Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 01-12-2010) 31-01-2011, n. 3377 Falsità ideologica in atti pubblici ideologica in atti pubblici commessa da privato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 21 giugno 2010 il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, richiesto dell’emissione di decreto penale a carico di R. C. per falsità in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, ha invece statuito il suo proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. con la formula "perchè il fatto non sussiste".

La dichiarazione accedeva ad una domanda di arruolamento nell’esercito italiano e in essa era falsamente attestato che il richiedente aveva conseguito il diploma di licenza media riportando il giudizio complessivo di "buono", anzichè di "sufficiente".

Secondo il giudicante l’art. 483 c.p. costituisce una norma penale in bianco il cui precetto va specificato e riempito con altre fonti normative, facenti obbligo al privato di dichiarare il vero per il conseguimento di specifici effetti giuridici; nel caso specifico – ha osservato, ancora, il G.I.P. – la norma di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 46 ricollega bensì, alla lettera m), l’effetto di autocertificazione alla dichiarazione del privato riguardante il titolo di studio e gli esami sostenuti, ma non ricollega alcun effetto all’attestazione riguardante il giudizio riportato: sicchè, non essendo consentita un’estensione in malam partem della norma incriminatrice, l’avere il R. falsamente dichiarato di aver ottenuto il giudizio di "buono", anzichè quello di "sufficiente", non può considerarsi penalmente rilevante.

Ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Napoli, affidandolo a un solo motivo. Con esso deduce l’erroneità della statuizione assunta, osservando che la falsa dichiarazione circa il giudizio riportato deve considerarsi un quid unicum con quella riguardante il titolo di studio conseguito, essendo entrambe espressamente finalizzate non soltanto a consentire l’accoglimento della domanda di arruolamento, ma anche a determinare un criterio preferenziale nel reclutamento degli aspiranti.

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

La motivazione della sentenza impugnata muove da un’esatta premessa, là dove il giudicante osserva che la norma penale contenuta nell’art. 483 c.p. richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma – eventualmente di carattere extrapenale – che conferisca attitudine probatoria all’atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo all’obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità; in tal senso si è costantemente espressa la giurisprudenza di questa Corte Suprema, anche a Sezioni Unite (v. Cass. Sez. Un. 17 febbraio 1999 n. 6; Cass. Sez. Un. 15 dicembre 1999 n. 28; nonchè le più recenti Cass. Sez. 5, 13 febbraio 2006 n. 19361; Cass. sez. 5, 4 dicembre 2007 n. 5365).

Del pari condivisibile è l’individuazione del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 46 quale norma integratrice del precetto penale nella fattispecie qui rassegnata: la citata disposizione, invero, attraverso l’indicazione di cui alla lettera m) attribuisce efficacia probatoria, ai fini amministrativi, alla dichiarazione del privato riguardante il titolo di studio e gli esami sostenuti.

Non ha, di contro, fondamento giuridico l’interpretazione ingiustificatamente restrittiva data dal G.I.P. al testo normativo in esame, il cui tenore letterale è il seguente: "Sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all’istanza, sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti:

(omissis)… m) titolo di studio, esami sostenuti".

Nell’ottica della sentenza impugnata, l’attestazione resa dal privato nella dichiarazione sostitutiva varrebbe a provare soltanto il superamento dell’esame ivi enunciato, mentre sarebbe giuridicamente irrilevante l’indicazione – veridica o mendace – del giudizio riportato, in quanto non richiesta dalla norma e, perciò, priva di valenza probatoria; tanto dovrebbe dedursi dalla lettera della disposizione, da ritenersi insuperabile se non si voglia accedere ad un’interpretazione estensiva in malam partem, ritenuta illegittima dal giudicante.

Proprio in quest’ultima valutazione si annida il vizio che inficia, per violazione di legge, il deliberato. L’interpretazione c.d. estensiva della norma penale, lungi dall’essere vietata, è invece lecita e, anzi, doverosa quando sia dato stabilire – attraverso un corretto uso della logica e della tecnica giuridica – che il precetto legislativo abbia un contenuto più ampio di quello che appare dalle espressioni letterali adottate dal legislatore; in tal caso non si da luogo ad alcuna violazione dell’art. 14 disp. Gen. (che vieta, invece, l’applicazione analogica di una norma al di fuori dell’area di operatività che le è propria), in quanto non ne risulta ampliato il contenuto effettivo della disposizione, ma si impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto di manchevoli espressioni letterali. Il suesposto principio, che nella giurisprudenza di legittimità è stato enunciato da Cass. 29 aprile 1974 n. 1041/75, è di origine assai risalente e risponde ad insopprimibili esigenze di logica giuridica, ignorando le quali si perverrebbe all’assurdo risultato di ritenere – ad esempio – penalmente lecita l’uccisione volontaria della donna, sol perchè l’art. 575 c.p. punisce colui che "cagiona la morte di un uomo".

Nel caso specifico di cui ci si occupa, il ricorso all’interpretazione estensiva è reso necessario dalla formula eccessivamente contratta utilizzata dal legislatore nell’indicare l’oggetto della dichiarazione sostitutiva: qualora, infatti, si ritenesse bastante la mera indicazione degli esami "sostenuti", come dovrebbe trarsi dal tenore letterale della norma se piattamente applicato, il dichiarante sarebbe legittimato ad elencare, senza alcuna specificazione (o perfino con indicazione di esito favorevole, secondo la logica della sentenza impugnata), anche gli eventuali esami sostenuti, bensì, ma con esito negativo. Tale considerazione basta ad evidenziare la necessità di una lettura della disposizione che sia consona alla finalità di essa; sicchè, avuto riguardo alla ratio legis, appare chiaro come nell’ambito di una procedura amministrativa nella quale non solo il titolo di studio, ma anche l’esito degli esami sostenuti assume rilievo nella valutazione comparativa dei richiedenti, debba riconoscersi all’autocertificazione valenza probatoria anche riguardo al giudizio riportato: con ogni conseguenza in ordine all’obbligo di attestare il vero e all’applicabilità della sanzione penale in caso di sua inottemperanza.

La sentenza qui impugnata, che non ha dato corretta applicazione ai suesposti principi, va conseguentemente annullata con rinvio, per nuovo esame, allo stesso Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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