Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-03-2011, n. 5098 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Roma, rigettando il gravame, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accertato la natura subordinata dell’attività lavorativa svolta da B.D. per la Bioservice S.r.l., dal 6 giugno 1997 al 31 dicembre 1999, sulla base di un contratto che impegnava la prima allo svolgimento in forma autonoma di attività di laboratorio, condannando la società a pagare alla B. una determinata somma a titolo di differenze retributive.

La Corte d’Appello, premesso quale criterio di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro con conseguente limitazione della sua autonomia ed il suo inserimento nell’organizzazione aziendale, osserva che la qualificazione data dalle parti al rapporto al momento della conclusione del contratto non è vincolante perchè nei rapporti di durata il comportamento delle parti può esprimere una diversa effettiva volontà contrattuale o comunque manifestare un cambiamento nell’atto originariamente intervenuto.

Ciò premesso, con riferimento alle specifiche censure mosse dalla Bioservice alla sentenza del Tribunale, la Corte giudica anzitutto irrilevante la testimonianza della teste O., che aveva riferito sulla natura autonoma del rapporto, trattandosi dell’espressione di un giudizio e non della descrizione di un fatto.

Quanto alle dichiarazioni del teste M., secondo la Bioservice inattendibile e comunque non esaminabile per il divieto dell’art. 246 c.p.c., la Corte dubita della pertinenza della disposizione richiamata dall’appellante, applicabile solo nel caso di interesse che giustifichi la partecipazione del teste al giudizio, ed osserva che in ogni caso la deposizione avrebbe potuto essere assunta in base ai poteri officiosi del giudice ex art. 421 c.p.c.. Ad ogni modo, il teste aveva riferito circostanze rilevanti e non smentite dalla società, quali l’assunzione della B. per carenza di personale, lo svolgimento della prestazione con orario di lavoro pieno, l’effettuazione della pausa pranzo all’interno dei locali aziendali, l’esecuzione di attività, quali lavori di segreteria, di dattiloscrittura, di fissazione, per telefono, degli appuntamenti, di spostamenti, frequenti, di casse di materiali, evidentemente estranee all’oggetto del contratto di lavoro autonomo. Il teste aveva poi dichiarato che la B. riceveva una retribuzione mensile fissa nonchè direttive da lui stesso o dall’amministratore unico della società.

La sostanziale conformità di queste dichiarazioni con quelle rese da altri testi ed il ruolo svolto dal dichiarante nella società rendeva altamente attendibile la testimonianza contestata.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro, del quale l’appellante aveva contestato l’applicabilità poteva essere utilizzato quale parametro ex art. 36 Cost..

La contestazione dei conteggi da parte dell’appellante doveva considerarsi generica, visto che essa in primo grado aveva indicato il compenso stabilito fra le parti, negando di dovere nulla di più di quanto concordato.

La Bioservice Srl chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso per due motivi. La B. resiste con controricorso, illustrato anche da memoria.
Motivi della decisione

Con i due motivi di ricorso, unitariamente trattati, è denunziata falsa ed erronea applicazione dell’art. 2094 c.c. e dell’art. 246 c.p.c. nonchè violazione dell’art. 116 c.p.c..

La sentenza impugnata sarebbe incorsa in errori nell’accertamento del fatto ed in erronea applicazione delle norme richiamate, con riferimento in particolare all’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova, avendo trascurato di considerare, quanto all’attendibilità dei teste M., la circostanza che egli avesse promosso un giudizio contro la Bioservice, peraltro sospeso in attesa della decisione sulla imputazione dello stesso M. per sottrazione di prodotti da un laboratorio della società, ed avesse costituito, insieme con la B., una società concorrente della Bioservice, sì da provocare da parte di quest’ultima un’azione di risarcimento per concorrenza sleale.

Si addebita ancora alla sentenza la mancata considerazione della testimonianza O. e delle dichiarazioni del legale rappresentante della Bioservice.

Si sostiene poi che la sentenza non avrebbe valutato l’insussistenza del vincolo di subordinazione, valorizzando in proposito indici secondari, e non avrebbe espresso l’iter logico giuridico della decisione.

Si afferma, infine, che la sentenza non avrebbe tenuto conto della contestazione dei conteggi da parte della Bioservice.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla controricorrente il ricorso si conclude con la formulazione dei quesiti benchè la loro collocazione successiva alla richiesta di cassazione della sentenza impugnata possa indurre, ad una prima lettura, a ritenerli non formulati.

I quesiti sono del seguente testuale tenore: "Voglia codesta onorevole Corte alla luce delle risultanze processuali emerse, valutare il quesito che di seguito viene formulato e si pronunci indicandone il principio corrispondente:

Nel giudizio impugnato è in contestazione la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro intercorso fra le parti che non risulta acclarato nell’iter processuale; vi è contestazione in ordine alla valutazione delle prove: emerge l’incoerenza tra la fattispecie concreta e previsione normativa, in quanto determinati fatti sono stati ricondotti nell’ambito applicativo di una norma di diritto che non gli è propria.

La censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 si riconduce alla fallace interpretazione delle norme ed alla erronea qualificazione giuridica dei fatti; la sentenza deve essere cassata sotto il profilo della falsa applicazione di legge.

La censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 si riconduce sia ad una violazione di regole di diritto – da cui deriva l’illegittimità della decisione – sia alla violazione di una regola logica, parimenti la sentenza deve essere cassata sotto il profilo della motivazione".

Il ricorso e inammissibile.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità del suo svolgimento e l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro con assoggettamento alle direttive da questo impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa, mentre altri elementi – come l’osservanza di un orario, l’assenza di rischio economico, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione – possono avere, invece, valore indicativo ma mai determinante (v., per tutte, Cass. 7171/2003) fermo restando che essi, pur mantenendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, complessivamente considerati possono costituire indici rivelatori attraverso i quali diviene evidente nel caso concreto l’essenza del rapporto, e cioè la subordinazione, mediante la valutazione non atomistica ma complessiva delle risultanze processuali (v., fra le altre, Cass. 4171/2006; 5645/2009).

E’, del pari, costante orientamento di questa Corte che ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (v. per tutte, fra le molte Cass. 23455/2009; 17455/2009; 9256/2009).

Viene inoltre generalmente riconosciuto che ai fini di detta qualificazione, le concrete modalità di svolgimento del rapporto prevalgono sulla diversa volontà manifestata nella scrittura privata eventualmente sottoscritta dalle parti, ben potendo le qualificazioni riportate nell’atto scritto risultare non esatte, per mero errore delle parti o per volontà delle stesse, che intendano usufruire di una normativa specifica o eluderla (v. Cass. 17455/2009 cit.;

13858/2009; 5645/2009 cit.; 20599/ 2004: 9900/2003: 1420/2002). il giudice del merito ha nella specie tenuto in considerazione gli indici sussidiari della subordinazione valutandoli nel loro complesso ma ha anche ritenuto che, sempre in base alle dichiarazioni dei testi, tutte, tranne la teste O., sostanzialmente concordi, emergesse la sottoposizione della B. al potere datoriale.

Quanto alla valutazione delle testimonianze anche sotto il profilo della attendibilità dei testi, vale ricordare che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata. (v. per tutte, Cass. 17097/2010).

Nel caso in esame, come risulta dalla precedente sintesi delle ragioni della decisione ora impugnata, il giudice di merito, ha dato ampia giustificazione delle proprie scelte sicchè le censure svolte con i due motivi devono considerarsi inammissibili, in quanto tendenti, in definitiva, ad ottenere una rivalutazione delle risultanze processuali, impossibile in questa sede.

Circa i quesiti che concludono il ricorso, va ricordato anzitutto che il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366- bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico- giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una "regula iuris" suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366-bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie (v., per tutte. Cass. Sez. Un., 26020/2008).

Inoltre, a norma dell’art. 366 "bis" cod. proc. civ., è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto art. (v., per tutte. Cass. Sez. Un., 6420/2008).

Nel ricorso in esame i quesiti conclusivi del motivo hanno un contenuto del tutto generico ed astratto e si risolvono complessivamente nell’affermazione che la sentenza ha falsamente applicato la legge ed ha qualificato erroneamente i fatti di causa.

Quindi il quesito è totalmente difforme dallo schema apprestato dall’art. 366 bis c.p.c., che – è opportuno sottolinearlo – è stato abrogato dalla L. n. 69 del 2009, art. 47 (riforma rito civile) ma senza effetto retroattivo, motivo per cui è rimasto in vigore per i ricorsi per cassazione presentati avverso sentenze pubblicate prima del 4 luglio 2009. data di entrata in vigore della riforma (Cass. 428/2010, che in applicazione del suesposto principio, ha respinto il ricorso di un lavoratore che aveva impugnato il suo licenziamento perchè nella formulazione dei motivi, in sede di legittimità, difettava una sintesi idonea a circoscrivere i fatti controversi ed i vizi logici della motivazione come richiesto dall’art. 366 bis c.p.c).

Vi sono, in conclusione, più ragioni di inammissibilità del ricorso. La parte ricorrente deve esser conseguentemente condannata al pagamento delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso; condanna la parte ricorrente alle spese in Euro 15,00 per esborsi, oltre ad Euro 2500 per onorari, nonchè IVA, CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *