Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 13-12-2010) 27-01-2011, n. 3048 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

P.G. ricorre avverso la sentenza 18.3.09 della Corte di appello di Lecce che ha confermato quella, in data 8.10.04, del locale tribunale con la quale è stato condannato alla pena di anni quattro di reclusione, oltre le pene accessorie, nonchè al risarcimento dei danni in favore della curatela fallimentare, costituita parte civile, per avere concorso con Pa.Ma.

(non impugnante) nel reato di bancarotta fraudolenta, con riferimento al fallimento della Comisud s.r.l., dichiarato con sentenza del Tribunale di Lecce 2.12.96, di cui l’odierno ricorrente era stato amministratore unico dopo essere stato amministratore di fatto (dal 2.12.95 al 23.9.96) della Montaggi Industriali s.r.l..

Deduce il ricorrente, nel chiedere l’annullamento dell’impugnata sentenza, con il primo motivo violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in relazione alla L. Fall., artt. 216 e 223 e artt. 521 e 522 c.p.p., per avere omesso i giudici di appello di motivare circa la specifica censura formulata in ordine al mai avvenuto ingresso, nel patrimonio della fallita, delle risorse finanziarie, pari a L. 130 milioni, di cui si assumeva la distrazione sotto forma di restituzione ai soci di parte dei fittizi finanziamenti che gli stessi risultavano – secondo l’imputazione – falsamente avere effettuato negli anni 92-93.

Trattavasi peraltro di somma ricavata esclusivamente da alcune indicazioni contenute nei prospetti contabili (c.d. mastrini) relativi all’anno 1996 del conto soci, sottoconto soci-finanziamenti, che non integrava di per sè la prova dell’esistenza dei beni, di cui si assumeva la distrazione, nel patrimonio della fallita.

La Corte di appello invece – lamenta il ricorrente – aveva argomentato, in violazione del disposto di (cui all’art. 521 c.p.p., che comunque era emersa la prova della distrazione di altre somme del patrimonio della fallita, segnatamente della somma di L. 158.784.000 provento – secondo i giudici – della vendita dell’opificio industriale.

Anche l’altra condotta distrattiva – consistita secondo l’accusa nell’aver corrisposto, nel corso del 1996, a collaboratori occasionali l’importo di L. 318.281.000, senza che vi fosse alcun fondamento giustificativo – era stata contestata solo sulla scorta delle indicazioni contabili contenute nei c.d. mastrini, nel conto oneri del personale, sottoconto collaboratori occasionali, e proprio l’avere i giudici ritenuto fittizie tali annotazioni avrebbe dovuto far escludere la loro utilizzabilità al fine di dimostrare l’avvenuta effettiva fuoriuscita delle stesse somme dal patrimonio della fallita, senza la possibilità, anche in questo caso, di colmare tale lacuna con il riferimento al provento della vendita dell’opificio di cui l’imputato non avrebbe giustificato la destinazione a fini d’impresa, trattandosi di altro fatto rispetto alla specifica contestazione, con riferimento al quale peraltro – si evidenzia nel secondo motivo – i giudici di appello avevano travisato il risultato della prova costituita dall’esame del M.llo L.B., le cui dichiarazioni erano state nel senso che il pagamento del corrispettivo della vendita dello stabilimento industriale alla soc. RIPA era avvenuto in parte mediante accollo del residuo mutuo a suo tempo contratto dalla società venditrice per l’acquisto dell’immobile e in parte (tra cui la somma di L. 158.784.000 cui faceva riferimento la Corte di appello) mediante una compensazione con i crediti che la RIPA aveva nei confronti della fallita, senza far quindi transitare dette somme attraverso conto cassa o banca.

Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per non avere i giudici di appello – nell’attribuire a P.G. la qualità di amministratore di fatto dal 2.12.95 al 24.9.96, allorchè aveva assunto la carica di amministratore unico della Comisud s.r.l. – motivato in ordine all’effettivo esercizio da parte del P. della delega ad operare conferitagli dall’amministratore formale Pa., le cui interessate dichiarazioni accusatorie non potevano avere alcun rilievo in assenza di ulteriori elementi.

Con il quarto motivo si censura, infine, la mancata riconsiderazione, sotto il profilo sanzionatorio, della sentenza di primo grado, avuto riguardo alla modesta entità dei fatti distrattivi. Osserva la Corte che il ricorso è infondato.

Con motivazione congrua, esaustiva ed immune da vizi logico-giuridici i giudici territoriali hanno dato conto delle ipotesi distrattive addebitate all’odierno ricorrente, della qualità assunta dal medesimo di amministratore di fatto della Montaggi Industriali s.r.l.

(società in seguito divenuta Comisud s.r.l.) dal 2.12.95 al 23.9.96 e della correttezza del trattamento sanzionatorio operato dal primo giudice.

Quanto alla qualifica di amministratore di fatto, la Corte di appello ha evidenziato che P.G. era il factotum della società, tanto che allorchè il 27.11.95 era stato nominato amministratore unico della Montaggi Industriali s.r.l. Pa.Ma., era stato proprio quest’ultimo, solo cinque giorni dopo, a conferire al P. la delega a tenere in contatti con la clientela, i rapporti commerciali e di marketing, a concordare lavori e commesse aziendali e a tenere i rapporti con i dipendenti, ad esclusione soltanto dei rapporti bancari, ma sol perchè – hanno perspicuamente sottolineato i giudici di merito – la condizione soggettiva di interdizione del P., già dichiarato fallito e condannato per una serie infinita di assegni a vuoto, gli impediva l’accesso agli strumenti bancari, ragion per cui il 13.12.95 l’assemblea l’aveva autorizzato a nominare procuratore speciale per i rapporti con le banche il figlio S., amministratore della RIPA s.r.l., che il 4.12.95 aveva acquistato da due soci uscenti il 66% delle quote societarie della Montaggi Industriali s.r.l..

In ordine all’avvenuto depauperamento dell’attivo presente nel patrimonio della fallita, i giudici territoriali hanno dato conto del carattere distrattivo degli atti di disposizione patrimoniale, tra i quali – e con precipuo riferimento al contenuto del capo d’imputazione – la restituzione ai soci dell’importo corrispondente ai fittizi finanziamenti che gli stessi risultavano aver erogato nel periodo 92-93 e la corresponsione a collaboratori occasionali dell’importo complessivo di L. 318.281.000, evidenziando l’illogicità imprenditoriale di un tale comportamento riconducibile alla fallita, non conforme a finalità d’impresa in quanto il conto soci c/finanziamenti l’1.1.96 si presentava con un saldo passivo di L. 399.328.000 e ciò nonostante la società aveva continuato ad effettuare pagamenti in contanti in favore di soci e di collaboratori occasionali, condotta spiegabile solo in chiave fraudolenta – ha osservato correttamente la Corte di merito – sia per essere rimasti ignoti i collaboratori occasionali beneficiati da detti pagamenti, sia in quanto in tale situazione la società non aveva di certo interesse ad una così ingente perdita di liquidità comportante uno squilibrio tra attività e passività in grado di porre concretamente in pericolo le ragioni dei creditori. Quanto poi alla pretesa violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, di cui all’art. 521 c.p.p., è appena il caso di osservare come risulti dalla stessa sentenza impugnata che la questione relativa alla alienazione alla RIPA s.r.l. dell’opificio industriale nel gennaio 1996 e alla distrazione del relativo profitto è stata prospettata, per dedurne l’infondatezza, dalla stessa difesa dell’imputato in sede di appello e pertanto su tale aspetto si è soffermata la Corte territoriale la quale, per dimostrare l’infondatezza di tale motivo di gravame, ha correttamente fatto riferimento alle risultanze probatorie acquisite evidenziando come la vendita dell’opificio industriale della L Montaggi s.r.l. alla RI.PA. (soda di maggioranza della fallita) sia avvenuto a prezzo vile, cioè per L. 450 milioni rispetto al valore commerciale stimato di L. 750.000.000 circa. In ordine infine al trattamento sanzionatorio, del tutto legittimamente e facendo applicazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p. la pena irrogata è stata ritenuta equa dai giudici di appello, in considerazione anche della non concedibilità delle invocate attenuanti generiche, a motivo dei numerosi precedenti penali del P., connessi ad attività commerciali insolventi e alla sua negativa personalità, non senza rimarcare come l’imputato non abbia mai allegato circostanze di segno positivo inerenti la condotta susseguente al reato ovvero alle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale.

Al rigetto del ricorso segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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