Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 27-10-2010) 31-01-2011, n. 3356 Reati commessi a mezzo stampa diffamazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza 8.7.09, la corte di appello di Roma, in riforma della sentenza 20.12.05 del tribunale della stessa sede, ha assolto F.G. per esercizio del diritto di critica, dal reato di diffamazione continuata, attribuitogli in qualità di direttore responsabile del quotidiano IL FOGLIO e in qualità di coautore dell’articolo "L’anima del Giacobino – il G. mite che esalta il p.m. dalle manette magiche", pubblicato il 5.4.1997, e dell’articolo "Insulti del portavoce del dottor Maleficus, quello delle manette magiche", pubblicato l’8.4 97, ritenuti lesivi della reputazione del magistrato M.M., procuratore aggiunto presso la procura del tribunale di Torino.

In tali articoli – contenenti critiche al libro redatto nella forma di intervista, condotta da un noto giornalista- si è affermato, tra l’altro che il magistrato aveva definito "la carcerazione preventiva…un momento magico" e che "c’è un magistrato tuttora in servizio …. che fa apologia del carcere, che si fa prendere dall’eccitazione delle manette e dalla libidine delle sbarre (altrui), che in un libro scrive sentenze sconcertanti" che bisogna capire "in che razza di mani è messa la nostra libertà" e che quello di M., definito "dottor Maleficus" è un libello forcaiolo…scritto dal magistrato con la vocazione del carceriere" ed altre frasi diffuse nei predetti articoli, genericamente richiamate nel capo d’imputazione.

Il tribunale di Roma ha considerato che le affermazioni di cui si duole la persona offesa assumono indubbio carattere diffamatorio, sia per il complessivo tenore della terminologia usata e dei giudizi formulati, sia per il riferimento alla figura professionale del M., presentato come magistrato esorbitante, per piacere personale vicino al sadismo e all’assoluta indifferenza per l’altrui persona, dai canoni fondamentali di un corretto esercizio della sua funzione.

La sentenza di primo grado rileva anche come la frase del libro/intervista che ha determinato le considerazioni critiche sia stata riportata in maniera assolutamente incompleta, così da stravolgerne il significato.

La corte di appello ha ritenuto invece che:

a) il tema trattato in chiave di politica giudiziaria delle garanzie e del garantismo è molto sentito e dibattuto tra studiosi, giornalisti e uomini politici;

b) i riferimenti al pensiero di M., come citati nel capo di imputazione, sono a loro volta citazioni dal libro che avevano attirato l’attenzione e la critica del F.;

c) pur nella pesantezza degli appunti mossi alla parte lesa, le espressioni, formulate con ironia e divertimento giocoso, non hanno una valenza di offesa ad personam, tale da superare il limite della continenza espositiva, ma sono dirette alle idee del magistrato.

Il procuratore generale presso la corte di appello ha presentato ricorso per i seguenti motivi: violazione di legge in riferimento agli artt. 595 e 51 c.p. e agli artt. 129 e 192 c.p.p.: la corte di appello ha ritenuto sussistente la scriminante dell’esercizio del diritto di critica, illogicamente ritenendo che, per contestare l’opinione di uno scrittore, lo si possa definire – senza ledere l’onorabilità della persona – forcaiolo, libidinoso di manette, in un articolo che è in ogni sua parte sprezzante e offensivo.

Queste espressioni non possono ritenersi dirette solo al pensiero, perchè è impossibile tenere separati il pensiero e colui che lo espone, nel momento che si dileggia quest’ultimo, per demolire il primo.

E’ stato violato il disposto dell’art. 129 c.p.p., – essendo maturato il termine della prescrizione – che impone al giudice l’assoluzione o il proscioglimento dell’imputato, soltanto sulla scorta dell’assoluta evidenza ed incontestabilità di circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione da parte dell’imputato; tanto che la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di constatazione che a quello di apprezzamento.

E infatti il concetto di evidenza richiesto dal comma 2, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione più ampia, oltre la correlazione ad un accertamento immediato.

La procura generale, richiama il contenuto della nota della parte civile M.M..

Il difensore di questa parte privata ha presentato ricorso che si fonda sui seguenti motivi:

1. violazione di legge in riferimento agli artt. 595 e 51 c.p., mancanza di motivazione.

La sentenza non prende in considerazione le argomentazioni della sentenza oggetto dell’impugnazione, ma afferma che nel caso di specie si verte in tema di critica politica, traendo la conclusione che in essa tutto sia consentito e che sia lecito usare qualsiasi espressione gravemente offensiva.

Nel caso in esame, la corte territoriale ritiene che sia lecito passare dal piano della confutazione delle opinioni e delle idee all’attacco personale, concernente le modalità di esercizio della professione.

In tale modo il giudice di appello ritiene legittimo additare il magistrato al pubblico ludibrio, sotto il profilo etico, professionale, umano, con espressioni volgarmente offensive.

Queste espressioni non possono essere giustificate dall’esercizio del diritto di critica e dell’esercizio della libertà di pensiero, perchè non sono dirette generalmente alla funzione di magistrato, ma direttamente alla persona della parte civile.

Negli articoli sono attribuiti parole non dette e non scritte, in quanto sono riportate a metà le citazioni testuali, esponendo così una verità incompleta che deve essere equiparata alla notizia falsa.

Secondo un consolidato orientamento interpretativo, mancando il requisito della verità del fatto da cui prende spunto la critica, non può ritenersi sussistente l’esimente dell’esercizio del diritto di critica, ex art. 51 c.p..

Le parole usate, fanno anzi intendere che la critica sia stato strumento di livore e di censura rancorosa.

2. Vizio di motivazione. In ordine all’evidente illogicità e contraddizione della sentenza impugnata, il ricorrente rileva che la corte, da un lato riconosce l’offensività delle espressioni e la falsità dell’unico elemento (la frase mai riportata si da stravolgerne il significato) su cui si fondava la critica;

dall’altro, accorda all’imputato l’esimente sebbene l’autore sia passato dal piano delle opinioni e delle idee al piano dell’etica professionale e umana, mai entrate in discussione per i provvedimenti e comportamenti giudiziali del magistrato.

Altro aspetto della contraddizione in cui incorre la sentenza riguarda l’obiettivo delle critiche contenute nell’articolo del 5.4.1997, indicato nel professore G.G., e quindi esse si sarebbero rivolte in modo indiretto e in modo non voluto dal F., entrando così in contrasto con quanto in precedenza aveva sostenuto.

Questo assunto non è conforme a quanto si legge nell’articolo, nel quale i termini offensivi sono riferibili esclusivamente al dr M..

Quanto al requisito della continenza, riconosciuto all’imputato, le espressioni andrebbero riferite, secondo la sentenza, non alla persona del M., ma alla sua funzione e al suo ruolo, oppure alla desensibilizzazione che giustificherebbe qualsiasi superamento del limite formale.

Questi argomenti sono illogici e contraddirteli, in quanto, da un lato, le espressioni sono dirette alla persona; dall’altro non contengono una confutazione a quanto sostenuto dalla prima sentenza, secondo cui la continenza espositiva non sussiste, quando le espressioni utilizzate non sono necessarie e quindi sono pretestuosamente utilizzate per gratuita aggressione ad personam Infine il ricorrente ritiene infondato il richiamo, contenuto nella sentenza, all’ironia e al divertimento giocoso" inquadrati dal ricorrente nel concetto di satira, in quanto, seguendo le argomentazioni della sentenza di primo grado e della giurisprudenza civile, l’esimente va esclusa, se sono attribuite condotte illecite o moralmente disonorevoli, volgari, deformando l’immagine in moda da suscitare disprezzo o dileggio.

Negli articoli, il M. è stato caricaturalmente dipinto come magistrato e persona amante di sbarre e manette da somministrare agli sventurati che si imbattono in lui per fini edonistici e di piacere personale.

E’ opportuno e significativo che il F. ha rivendicato la natura ingiuriosa del proprio scritto, nella risposta alla lettera di Travaglio, pubblicata il giorno 8 aprile, in cui non si esime dal definirla una "ingiuria calcolata".

La difesa del F. ha depositato, il 12.10.2010, memoria difensiva, ex art. 611 c.p.p., contestando le censure contenute nei ricorsi e sottolineando la piena correttezza delle argomentazioni della sentenza della corte di merito.
Motivi della decisione

I ricorsi non meritano accoglimento.

1. In via di premessa si osserva l’infondatezza della censura in ordine alla mancata applicazione del disposto ex art. 129 c.p.p., comma 2, in quanto la decisione della corte di appello è pienamente conforme al principio interpretativo fissato dal consolidato orientamento interpretativo, secondo cui allorquando, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., il giudice di appello – intervenuta una causa estintiva del reato – è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, anche nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova e, a maggior ragione, quando sia accertata la sussistenza di una causa di giustificazione.

Nella sentenza impugnata, sulla base delle risultanze processuali, il giudice ha accertato che la condotta dell’imputato era scriminata dall’esimente del diritto di critica: pertanto ha legittimamente e doverosamente pronunciato sentenza di assoluzione.

2. Sul travisamento della verità, determinata da eliminazione delle virgolette e da attribuzione al querelante di parole non pronunciate, si osserva che correttamente la corte ha rilevato che i riferimenti al pensiero di M. contenuti negli articoli, come citati nel capo di imputazione, sono a loro volta citazioni dei brani del libro che avevano attirato l’attenzione e la critica del F..

In una prospettiva di spiccata polemica, con le connotazioni che saranno più avanti specificate, le modifiche del testo del libro/intervista sono del tutto marginali e non alterano le linee fondanti del pensiero del M..

Secondo un corretto orientamento interpretativo, la lealtà e la chiarezza espositiva cui è tenuto l’autore della critica, funzionali a un efficace confronto di opinioni, rendono inaccettabili la maliziosa e subdola insinuazione, la spregiudicata soppressione e/o aggiunta di elementi di fatto.

Non sussiste però un illecito sconfinamento dalla verità alla non verità, laddove le modifiche riguardino elementi gregari, che non offuscano o travisano le idee del soggetto criticato, in violazione sia del diritto all’identità personale e – in caso di un contenuto offensivo – della reputazione.

3. Questa concreta corrispondenza tra il pensiero del M. e la critica del F. viene in lampante evidenza nel corso dell’esame del criterio della continenza delle espressioni impiegate dal giornalista.

Continenza significa proporzione, misura e continenti sono quei termini che non hanno equivalenti e non sono sproporzionati rispetto ai fini del concetto da esprimere e alla controllata forza emotiva suscitata della polemica su cui si vuole instaurare un lecito rapporto dialogico e dialettico.

La continenza formale non equivale a obbligo di utilizzare un linguaggio grigio e anodino, ma consente il ricorso a parole sferzanti, nella misura in cui siano correlate al livello della polemica, ai fatti narrati e rievocati.

Posto che bersaglio della critica di F. è il libro "Meno grazia e più giustizia", l’analisi deve partire dall’esame completo almeno di quella parte che ha stimolato la reazione polemica del giornalista, cioè il brano iniziale del 4^ p., capitolo 1^, intitolato "Manette facili per estorcere confessioni", per valutare se l’imputato abbia fatto uso di parole, che pur sferzanti, abbiano mantenuto la polemica nei limiti di un civile confronto di opinioni e se siano proporzionate all’oggetto e al livello della polemica.

In sintesi il pensiero espresso dal principale autore di questa parte dell’opera è il seguente: la custodia in carcere è uno dei cardini della strategia investigativa (p. 26) ed è l’unico baluardo per proteggere i cittadini dai delinquenti più pericolosi, per accertare la verità senza inquinamenti e celebrare i processi con un grado accettabile di efficienza. (33).

Concorda, poi, con la tesi del già procuratore capo di Milano, B.S., secondo cui, interrogando una persona appena arrestata, la si coglie in uno stato di grazia pressochè irripetibile al fine di ottenere la confessione e, in genere, la collaborazione.

Non c’è niente di scandaloso rispetto alle norme sulla custodia cautelare per gli effetti indotti dallo stato di detenzione ottenuta con i sacri crismi del Codice, effetti da considerare naturali perchè è naturale che le manette siano una spinta a parlare per far cessare le esigenze che le hanno provocate.

Questa spinta alla collaborazione si manifesta nel momento immediatamente successivo all’arresto, che è un momento magico (27), che è stato compromesso dalla riforma del 1995 (uno dei capolavori del garantismo all’italiana), che, con la precedenza dell’interrogatorio di garanzia, paradossalmente danneggia l’arrestato, in quanto ne impedisce il prioritario contatto con il p.m., rendendo impossibile un’immediata confessione e un’immediata liberazione. (29).

L’arrestato non vive alcuna coartazione della volontà, posta la coincidenza di interessi positivi: quello del magistrato a conoscere la verità e quello dell’arrestato a dirla.

Questa collaborazione fa parte della fisiologia del processo penale e la gente comune – portata a semplificare e a non andare per il sottile – non si scandalizza di una custodia cautelare che, in presenza di sicure prove di responsabilità, sia diretta a far confessare e soprattutto a far scoprire i complici di efferati delitti (28).

Ai possibili critici che parlano di confessioni estorte col tintinnio delle manette, di metodi di Santa Inquisizione o da processo staliniano, l’intervistato risponde che l’Inquisizione e i tribunali di Stalin erano basati sulla tortura fisica o psicologica e inducevano le vittime a confessare colpe che non avevano commesso, mentre in Italia la custodia cautelare non ha mai portato innocenti a dichiararsi colpevoli(30).

Il dottor M. sostiene che non si è ecceduto nella carcerazione, ma nelle scarcerazioni, ammettendo che questa affermazione può creare reazioni aspramente polemiche ("Mi rendo conto che, dicendo questo, c’è da passar per matti. Ma le cose stanno cosi").

Non ha senso parlare di rito ambrosiano, come metodo anomalo di applicazione della legge.

I risultati buoni ottenuti dai magistrati milanesi sono derivati dalla loro particolare abilità nel condurre le indagini:

produttività, capacità di lavoro e di organizzazione, praticità dimestichezza con i supporti informatici e sapiente uso dell’immagine pubblica che ne era derivata, sia per ottenere uomini e mezzi adeguati, sia per indurre a collaborare.

Confessarsi dinanzi a D.P. era diventato quasi uno status symbol, un elemento gratificante).

4. Secondo l’impugnata sentenza, il giornalista a queste e ad altre affermazioni di forte spessore polemico e di vivacissima carica critica verso i sostenitori di opposte strategie investigative e di diversi metodi di interrogatorio dell’indagato (i garantisti ), si è mantenuto nei limiti del corretto esercizio del diritto di critica.

Questa interpretazione delle emergenze processuali è da condividere.

Il giornalista non esprime opinioni di carattere storico-giuridico, limitandosi a:

a) indirizzare sarcastica delusione per il silenzio proveniente dagli ambienti politico-culturali che, secondo F., tradizionalmente respingono queste argomentazioni favorevoli a una forte pressione sugli imputati in stato di detenzione (La sinistra è diventata cattiva ) e specificamente per il prof. G.G., che ha mitemente recensito il libro suindicato, indirizzando netta e decisa polemica contro chi accusa ingiustamente i pubblici ministeri di eccessivo rigore;

b) formulare beffarde espressioni caricaturali che sono state ritenute diffamatorie dal dottor M., nonchè dai giudici del tribunale di Roma e dal rappresentante della procura generale presso la corte di appello di Roma, in base agli argomenti sopra enunciati che non sono condivisibili.

5. Gli argomenti trattati nel libro (funzione della custodia in carcere, modalità di interrogatorio del detenuto ) e la reazione polemica del giornalista ripropongono un tema su cui si sono confrontati per millenni studiosi, uomini di governo e letterati nel corso della generale storia dell’umanità e della specifica storia delle istituzioni giudiziarie: la dicotomia accusatorio/inquisitorio che necessariamente conduce a una duplice alternativa:

1. tra due opposti modelli di organizzazione giudiziaria e conseguentemente tra due figure di giudice;

2 tra due metodi ugualmente contrapposti di accertamento processuale e quindi tra due tipi di giudizio.

Nella storia del diritto è costantemente definito accusatorio ogni sistema processuale in cui il giudice è separato dalle parti e il giudizio è organizzato come una contesa paritaria iniziata dall’accusa, che, sostenendo l’onere della prova, si confronta con la difesa attraverso un contraddittorio pubblico e orale, e che è risolta dal giudice valutando il materiale acquisito secondo il libero convincimento.

Inquisitorio è un sistema processuale in cui il giudice procede d’ufficio, ricerca e valuta la prova e perviene alla decisione all’esito di un’istruttoria segreta e scritta, in cui sono fortemente limitati il contraddittorio e i diritti della difesa, sovrastati dalla regina delle prove, la confessione, e dalla necessità di ricorrere al metodo migliore per sollecitarla.

Su questi contrapposti modelli di organizzazione giudiziaria e metodi di accertamento processuale si è svolta per secoli, con alterne vicende, una battaglia culturale e politica che ha avuto una svolta decisiva con il riformatore illuminismo penale: da Montesquieu a Beccaria, da Voltaire a Verri, da Filangieri a Pagano si è giunti, nella civiltà giuridica dell’Europa occidentale, a ripudiare il sistema che era incentrato sull’incontrollato potere del giudice, nella ricerca della verità giudiziaria.

E’ stato invece riscoperto il valore garantista della tradizione accusatoria tramandata all’ordinamento britannico dall’antico processo romano.

Ed è nell’interrogatorio che si sono da sempre manifestati e si sono confrontati il metodo inquisitorio e il metodo accusatorio.

Il pensiero illuminista vedeva nel processo inquisitorio una concezione dell’interrogatorio come il "cominciamento della guerra forense", contro il reo onde ottenerne la confessione.

Di qui la critica verso l’elaborazione di una raffinata elaborazione dell’"ars interrogandi et esaminandi reos".

All’esito dell’analisi del metodo di interrogatorio praticato nel diritto comune, gli studiosi concordano sui pericoli di corsi e ricorsi nella civiltà giuridica, sotto la spinta di pressioni emergenziali di vario tipo.

6. Venendo allo specifico thema decidendum del presente processo, cioè alla valutazione delle critiche del giornalista ad alcuni brani del libro "Meno grazia e più giustizia", non può certo dirsi che da essi emerga la figura di un magistrato della Repubblica italiana che provi nostalgia e volontà di riproporre norme e prassi di tempi irrimediabilmente superati dalla cultura moderna e in primo luogo dalla nostra Costituzione.

Va comunque rilevato che le pagine del paragrafo su indicato contengono una brillante esposizione di idee del magistrato, ricche di dichiarazioni, a forte contenuto evocativo, fatte di polemica, paradossi, ironia, sarcasmo verso la cultura delle garanzie.

Esemplare è la critica al capolavoro del garantismo all’italiana, ostativo alla liberatrice confessione.

Questa esposizione, pur nella confermata lealtà verso i sacri crismi del codice, è stata trasfusa in una pubblicazione ampiamente diffusa, che non poteva non provocare – come razionalmente osserva la corte territoriale – contrapposte idee e sferzanti critiche, altrettanto cariche di sarcasmo, paradossi, ironia.

Non è questa la sede per accertare se il giornalista sia convinto e sincero erede e continuatore del pensiero riformatore dell’illuminismo penale o intenda usare queste idee in via strumentale per la controriforma dell’ordinamento giudiziario – come sostiene G.G. – oppure rientri in quello schieramento – richiamato nella sentenza impugnata – che invoca le garanzie per "coprire" ben altre, pesanti problematiche.

Al di là di ricorrente dietrologia – che ritualmente in alcune critiche vede insidiose e fosche alleanze – va riconosciuta la piena corrispondenza alle regole del vigente ordinamento la polemica del giornalista, che si presenta come un buono, rispetto all’incoerente schieramento progressista, cattivo perchè non difende il rito penale dagli attacchi antigarantisti.

In questa azione di supplenza critica, il F. non ha usato alto sapere storico e giuridico, ma neanche è ricorso a espressioni che abbiano colpito la figura morale e professionale del magistrato, nè ha leso la sua identità di studioso e magistrato, attribuendogli spinte emotive e sensazioni di appagamento degli interrogantes del passato.

Sicuramente non crede ai superiori e paradossali benefici della custodia in carcere e alla funzione benefica dei sostenitori di un’estensiva plurifunzionalità della massima misura cautelare.

E’ ricorso, per manifestare il suo dissenso, alla satira, creando il dottor Maleficus, che non apporta benefici per l’imputato, ma risultati non benefici.

Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la rappresentazione surreale che è propria della satira rende giustificato un linguaggio simbolico e sarcastico, svincolato da forme convenzionali, nel cui ambito non può applicarsi il generale metro di correttezza dell’espressione, fermo restando il doveroso rispetto della dignità della persona.

In tal senso va quindi esaminato il requisito della continenza delle critiche del F. e non nel senso della maggiore libertà di espressione da assegnare alle polemiche svolte nel contesto politico.

Non è invocatile una sorta di desensibilizzazione ai termini offensivi, sedimentatasi nel mondo politico.

E’ da escludere, che in una società di matura cultura democratica e ugualitaria, il confronto politico possa avvenire impunemente al di fuori di quei limiti di legalità che vincolano tutti i cittadini nel campo dei diritti della persona (sul disconoscimento della desensibilizzazione, come esimente per i protagonisti della vita politica, in caso di violazione dei diritti della persona, v. sez. 5^, n. 31096 del 4.3.09 rv 244811).

La corte di merito ha correttamente affermato che, pur nella pesantezza degli appunti mossi alla parte lesa, le espressioni del Ferrara non hanno una valenza di offesa ad personam, costituendo invece una critica espressa con ironia e divertimento giocoso entro il limite della formale continenza espositiva.

Questa conclusione è pienamente condivisibile, ribadendo che questa critica è stata formulata con modalità che sono proprie della satira, cioè di una espressione della libertà di manifestazione del pensiero, di origine letteraria, che, con la sua ironia, il suo intento scherzoso (animus iocandi), la sua sincera non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione delle persone di alto rilievo, rientra – secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale e culturale – nella scriminante dell’esercizio di un diritto, ex art. 21 Cost. e art. 51c.p..

La satira parte da un personaggio reale, lo carica di fantasiosi tratti fisionomici e/o psicologici e propone all’attenzione dei lettori un personaggio vedutamente e lealmente inesistente, anche se non ne nasconde gli originali tratti genetici.

L’attività satirica fa un uso talmente esasperato, paradossale, surreale dei tratti distintivi della persona reale da rendere del tutto evidente che il giudizio critico non è rivolto alla persona che è oggetto della rappresentazione, ma al pensiero della categoria sociale, culturale, politica, di cui la medesima è ritenuta esponente.

Non esiste il dottor Maleficus, magistrato della Repubblica italiana, con vocazione di carceriere, apologeta del carcere a fini confessori, che gode, per alterazione fisiopsichica, della sofferenza del detenuto, ma esiste il vasto schieramento trasversale di giuristi e di uomini politici, che sotto la pressione di un’indiscutibile crisi di legalità ravvisabile in tutti gli strati sociali, a partire da quelli più alti (la c.d. perenne emergenza), e forte del consenso della gente comune che è portata a non andare per il sottile, propone modelli processuali e metodi di indagine, aspramente criticati, dall’opposto schieramento, ugualmente trasversale, per l’opinabile compatibilità con i principi del nostro ordinamento.

E’ quindi razionale e realistica la conclusione della sentenza della corte territoriale. Siamo in un dibattito antico e attualissimo.

I termini non sono riferiti alla persona, ma a quell’indirizzo di cultura giuridica e di politica istituzionale di cui il querelante è sicuramente prestigioso esponente.

I ricorsi vanno quindi rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti ciascuno al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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