Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 21-01-2011) 28-01-2011, n. 3159 Contestazione dell’accusa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. A seguito di opposizione a decreto penale di condanna, S. M. era tratto a giudizio per rispondere del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate sulla retribuzione corrisposta ai dipendenti.

All’udienza dibattimentale del 24 giugno 2010 il difensore dell’imputato eccepiva la nullità del decreto di citazione a giudizio perchè in esso non risultavano specificati: la veste di datore di lavoro o di rappresentante legale (del datore di lavoro) dello S.; i periodi di riferimento dei versamenti omessi;

gli importi delle ritenute non versate.

Il Pubblico ministero chiedeva d’integrare il capo d’imputazione precisando che lo S. era legale rappresentante della "ditta Futura" e che i contributi previdenziali non versati ammontavano a "22 mila 553 mila Euro per il periodo che va da gennaio 2005 ad aprile 2007".

Il Tribunale, rilevata "l’indeterminatezza del capo d’imputazione per mancanza, all’origine, degli elementi indicanti il fatto addebitato", nel dichiarava la nullità e disponeva la trasmissione degli atti al G.i.p..

2. Avverso detto provvedimento ricorre il Pubblico ministero, denunziandone l’abnormità.

Premette che, conformemente a quanto ritenuto da questa Corte, sez. 3, n. 23491 del 7.5.2009, anche nel giudizio conseguente a decreto penale deve ritenersi applicabile l’art. 516 c.p.p. ed è pertanto consentito al Pubblico ministero procedere a modifica dell’imputazione.

Ciò posto, richiamata la giurisprudenza di legittimità in tema di abnormità del provvedimento che dichiara la nullità del decreto di citazione a giudizio per indeterminatezza dell’imputazione e dispone la restituzione degli atti al Pubblico ministero nonostante l’avvenuta modifica dell’imputazione a norma dell’art. 516 c.p.p. (si citano Cass. sez. 6, n. 44980 del 22.9.2009; sez. 1 n. 24050 del 14.5.2009, sez. 5 n. 32797 del 20.6.2006), afferma che nel caso in esame ricorreva la medesima situazione considerata da sez. 1 n. 11854 del 2009, giacchè era certamente insussistente una nullità di ordine generale del capo d’imputazione con riferimento agli elementi omessi nella descrizione del fatto (qualità in cui agiva l’imputato, periodi di riferimento e importi delle ritenute non versate), ed era dunque da considerare abnorme il provvedimento impugnato che aveva disposto la restituzione degli atti al Pubblico ministero senza tenere conto della legittima integrazione del capo d’imputazione alterando l’ordinata sequenza procedimentale e violando il canone di ragionevole durata.
Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che il ricorso appare inammissibile.

2. All’imputato era stato addebitato il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali, ma, secondo quanto eccepito dalla difesa e riconosciuto dallo stesso ricorrente, il capo d’imputazione non indicava, oltre che la qualità o veste che lo rendeva responsabile del fatto omissivo riferito a rapporti di lavoro instaurati con una persona giuridica, nè gli importi delle ritenute non versate nè i periodi contributivi cui le stesse andavano riferite.

A fronte di siffatte carenze, che coprivano l’intero arco degli elementi fattuali idonei a rendere individuabile la fattispecie concreta, l’osservazione del Tribunale che il capo d’imputazione originario era affetto da "mancanza… degli elementi indicanti il fatto addebitato" non può certamente ritenersi censurabile.

Il Pubblico ministero ricorrente neppure sostiene, d’altra parte, che all’imputato la fattispecie concreta era stata "in fatto" comunque già contestata e che in relazione ad essa lo stesso imputato aveva o avrebbe potuto compiutamente difendersi. Mentre la sequela procedimentale prescelta dall’accusa con la richiesta, accolta, di decreto penale di condanna, non consente davvero di presumere, atteso il connotato di rito a contraddittorio eventuale e differito del procedimento monitorio e l’esclusione per esso dell’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p., che detta contestazione "in fatto" fosse stata realizzata con modalità alternative.

A torto, di conseguenza, il ricorrente afferma che la assoluta carenza della contestazione in fatto era colmabile grazie alla contestazione integrativa ai sensi dell’art. 516 c.p.p. da lui effettuata nel corso dell’udienza dibattimentale.

La norma evocata, intitolata "modifica della imputazione", si riferisce alle ipotesi in cui in dibattimento il fatto risulta "diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio" e presuppone che in questo un fatto sia descritto per lo meno a grandi linee, consentendo all’imputato di comprendere in relazioni a quali episodi o vicende deve articolare la sua difesa.

Ma se l’imputazione si limita nella sostanza a replicare la fattispecie astratta e non consente d’individuare quella concreta, mai altrimenti e per tempo neppure sostanzialmente contestata, non v’è materia per una modifica o integrazione "sanante" ai sensi dell’art. 516 c.p.p..

Sicchè nell’ipotesi appena descritta, di radicale insufficienza della descrizione del fatto, produttiva di obiettiva incertezza e tempestivamente eccepita dalla parte interessata, non può certamente ritenersi non consentita la declaratoria di nullità della contestazione, trattandosi di nullità espressamente prevista dal codice di rito all’art. 429, comma 2 in relazione all’ipotesi di cui al comma 1, lett. c), richiamata dall’art. 464, comma 1, per il tramite dell’art. 456, comma 1. 3. Può solo aggiungersi che non dice cosa diversa la sentenza di questa Corte n. 11854 del 26.2.2009, citata dal ricorrente a sostegno della sua tesi e richiamata dal Procuratore generale. La stessa massima evidenzia come a ragione della ritenuta abnormità stava la considerazione che l’inesattezza rettificata con la modificazione dell’imputazione non aveva compromesso la possibilità di effettiva conoscenza del fatto materiale oggetto dell’addebito.

La motivazione chiarisce quindi la centralità del rilievo che non si verteva nella "ipotesi (non prospettata dal giudice a quo) che la erronea indicazione della data del commesso reato, contenuta nel decreto di citazione a giudizio avesse compromesso la possibilità della effettiva contezza del fatto materiale oggetto dell’addebito (e, pertanto, comportato alcuna nullità di carattere generale)".

D’altronde, a tentare di risolvere un risalente contrasto in tema di perimetrazione della nozione di abnormità, sono più di recente intervenute ancora una volta le Sezioni Unite, e con la sentenza Toni n. 29597 del 26.3.2009, dep. 22.9.2009 (successiva quindi alla pronunzia richiamata) hanno chiarito che non può comunque ritenersi abnorme il provvedimento con cui il giudice del dibattimento dichiara, seppure su presupposti erronei, una nullità del decreto di citazione a giudizio prevista dall’ordinamento, non potendo tale provvedimento ritenersi avulso dal sistema e costituendo anzi espressione dei poteri riconosciuti, sempre che l’atto non risulti preso in assenza di potere in concreto, e cioè completamente al di fuori ("al di là di ogni ragionevole limite") dei casi consentiti:

così imponendo all’autorità giudiziaria cui gli atti vengono restituiti di procedere ad atti impossibili o ad adempimenti che concretizzerebbero atti nulli rilevabili nel corso futuro, con effetti tali da pregiudicare in concreto lo sviluppo del processo.

Ipotesi, quest’ultima, affatto particolare e che sicuramente non ricorre nel caso in esame, nel quale al Pubblico ministero è richiesto semplicemente di provvedere, nei modi e tempi di rito, a formulare una esatta descrizione del fatto contestato all’imputato.

4. In conclusione, la declaratoria di nullità del "capo d’imputazione" non può essere qualificata abnorme (e appare anzi, stando a quanto prospettato, corretta).

La assenza di aspetti di abnormità rende inammissibile il ricorso perchè rivolto ad ordinanza dibattimentale non ricorribile.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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