Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 18-11-2010) 26-01-2011, n. 2775

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata veniva confermata la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano in data 18.2.2008 con cui S.I. veniva condannato alla pena di anni quindici di reclusione per il reato di continuato di riduzione in schiavitù, minaccia al fine di far commettere reati e concorso in furto aggravato in particolare perchè – in concorso con F.M.S. riduceva e manteneva in stato di soggezione i minori Fi.Fi.Co. e Fi.Ov.Do. al fine di costringerli a commettere furti, inducendoli a seguirli in Italia con il prospettare loro una lecita attività lavorativa in Italia, sottraendo loro i passaporti appena giunti in Milano, percuotendoli ripetutamente con schiaffi, calci e con una cintura con borchie di ferro, intimando loro di commettere i furti e di consegnargli la refurtiva, minacciando la morte o la mutilazione di un arto se si fossero dati alla fuga, istruendoli nell’attività criminosa e costringendoli a vivere in condizioni ambientai precarie in una struttura occupata in via (OMISSIS) insieme a centinaia di altre persone:

– mediante le condotte di cui sopra costringeva Fi.Fl.

C. e Fi.Ov.Do. a commettere reati fra cui quelli di seguito indicati;

– minacciando di morte St.La.Ni. lo costringeva a commettere reati fra cui quelli di seguito indicati;

– concorreva con Fi.Fl.Co. e Fi.Ov.Do. ed altro non identificato, i quali sottraevano con destrezza un portafogli dalla borsa di una persona non identificata nella metropolitana di Milano il (OMISSIS) e tentavano di commettere un reato analogo in danno di M.E. in Milano il (OMISSIS);

– concorreva con Fi.Fl.Co., Fi.Ov.Do. e St.La.Ni., i quali si impossessavano di un telefono cellulare che sottraevano dalla tasca del cappotto di L. G. e colpivano gli agenti della polizia ferroviaria intervenuti con calci e pugni per conseguire l’impunità senza riuscirvi in Milano l'(OMISSIS);

– in concorso con S.M., al fine di avviare i minori Fi.

F.C. e Fi.Ov.Do. a commettere i reati di cui sopra, li convinceva a seguirli in Italia con inganno facendosi rilasciare dai genitori una procura di affidamento, così procurandone l’ingresso illegale nel territorio dello Stato.

Lamenta il ricorrente:

1. la nullità del decreto in data 11.5.2006, con cui veniva dichiarata la latitanza dell’imputato, e delle notificazioni conseguenti;

2. carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione sull’affermazione di responsabilità degli imputati;

3. carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione sulla ravvisabilità nei fatti del reato di riduzione in schiavitù.
Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso, relativo all’eccepita nullità del decreto dichiarativo della latitanza dell’imputato, è inammissibile e comunque infondato.

Il ricorrente osserva in proposito che la disposizione dell’art. 296 c.p.p., presenta un profilo sostanziale in ordine alla consapevole sottrazione dell’imputato alla misura cautelare oltre al profilo formale sulla declaratoria della condizione di latitanza; che di conseguenza occorre per il primo aspetto che l’imputato abbia notizia delle pendenze giudiziarie alle quali si sottrae; che nel decreto in esame si riferiva testualmente che il S. "non veniva rintracciato in esecuzione dell’ordinanza cautelare del 2.11.2005 come risultava dal verbale di vane ricerche, dette ricerche erano esaurienti e pertanto l’imputato si sottraeva alle ricerche", facendosi discendere automaticamente la volontaria sottrazione dal mancato rintraccio, contrariamente al dettato normativo; e che il verbale di vane ricerche non era acquisito e di conseguenza le ricerche non erano documentate, mentre di contro da una nota della direzione Centrale di Polizia Criminale in data 2.2.2005 risultava una residenza specifica del S. in Romania, Stato ove la teste O.C. riferiva aver fatto ritorno il S. come riferito nella sentenza, e l’imputato successivamente veniva tratto in arresto in Spagna in esecuzione di un mandato di arresto Europeo.

Detta eccezione non risulta tuttavia essere stata sollevata con l’atto di appello; il che rende la stessa inammissibile, in quanto proposta per la prima volta in sede di legittimità quale motivo di gravame, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3.

La motivazione del decreto di latitanza, negli stessi termini riportati dal ricorrente, dava peraltro sinteticamente ma adeguatamente conto dell’aver il giudice desunto, dalla contestualità fra l’emissione del provvedimento restrittivo e l’allontanamento dell’imputato, l’essere quest’ultimo avvenuto nella consapevolezza del S. quanto meno in merito alla pendenza giudiziaria a suo carico, il che integra il presupposto di validità per la declaratoria dello stato di latitanza (Sez. 3^ del 5.6.2007, n. 35865, imp. Sheget. Rv. 237279). Nè questa conclusione appare contraddittoria rispetto agli ulteriori elementi indicati dal ricorrente; l’essersi il S. recato in Romania e successivamente in Spagna, ove veniva tratto in arresto, è al contrario coerente con la consapevole sottrazione alle ricerche dell’Autorità giudiziaria.

2. Il secondo motivo di ricorso, relativo all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è infondato.

Detta responsabilità era accertata con la sentenza impugnata in base alle convergenti dichiarazioni dei giovani romeni, attendibili in quanto coerenti, verosimili e dettagliate, e riscontrate dalla stessa concordanza dei racconti, dalle identificazioni di polizia dei dichiaranti con i nomi loro imposti dagli sfruttatori, dall’"identificazione del S. presso lo stabile occupato di via (OMISSIS), dagli accertamenti della polizia romena sull’essere Fi.

F. giunto in Italia nel novembre del 2004 con il S. e dall’uso da parte di questi dell’utenza cellulare indicata da Fi.

O., la quale risultava aver agganciato le celle nella zona di via (OMISSIS).

Il ricorrente rileva come la Corte d’Appello abbia omesso di procedere ad una preliminare verifica dell’attendibilità intrinseca dei dichiaranti rispetto alla circostanza, riferita dalla mediatrice culturale C., per la quale i giovani le riferivano di essere stati addestrati ai furti in Romania, contrastante con quanto invece dagli stessi riferito all’agente O. sull’essere stato loro proposto di venire in Italia a lavorare, all’essere state le dichiarazioni rese nel momento in cui i minori erano in stato di restrizione, il che le privava di spontaneità, ed alla possibilità di reciproche influenze fra le dichiarazioni; ed aggiunge, quanto agli elementi di riscontro estrinseco indicati nella sentenza, che gli stessi sono indicativi unicamente della commissione di furti da parte dei giovani.

La motivazione della sentenza impugnata è tuttavia logica, coerente e conforme ai principi generali in tema di valutazione delle dichiarazioni accusatorie di più soggetti coindagati. Non è in particolare censurabile la formulazione di un giudizio di attendibilità intrinseca di dette dichiarazioni in base alla loro convergenza sul nucleo essenziale della vicenda narrata (Sez. 1^ del 4.11.2004, n. 46954, imp. Palmisani, Rv. 230592); convergenza rispetto alla quale la complessiva solidità dell’argomentazione del giudice di merito non viene significativamente compromessa dalle marginali difformità sul luogo di concreto avviamento all’attività delittuosa. Congruente è altresì la motivazione nella doverosa valutazione unitaria delle dichiarazioni con gli elementi estrinseci indicati a sostegno della credibilità delle stesse con riguardo all’effettivo uso, da parte dei giovani, dei falsi nominativi descritti, della presenza del S. nella struttura ove i minori vivevano, della disponibilità in capo all’imputato dell’utenza telefonica cellulare menzionata da uno dei dichiaranti e dell’ingresso in Italia del S. insieme ad altro minore. Ed a questo proposito inconferente è il rilievo difensivo su un’asserita limitazione della significatività di detti elementi alla responsabilità dei soli dichiaranti. I dati riportati nella sentenza impugnata ricollegano invero direttamente la persona del S. all’attività dei minori; ed in questa prospettiva non è necessario, come è noto, che i riscontri abbiano autonoma valenza probatoria rispetto alle imputazioni contestate, potendo gli stessi consistere in qualsiasi elemento utile, nella valutazione unitaria di cui si è detto e nella concretezza del caso esaminato, a corroborare l’attendibilità delle dichiarazioni (Sez. 4^ del 10.12.2004, n. 5821, imp. Alfieri, Rv. 231301). E’ pertanto corrispondente a logica che il giudice di merito abbia tratto il proprio convincimento sulla piena credibilità dei dichiaranti da indicazioni che collocano il S. in contatto con i predetti nel periodo in cui gli stessi ponevano in essere i fatti criminosi da loro descritti quali risultato della costrizione dell’imputato e degli altri soggetti coinvolti; anche per questo aspetto la motivazione della sentenza impugnata è dunque immune da vizi rilevabili in questa sede.

3. Infondato è infine il motivo di ricorso relativo alla ravvisabilità del reato di riduzione in schiavitù.

Con la sentenza impugnata si richiamavano le conclusioni della decisione di primo grado per le quali, premesso che la recente modifica dell’art. 600 c.p., ha connotato la nozione di condizione analoga alla schiavitù nei termini dell’assoggettamento continuativo della vittima al fine di sfruttamento con condotte violente, dell’approfittamento di condizioni di inferiorità o necessità e della promessa di vantaggi, non essendo pertanto più necessario, per la configurabilità del reato, che la condotta escluda totalmente la libertà della vittima o la comprima fino a ridurre quest’ultima a cosa, nel caso di specie la mancata segregazione dei giovani non impediva che gli stessi fossero sottoposti alla signoria degli imputati, considerata la condizione di soggezione di minori raggiunti da continue minacce e vessazioni in un paese straniero; e se ne rimarcava la correttezza, aggiungendosi come dovesse essere altresì considerato il peso della privazione dei documenti in danno delle vittime.

Il ricorrente osserva che la sussistenza di una condotta di sfruttamento accompagnata da violenza non è sufficiente ad integrare il reato in esame, per la sussistenza del quale occorre uno stato di soggezione psicologica che si traduca in una integrale negazione della libertà e della dignità; che viceversa nella situazione considerata non vi era limitazione della libertà di movimento e non vi era prova che i minori fossero seguiti e controllati nella loro attività delittuosa; e che peraltro la sentenza appare contraddittoria laddove non ravvisa il reato di riduzione in schiavitù nei confronti del coimputato S.M. e nei fatti commessi in danno dello St..

Quest’ultimo rilievo risulta palesemente irrilevante laddove semplicemente si consideri che S.M. non risulta imputato del delitto di riduzione in schiavitù per le condotte commesse in danno dello St., essendo contestato al predetto unicamente il reato di favoreggiamenti dell’ingresso illegale del minore nel territorio dello Stato.

Con riguardo agli altri argomenti proposti dal ricorrente, questa Corte aveva già avuto modo di affermare, sotto il vigore della precedente formulazione della norma incriminatrice, che la costrizione di minori alla costante e quotidiana commissione di furti con consegna del ricavato degli stessi, attuata mantenendo le vittime in uno stato di soggezione continuativa, da luogo per ciò solo ad una sostanziale privazione della libertà dei soggetti passivi e ad una condizione analoga a quella della schiavitù (Sez. 5^ del 9.2.1990, n. 4852, imp. Seyfula, Rv. 183939). Queste conclusioni non possono che essere ulteriormente confermate nella loro validità alla luce dell’intervenuta precisazione normativa della fattispecie, operata con la L. n. 228 del 2003, art. 1; per cui, qualora la condotta sia commessa in danno di un minore sottratto all’autorità genitoriale, il reato di riduzione in schiavitù è configurabile nei confronti di chi disponga del minore come cosa propria o lo costringa a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (Sez. 5^ del 15.4.2010, n. 18072, imp. S. e altri, Rv. 247149).

Tali indicazioni trovano la loro origine nella particolare vulnerabilità del minore avulso dal proprio ambiente familiare; che in quanto tale richiama nella specie l’analogo concetto di "posizione di vulnerabilità" presente nella decisione-quadro dell’Unione Europea in data 19,7.2002 sulla lotta alla tratta degli essere umani, che è alla base della menzionata modifica dell’art. 600 c.p.. E’ peraltro evidente, in questa prospettiva, come siffatta condizione evochi le nozioni di inferiorità e di situazione di necessità della vittima che il comma 2 della norma incriminatrice, nella vigente formulazione, pone alla base del concetto di soggezione.

Muovendosi nella cornice di questi principi, la motivazione della sentenza impugnata desume coerentemente l’esistenza, nella specie, di una soggezione continuativa delle vittime dal loro essere minorenni, allontanati dall’ambito familiare, collocati in una struttura abitativa precaria e fatiscente in un Paese straniero, privati dei documenti di identità e costretti con violenza alla commissione di reati; dove alla naturale situazione di inferiorità e di necessità di sostegno materiale e morale, propria per quanto detto del minore distaccato dalla famiglia, si aggiungono ulteriori elementi circostanziali che rendono detta situazione ancora più opprimente.

In questo scenario appare scevra da vizi logici l’attribuzione alla costante costrizione alla realizzazione di furti, e quindi ad un’attività pericolosa e degradante, dei caratteri dello sfruttamento e della disposizione dei minori quale cosa propria; il che, per quanto detto, integra il delitto contestato.

Per la ravvisabilità di quest’ultimo, in conformità con i principi segnalati, non è peraltro necessaria quell’integrale negazione della libertà personale a cui fa riferimento il ricorrente. Perchè si realizzi una condizione analoga alla schiavitù è invero sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona (sez. 2^ del 28.1.2004, n. 37489, imp. Repetylo, Rv. 229699; sez. 3^ del 19.2.2004, n. 21019, imp. Xhakja, Rv. 229037), idonea a configurare lo stato di soggezione rilevante per la sussistenza del reato. Ed in tal senso la motivazione in scrutinio individua ragionevolmente tale situazione nelle già descritte condizioni di deprivazione dei minorenni interessati, idonee a determinare in questi ultimi una totale mancanza di punti di riferimento e una sostanziale dipendenza nelle esigenze essenziali di vita dall’imputato ricorrente e dagli altri soggetti che con lo stesso col la bora va no, a prescindere dall’intensità della vigilanza dagli stessi esercitata sui giovani.

Il ricorso deve in conclusione essere rigettato, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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