Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 25-11-2010) 26-01-2011, n. 2789 Bancarotta; Reato continuato e concorso formale; Falsità materiale in atti pubblici

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

quanto segue:

La CdA di Milano, con sentenza 7.10.2008, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, ha dichiarato: a) NDP nei confronti di V.V. con riferimento ai reati a lui ascritti per essere detti reati estinti per morte dell’imputato, b) NDP nei confronti di M.G. con riferimento ai reati sub B ed E (truffa aggravata e falsità materiale di privato in atto pubblico) perchè estinti per prescrizione, rideterminando la pena per i residui reati in anni 4 e mesi 10 di reclusione.

I reati per i quali la affermazione di responsabilità è stata ribadita sono i seguenti:

C) bancarotta patrimoniale per distrazione, perchè, in concorso con G.A., quale titolare della sdf PETROL IMPORT TRADE, dichiarata fallita dal Tribunale di Monza con sentenza 25.5.1998, distraeva la somma complessiva di L. 10 miliardi, costituenti l’importo IVA incassata e non versata. Con danno di rilevante gravità. D) truffa aggravata, perchè, in concorso col V. (amministratore di diritto), il M. (amministratore di fatto) della LOMBARDA IDROCARBURI srl, con artifizi e raggiri, consistiti nel contraffare attestati di versamento IVA per un complessivo importo di L. 19.488.140.000 (nel periodo 18.10.1994/18.2.1997), induceva in errore l’Erario circa la esistenza di un debito di imposta per importo corrispondente, procurandosi ingiusto profitto con corrispondente danno per l’Erario.

Ricorrono per cassazione i difensori dell’imputato e deducono:

1) erronea applicazione della L. Fall., art. 216 – 219, atteso che la sentenza non chiarisce in maniera soddisfacente per qual motivo la condotta censurata sarebbe riconducibile all’imputato. Il dolo dell’extraneus deve consistere nella volontarietà dell’apporto alla condotta dell’intraneus e nella consapevolezza del conseguente depauperamento. Sul punto non può ritenersi raggiunta la prova.

Inoltre è emerso che il curatore non ha potuto esaminare i documenti del fallimento, ma si è fondato su non meglio identificate fonti informative. Non sono poi emersi elementi che possano far ritenere l’imputato partecipe nelle attività lavorative del G.. E’ inoltre da rilevare che la società fallita aveva comunque dichiarato l’imposta a debito non versata, ammettendo dunque la sua posizione debitoria. Manca pertanto l’elemento del dolo intenzionale, 2) violazione dell’art. 157 c.p., in relazione al reato del capo B. Per le ragioni esposte sub 1), l’imputato avrebbe dovuto esser assolto nel merito, non avendo posto in essere alcun artificio o raggiro;

3) violazione degli artt. 110, 81 e 640 c.p., art. 61 cpv. c.p., n. 7, in relazione al capo D, non essendo emersa prova alcuna che il ricorrente abbia contraffatto gli attestati di versamento IVA. Finchè M. mantenne la carica di amministratore, tutto si svolse regolarmente e non vi sono elementi che lascino intendere che lo stesso abbia continuato a gestire indirettamente l’azienda;

4) ancora violazione dell’art. 157 c.p., con riferimento ai capi D e C. Il primo, commesso il (OMISSIS), è certamente prescritto. Il secondo è prescritto se si ritiene che la prescrizione decorra non dalla data di dichiarazione del fallimento, ma dal compimento degli atti integranti il reato. Secondo il più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, la dichiarazione di fallimento, nel delitto di bancarotta, assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale e dunque, se i presupposti per la dichiarazione di fallimento non sono qualificabili come norme extrapenali che interferiscono sulla fattispecie penale, appare plausibile riconsiderare l’orientamento secondo il quale il decorso della prescrizione del reato si computa dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento e non invece dal compimento degli atti incriminati di bancarotta;

5) violazione dell’art. 240 c.p., e art. 192 c.p.p., atteso che la confisca dì quanto in sequestro è di natura facoltativa e non automatica e dunque avrebbe dovuto essere confortata da adeguato apparato motivazionale.

La prima censura e la seconda censura sono inammissibili in quanto articolate in fatto, la prima, e poggiante su di un indimostrato presupposto in fatto, la seconda.

La Corte di merito, condividendo sul punto le argomentazioni del primo giudice, ha evidenziato come il ruolo di reale dominus del M. emerga, non solo dalle parole del G. e dell’ A., ma da condotte concrete e riscontrate tenute dall’imputato, il quale accompagnava costantemente in banca il G., dandogli indicazioni (fedelmente seguite) sulla compilazione degli assegni.

La seconda censura, per i motivi sopra indicati, deve seguire la stessa sorte della prima, dal momento che lo stesso ricorrente le lega sul piano logico.

La terza censura è manifestamente infondata, atteso che il capo di imputazione sub D non presuppone che la falsificazione sia stata materialmente effettuata dall’imputato, al quale, per le ragioni sopra specificate, è attribuito il ruolo di amministratore di fatto dell’azienda e suo reale proprietario. Nel suo interesse dunque (e pertanto necessariamente non a sua insaputa) la condotta truffaldino fu tenuta e gli illeciti proventi intascati.

Anche la quarta censura è manifestamente infondata.

Quanto al delitto di truffa, si deve applicare la previdente disciplina della prescrizione, di talchè essa matura, per interruzione, in data 18.12.2012.

Quanto al delitto di bancarotta, non risulta che, nella giurisprudenza di legittimità, si sia affermato il nuovo orientamento cui fa cenno il ricorrente, se è vero come è vero che, anche da ultimo (ASN 201020736 – RV 247299) è stato ribadito che, in tema di bancarotta, la prescrizione inizia a decorrere dalla data della declaratoria di fallimento o dello stato d’insolvenza e non dal momento della consumazione delle singole condotte poste in essere in precedenza (conformi, tra le tante, ASN 200446182 – RV 231167).

La quinta censura è inammissibile perchè non dedotta in appello.

Inammissibile dunque è il ricorso nella sua interezza.

Il ricorrente va condannato alle spese del grado e al versamento di somma a favore della Cassa ammende, somma che si stima equo determinare in Euro 1000.
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di mille Euro a favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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