pizzo ad un giovane. Era stato quest’ultimo a dirgli di pagare, in sua assenza, al T..

Si trattava di divergenze su un dato fondamentale, poichè, nella versione del Ca., il beneficiario della estorsione era un giovane rimasto non identificato, mentre il T. aveva il solo ruolo di percettore del danaro per ragioni di mero buon vicinato.

D’altra parte anche i collaboratori di giustizia non parlano del T. come di un affiliato alla cosca mafiosa beneficiarla.

Il ricorrente lamenta poi, alla luce delle incongruenze rilevate, la mancata disamina della prospettazione secondo cui i fatti sarebbero da inquadrare nel reato di favoreggiamento reale. E ciò anche in considerazione del fatto che il T. aveva ammesso di avere consegnato il denaro a soggetti partecipi della associazione denominata stidda, così dimostrando di non essere legato a costoro da alcuna affectio societatis.

V. deduce;

il vizio di motivazione sul diniego delle attenuanti generiche, pur dopo avere egli ammesso i fatti nella commissione dei quali aveva avuto un ruolo assolutamente marginale.

I ricorsi sono infondati e debbono essere rigettati.

Infondato è il ricorso del D.G..

Invero sono presenti nella articolazione della prima parte del primo motivo, evidenti profili di inammissibilità.

La parte lamenta infatti solo formalmente vizi logici della motivazione consistenti in presunti errori di logica nella valutazione delle fonti di prova ossia delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e della persona offesa.

Invece, considerata la evidente assenza di arbitrio nella valutazione operata dal giudice dell’appello ed anzi i connotati di razionalità e completezza che la contraddistinguono, il ricorso rivela la sua effettiva essenza che è quella di proporre al giudice della legittimità una lettura alternativa dei risultati di prova.

E tale richiesta non è ricevibile posto che, come ha evidenziato più volte questa Corte, in tema di vizi della motivazione il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (rv 215745).

Ebbene, come anticipato, la analisi della Corte d’appello è assolutamente congrua e si sottrae a censure da parte di questa Corte.

I due collaboratori di giustizia sono stati valutati quanto ad attendibilità soggettiva ed oggettiva delle rispettive dichiarazioni accusatorie nei confronti del D.G. e la Corte ha dato ampio conto della assenza di motivi di dubbio al riguardo. Sono state escluse ragioni di astio del dichiarante Z., così come pressanti ragioni per rendere dichiarazioni gradite alla Autorià.

Egli ha avuto conoscenza diretta dei fatti, per avere fatto parte del sodalizio fino alla collaborazione con gli inquirenti iniziata nel febbraio 2006, così come il S.. Inoltre la credibilità di tali soggetti è stata verificata alla luce delle convergenti dichiarazioni sia delle persone offese dai reati di estorsione (che fino al momento delle rivelazioni dei "pentiti" avevano taciuto per paura di ritorsioni) sia di alcuni degli imputati ( T., M. e V.) che, individuati come correi del D.G., avevano reso ammissioni più o meno ampie.

La Corte di è poi soffermata a verificare tale riconosciuta attendibilità alla luce dei contrari elementi evidenziati dalle difese, confermando il giudizio. Così sono state razionalmente svalutate talune contraddizioni in cui è caduto lo Z. riguardo a fatti diversi da quelli invece valorizzati dai giudici, e conosciuti personalmente; è stato dato conto dei rapporti di tali ricostruzioni con la diversa versione fornita da C., non solo riportata in una informativa di PG prodotta dalla difesa, ma attinente a fatti appresi da altri. I giudici hanno considerato la intervenuta assoluzione del D.G. dal reato associativo ex art. 416 bis, contestato come commesso fino al (OMISSIS), evidenziando come i fatti accertati nel diverso processo, pur non ritenuti provati in modo cale da giustificare una condanna penale, tuttavia non erano risultati inesistenti, tanto che, al contrario, avevano sostanziato la applicazione di una misura di prevenzione. La Corte non ha mancato neppure di analizzare,con argomentazione logica, sotto il profilo della attendibilità del S., il mancato riconoscimento fotografico del ricorrente da parte di costui. Infine i giudici dell’appello si sono soffermati sulle dichiarazioni difensive del D. G. il quale, nell’ammettere di avere ricevuto somme a più riprese dall’ I., ha sostenuto di essere stato pagato per una ritorsione che avrebbe dovuto attuare nell’interesse di I., contro i responsabili di uno sfregio alla sua vettura.

Ebbene, la Corte ha argomentato più che logicamente la inaccettabilità razionale di una simile ricostruzione degli eventi, anche e soprattutto in ragione del carattere particolareggiato del racconto a proposito delle coordinate temporali, delle quali si è dimostrato il sicuro contrasto con elementi obiettivi.

La Corte d’appello ha anche valutato attentamente il mutamento della ricostruzione dei fatti nelle dichiarazioni dell’ I. del 14 febbraio 2008, spiegando le ragioni della affidabilità delle solo dichiarazioni originarie, logiche, coerenti e particolarmente puntuali. Secondo queste, il D.G. era la persona che nei mesi di gennaio, febbraio e marzo del 2006 era venuto a riscuotere la somma di 260 Euro mensili, già convenuta con la cosca mafiosa e prima consegnata ad altri esponenti della stessa. La Corte, in altri termini, argomenta, sulla base delle conformi dichiarazioni di I. e di D.G. sul punto, che il primo incontro fra i due era avvenuto alla fine del 2005, sicchè "i passaggi al riguardo evidenziati dalla difesa possono leggersi come lo snodo del racconto di una estorsione che giunge all’epilogo mediante la indicazione delle ultime riscossione…"svolte tutte dal D.G." (pag. 44).

La Corte offre una plausibile spiegazione anche della diversa collocazione temporale dei fatti offerta dalla vittima nelle nuove dichiarazioni, giungendo ad accreditare la ipotesi che tra D. G. e I. possa esservi stato, dopo l’ottobre del 2006, un altro abboccamento questa volta ricercato dalla vittima che, conscia della caratura mafiosa del D.G., voleva chiedergli spiegazioni del danneggiamento subito.

Inammissibili per analoghe ragioni sono i motivi di ricorso che riguardano la completezza e logicità della motivazione riguardo al reato sub D).

La motivazione esibita dai giudici dell’appello contiene una completa analisi delle ragioni per le quali le divergenze delle dichiarazioni della persona offesa, da un lato, e dei coimputati o collaboranti dall’altro, sulla data del commesso reato, sono superabili ai fini che qui interessano.

La Corte ha spiegato che la quadratura delle rispettive affermazioni può essere ragionevolmente perseguita considerando che il T., nel confinare le proprie condotte in concorso con D. G., al 2006, ha tentato di ridimensionare il proprio coinvolgimento, mentre è emerso una suo contributo alla estorsione in danno di A. più ampia di quella confessata.

A tale ricostruzione la difesa oppone inammissibilmente un tipo di censura che si risolve nel tentativo di declinare la ricostruzione operata dai giudici del merito, prescindendo totalmente dallo sforzo argomentativo dagli stessi realizzato con successo.

In ordine alla configurazione del reato associativo, la censura della difesa non coglie nel segno.

Infatti i principali elementi di prova valorizzati dai giudici del merito sono costituiti dalle convergenti dichiarazioni accusatorie di due collaboratori di giustizia ( Z. e S.) i quali hanno riferito fatti direttamente e personalmente conosciuti.

Come è noto i riscontri esterni alle chiamate in correità possono essere costituiti anche da ulteriori dichiarazioni accusatorie, le quali devono caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) per la loro indipendenza – intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente – da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la cd. convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non può pretendersi una compieta sovrapponibilità degli elementi d’accusa forniti dai dichiaranti, ma deve privilegiarsi l’aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere (Rv. 239744). Elementi, questi ultimi, di cui non è contestata la ricorrenza nel caso di specie.

Resta conseguentemente assorbito il motivo di ricorso riguardante il reato sub J. Il secondo motivo è inammissibile per genericità.

Invero la lettura dei motivi di appello evidenzia che la difesa si era limitata in quella sede ad affermare che "errata e non motivata è la ritenuta sussistenza delle aggravanti contestate" e la risposta dei giudici dell’appello, al riguardo, è tale da non risultare inficiata da alcun vizio.

La Corte si è limitata infatti a rilevare la assoluta genericità della critica e a riportarsi alle argomentazioni del primo giudice, condivise e non inficiate da specifici rilievi dell’appellante.

Tale situazione processuale rimane insuscettibile di censura anche da parte di questa Corte posto che non solo deve confermarsi che il giudice dell’appello ha assolto l’onere di motivazione che su si lui incombeva in relazione al devoluto, ma in più, deve sottolinearsi come anche il motivo di ricorso sia assolutamente generico.

In esso si fa riferimento a presunta documentazione prodotta, senza indicare di quali atti si tratti e quale sia la loro eventuale rilevanza, così venendo meno al dovere di allegazione imposto dall’art. 581 c.p.p..

Considerazioni in tutto omologhe valgono per la statuizione del diniego delle attenuanti generiche e quelle concernenti la libertà vigilata.

Il terzo motivo è infondato alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte che nessuna rilevanza decisiva annette alla dichiarazione liberatoria della persona offesa, quando il giudice accerti che il risarcimento non ha coperto la integralità del danno cagionato.

Si è più volte osservato che la circostanza attenuante della riparazione del danno non può essere riconosciuta sulla base soltanto dalla generica dichiarazione liberatoria della persona offesa (Rv. 247118; conformi: N. 4050 del 1983 Rv. 158815, N. 7147 del 1989 Rv. 181336, N. 9582 del 1991 Rv. 188205, N. 6679 del 1995 Rv. 201538).

In un recente intervento, poi, le Sezioni unite di questa Corte hanno segnalato come sia "canone interpretativo comune delle norme penali che le condotte in esse previste, salvo le eccezioni espressamente indicate, debbano essere connotate da volontarietà e che vada osservato e conservato nel concreto, nel suo profilo assiomatico, il vai ore della locuzione impiegata dal legislatore. E quindi "l’aver riparato", per integrarsi, non può consistere solo nella sussistenza dell’evento, ma deve comprendere una volontà di riparazione. Tanto più che riparazione non è locuzione neutra, quale ad esempio estinzione del debito o soddisfacimento dello stesso, ma è voce di segno positivo in funzione del grado di disvalore di cui lo specifico reato costituisce espressione".

Ne consegue che deve ritenersi in linea con tali principi la decisione del Giudice del merito secondo cui la obiettiva incongruità del risarcimento effettuato dall’imputato non può essere sottratta alla sua cognizione in ragione di un accordo con a la persona offesa.

Infondato è il ricorso del M..

L’avv. Gagliano lamenta la mancata valutazione dei motivi di appello con i quali era stato segnalato il silenzio dei collaboranti sulla cooperazione del M..

Vi è però da considerare che tale doglianza è del tutto eccentrica rispetto a quanto è avvenuto in fase di appello, come registrato nella sentenza impugnata.

In essa, a pag. 24, si da atto che " M. ha dichiarato di ammettere i fatti materialmente contestatigli al capo C) della imputazione, limitatamente alle condotte riferibili al 1999.

Si era trattato, cioè, della condotta consistita nel recarsi, appunto nel 1999, dall’ I., con il Mo., dopo la visita del Mi., ribadendo la richiesta estorsiva e ottenendo la somma di denaro a titolo di pizzo. Tale comportamento era già stato con precisione delineato dalla persona offesa la quale, secondo la Corte, aveva lealmente riferito che il M. non era tra coloro che avevano proceduto alle rispettive esazioni.

Come ammesso anche dalla difesa, dunque, incontroverso deve ritenersi il fatto che il M. abbia riscosso la somma di 2 milioni nel 1999.

La Corte ha poi dato atto che nell’incontro sopra descritto e confessato dall’imputato, era stato imposto alla vittima anche il pagamento di 500 mila L. ogni mese, con la conseguenza che il M., in ragione della posizione di vertice assunta, non poteva non essere ritenuto responsabile anche delle esazioni successive, frutto però di un’unica antecedente condotta minacciosa, seppure portate a compimento da altri appartenenti alla compagine criminosa.

In altri termini, la Corte di merito ha reso un giudizio più che completo e razionale sulle fonti di prova (storielle e logiche) utilizzate per sostenere la sussistenza del reato e non si ravvisa affatto una apprezzabile lacuna motivazionale derivante dalla omessa considerazione di ciò che in ipotesi, altri collaboranti non descrivono con compiutezza riguardo alla posizione del M., relativamente alla fase successiva all’accordo illecito primigenio.

Infine la difesa non da conto del fatto che, come attestato in sentenza (pag. 24), vi è stata rinuncia degli avvocati Gagliano e Sinatra a tutti i motivi di appello concernenti la assoluzione dal reato contestato, con conseguente preclusione alla formulazione di motivi di ricorso sul tema.

Anche il ricorso del T. deve essere rigettato.

Si apprezza, invero, un profilo di inammissibilità del ricorso dovuto alla preclusione del motivo di doglianza.

Non si legge nell’atto di appello, infatti, una censura che riguardi direttamente le presunte contraddizioni tra le dichiarazioni del l’ A. e quelle del Ca. a proposito dello specifico ruolo avuto dal T., la cui condotta materiale (raccolta delle somme presso la persona offesa e consegna delle stesse a personaggi mafiosi) non è controversa.

L’estensore del gravame infatti si limitò (pag. 4) ad evidenziare certi contrasti tra le dichiarazioni accusatorie del collaboratore S. e quelle di Z. a proposito dell’effettivo ruolo svolto dal T.. Invece, riguardo alle dichiarazioni di A. e di C. si segnalarono solo generiche divergenze riguardanti la conoscenza della identità degli estorsori.

Per questo non si rinviene nella motivazione della sentenza impugnata una specifica disamina di presunte incoerenze tra le affermazioni della vittima del reato e del suo collaboratore, con la conseguenza che la omessa motivazione sul punto è ampiamente giustificata dai limiti del devoluto.

E’ vero semmai che la Corte si è soffermata lungamente sulla esatta ricostruzione del ruolo avuto dal T. in ragione della necessità di confutare la tesi difensiva di costui il quale aveva affermato di avere riscosso le somme soltanto perchè richiesto dall’ A. il quale non voleva che la propria officina fosse frequentata da estorsori: una tesi che, semmai valeva la riqualificazione del fatto come favoreggiamento reale.

Ebbene la Corte non si è sottratta – come invece sostenuto nei motivi di appello che per questo meritano il rigetto – alla disamina delle censure tempestivamente mosse, escludendo che la tesi sostenuta dal T. si presentasse plausibile e sostenendo con motivazione razionale e completa, che la condotta materiale pacificamente tenuta dal ricorrente, si era, anche consapevolmente e volutamente, inserita nella serie causale destinata a produrre, in favore degli esponenti mafiosi dei quali il ricorrente condivideva i propositi, il frutto del reato di estorsione. La Corte, in sostanza, si è attenuta al principio, enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui configura il concorso di persone nel reato di estorsione aggravata, e non invece il reato di favoreggiamento reale o ricettazione, la condotta di colui che, pur non partecipando ad una associazione di tipo mafioso, si adoperi affinchè, da parte degli associati, sia proseguita l’attività estorsiva iniziata da altri, afferenti al clan mafioso, sull’assunto che quei proventi illeciti siano comunque dovuti come introiti appartenenti alla famiglia (Rv. 235343). D’altra parte, il motivo di ricorso, nella parte in cui lamenta la mancata derubricazione del reato, si sostanzia in una riedizione di motivi di appello, ai quali la Corte nissena aveva replicato in maniera adeguata e compiuta, producendo una accurata motivazione in punto di elemento psicologico della condotta tenuta dal T., conforme allo schema del concorso nel reato di estorsione e non di quello di favoreggiamento reale.

Ebbene, i motivi di ricorso ignorano la motivazione della Corte di appello e si risolvono pertanto anche in una inammissibile sollecitazione, rivolta alla Corte di legittimità, di valutare autonomamente i risultati di prova.

Infondato è il ricorso del V..

La motivazione esibita dalla Corte di merito a pag. 14 della sentenza impugnata non è affatto carente, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente. Gli elementi favorevoli addotti dalla difesa (confessione dell’imputato e volontà di emenda) hanno formato oggetto di puntuale e logica disamina da parte della Corte di merito la quale nè ha svalutato la attitudine a sostanziare un giudizio sulla personalità tale da comportare una diminuzione del trattamento sanzionatorio a mezzo delle dette attenuanti. La Corte infatti ha posto in evidenza come la confessione sia intervenuta in fase di appello, dopo la valutazione completa del materiale probatorio da parte del Gup nella sentenza di primo grado ed ha anche segnalato come la volontà d emenda non sia che la espressione di un progetto, allo stato più che controbilanciata dalla effettività di condotte contra legem protratte per un tempo significativo.

Segue al la soccombenza la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese sostenute nel grado dalle parti civili che hanno depositato le relative note, liquidate come in dispositivo, tenendosi conto del criterio, posto dalla tariffa forense, secondo cui qualora in una causa l’avvocato assista e difenda più persone aventi la stessa posizione processuale l’onorario unico può essere aumentato per ogni parte oltre la prima del 20%.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Condanna tutti i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese della parte civile FAI che liquida in complessivi Euro 2400 oltre accessori come per legge. Condanna V. inoltre alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile G.V. e Novambiente srl che liquida in complessivi Euro 1800 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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