Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-10-2010) 31-01-2011, n. 3354 Associazione per delinquere Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) La decisione di primo grado.

A.G., C.A., D.R.F., I.D., P.G. e V.G.R. venivano condannati, unitamente ad altri imputati, all’esito del rito abbreviato, alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia e meglio in seguito precisate, dal GIP presso il Tribunale di Monza per varie violazioni del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 perchè detenevano a fini di spaccio cocaina, e l’ A. ed il V. anche per violazione dell’art. 416 c.p., per avere partecipato ad una associazione per delinquere dedita a commettere reati di usura.

La vicenda nasceva dalle indagini condotte dal Reparto Operativo dei Carabinieri di Monza con servizi di osservazione e pedinamento, intercettazioni telefoniche ed ambientali, perquisizioni e sequestri di sostanza stupefacente, audizione di persone informate dei fatti e persone offese, indagini che consentivano anche arresti in flagranza di detenzione di ingenti quantitativi di sostanza stupefacente – cocaina -.

Le indagini, che avevano come obiettivo la individuazione di traffici di droga, consentivano anche di individuare la esistenza di una struttura associativa dedita alla attività di usura, della quale facevano parte, unitamente a M.S., capo della organizzazione, e ad B.E., A.G. e V. G.R..

Il GIP nella motivazione della sentenza poneva in evidenza tutti gli elementi emersi a carico degli odierni imputati, compiendo, tra l’altro, un esame chiaro e ragionato degli esiti delle intercettazioni, collegandoli alle attività di osservazione, che avevano consentito, proprio in base alla corretta interpretazione delle conversazioni intercettate, talvolta effettuate con un linguaggio criptico, il sequestro di alcune partite di sostanze stupefacente e l’arresto di alcuni corrieri.

E’ giusto rilevare che diverse altre persone coinvolte nelle indagini, e spesso anche coimputate nei fatti attribuiti agli odierni imputati, definivano la loro posizione processuale con la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p..

2) La sentenza di appello.

La Corte di Appello di Milano, con sentenza emessa in data 13 gennaio 2009, si pronunciava in ordine alla posizione di undici imputati appellanti e confermava l’affermazione di responsabilità di tutti gli imputati, con riduzione della pena soltanto per quattro appellanti, tra i quali l’odierno ricorrente D.R.F..

La Corte di merito, dopo avere riassunto la motivazione della sentenza di primo grado ed averla richiamata per relationem, riportava i motivi di appello, rilevando, tra l’altro, che l’ A. ed il C. in effetti non avevano proposto impugnazione per l’affermazione di responsabilità per i reati concernenti il traffico di stupefacenti, discuteva del valore di prova degli esiti delle intercettazioni ambientali e telefoniche ed illustrava in modo specifico tutti gli elementi esistenti a carico degli appellanti, che legittimavano l’affermazione di responsabilità. 3) I ricorsi.

Avverso la decisione di secondo grado proponevano ricorso per cassazione soltanto sei imputati e precisamente A.G., C.A., D.R.F., I.D., P. G. e V.G.R..

Saranno esaminate separatamente le singole posizioni.

3.1) La posizione di A.G..

Con la sentenza del 14 febbraio 2008 il GIP presso il Tribunale di Monza condannava A.G. per trentuno episodi di cessione di sostanze stupefacenti alla pena di anni dieci di reclusione ed Euro 44.000,00 di multa ed alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione per il delitto di partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata a commettere reati di usura.

La condanna si fondava sugli esiti delle intercettazioni telefoniche riscontrate dai risultati dei servizi di appostamento.

La Corte di Appello di Milano, ribadito, in via generale, il valore probatorio delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, confortate dalle attività di osservazione, nonchè dai sequestri di merce e dalle ammissioni di responsabilità di alcuni imputati, e richiamata per relationem la motivazione della decisione di primo grado, rigettava le deduzioni di A. e V. concernenti il delitto associativo, osservando che dalle intercettazioni emergeva il pieno coinvolgimento dei due imputati nelle attività della associazione per delinquere, escludeva che tra il delitto associativo e quelli di spaccio di sostanze stupefacenti potesse ravvisarsi la continuazione e rilevava che l’ A. non aveva proposto impugnazione in ordine ai delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Rigettava, infine, la Corte i rilievi dell’appellante A. concernenti il trattamento sanzionatorio e negava che potessero essere riconosciute le attenuanti generiche.

Con il ricorso per cassazione A.G. deduceva i seguenti motivi di impugnazione:

1) la mancanza o manifesta illogicità della motivazione e la erronea interpretazione della norma in punto di valutazione degli elementi probatori della partecipazione alla associazione a delinquere contestata.

Il ricorrente in primo luogo rilevava una carenza motivazionale perchè la Corte di merito non aveva tenuto conto dei rilievi dell’appellante, che, anzi, erano stati fraintesi e male interpretati.

Poneva poi in evidenza che alcuni episodi ritenuti prova della partecipazione non erano stati contestati come fatti di usura o di estorsione; da tali fatti, quindi, non si sarebbe potuta desumere la prova della partecipazione alla associazione.

Contestava, inoltre, il ricorrente una erronea interpretazione delle norme in punto di prova della partecipazione alla associazione, che non poteva essere desunta dall’unico elemento certo costituito dalla frequentazione del bar (OMISSIS) di proprietà dei capi della associazione.

2) la erronea interpretazione delle norme in punto di applicazione della disciplina del reato continuato, perchè i giudici di merito, in applicazione dell’art. 671 c.p.p., comma 1, ultimo periodo avrebbero dovuto ritenere la continuazione, essendo rimasto accertato lo stato di tossicodipendenza dell’ A. ed il fatto che gli eventuali proventi dei delitti di usura dovessero servire per finanziare lo spaccio e soddisfare le sue esigenze di tossicodipendente.

Il ricorrente a prova dei fatti dedotti allegava numerosi documenti.

Con memoria difensiva pervenuta a mezzo fax il 5 ottobre 2010 il difensore dell’ A. nell’eccepire nuovamente il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità per il delitto associativo, faceva presente che i coimputati M.S. e B.E., che avevano scelto il rito ordinario, erano stati assolti dal Tribunale di Monza, con sentenza emessa il 7 gennaio 2010, non appellata dal Pubblico Ministero e, quindi, definitiva sul punto, dal delitto di cui all’art. 416 c.p. perchè il fatto non sussiste.

Nella motivazione di tale sentenza, allegata alla memoria difensiva, si leggeva, tra l’altro, che a carico di A.G. e V.G.R. non erano emerse prove per ritenerli partecipi di una consorteria criminosa finalizzata all’usura.

Il ricorrente poneva in evidenza che la sentenza impugnata non aveva motivato in ordine alla sussistenza di una struttura organizzata e di un programma criminoso comune agli associati, nè le presunte spedizioni punitive, peraltro mai contestate, nelle quali sarebbe stato coinvolto l’ A., avrebbero potuto essere ricondotte a fatti di usura.

A ciò aggiungasi che l’assoluzione di due coimputati rendeva la presunta associazione partecipata soltanto da due persone.

Rilevava, infine, il ricorrente che in modo apodittico era stata ritenuta la esistenza di un vincolo associativo.

I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da A.G. sono fondati nei limiti di cui si dirà.

E’ necessario premettere che il ricorso dell’ A. concerne esclusivamente il delitto associativo ed il fatto che tra quest’ultimo ed i reati di traffico di sostanze stupefacenti non sia stata ritenuta la continuazione.

La sentenza impugnata, pertanto, resta ferma per quanto concerne la affermazione di responsabilità dell’ A. per tutte le ipotesi di cessione di sostanze stupefacenti, per le quali è stato ritenuto colpevole dalla Corte di appello.

Quanto al delitto associativo, va detto che i rilievi del ricorrente appaiono, come si accennava, fondati.

Vanno esaminati in questa sede anche i motivi di ricorso del V. concernenti il delitto associativo al fine di evitare inutili ripetizioni.

La motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto associativo e della partecipazione alla organizzazione dei ricorrenti A. e V. appare, in verità, del tutto carente.

Non vi è, infatti, una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di una organizzazione con predisposizione, sia pure rudimentale, dei mezzi idonei alla realizzazione del programma criminoso, manca una motivazione sulla esistenza di un accordo tra tre o più persone volto alla attuazione di una serie indeterminata di reati e non è rinvenibile una specifica motivazione in ordine alla esistenza della coscienza e volontà di A. e V. di fare parte di un organismo associativo.

Si tratta di elementi che la Suprema Corte ha ritenuto essenziali per affermare la penale responsabilità di un imputato per il delitto di cui all’art. 416 c.p..

I giudici del merito hanno ritenuto che A. e V. avessero il compito di riscuotere le somme dovute al M. ed al B. dalle vittime dell’usura e di intimidire gli stessi con spedizioni punitive.

Pur volendo prescindere dal fatto che le minacce e le violenze che i due ricorrenti avrebbero posto in essere non risultano essere state a loro contestate va detto che non è spiegato per quali ragioni tali spedizioni punitive fossero da porre in collegamento con le usure compiute dal M. e dal B. e non con altre attività delittuose di cui i due ricorrenti erano certamente responsabili.

Sembra, in definitiva, che l’unico elemento a carico dei due ricorrenti sia costituito dal fatto di frequentare assiduamente il bar (OMISSIS) di proprietà degli altri due coimputati M. e B..

A tutto ciò, che già imporrebbe un annullamento con rinvio della sentenza impugnata, bisogna aggiungere il fatto che con sentenza emessa in data 7 gennaio 2010, e, quindi, in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata, il Tribunale di Monza, all’esito del rito ordinario, ha assolto perchè il fatto non sussiste, anche se ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p., i coimputati M. S. e B.E. dal delitto di cui all’art. 416 c.p., ritenendo non provata la esistenza di una associazione per delinquere della quale facessero parte, oltre a M. e B., anche V. e A..

Proprio con riferimento a tali ultimi due imputati la citata sentenza, che non risulta essere stata impugnata dal Pubblico Ministero sul punto, escludeva che fosse stata acquisita la prova in quel dibattimento che V. e A. fossero percettori materiali degli incassi.

Naturalmente l’assoluzione degli imputati M. e B. fa venire meno anche il presupposto della partecipazione di tre persone per ritenere sussistente una associazione per delinquere.

Si impone, pertanto, un riesame della posizione dei ricorrenti A. e V. in ordine alla affermazione di responsabilità per il delitto di cui all’art. 416 c.p., che tenga conto degli elementi emergenti a loro carico dalle intercettazioni telefoniche e dai servizi di osservazione della polizia giudiziaria, di quelli messi in evidenza a loro favore dal Tribunale di Monza e delle osservazioni svolte in precedenza in ordine alle carenze motivazionali della sentenza impugnata.

Del rilievo del ricorrente A. in ordine alla mancata considerazione da parte della Corte di merito, dell’art. 671 c.p.p., così come modificato, che appare, peraltro, fondato perchè di tale disposizione, che impone al giudice, anche della cognizione, di tenere conto dello stato di tossicodipendenza dell’imputato, i giudici del merito non hanno tenuto conto, appare superfluo discutere, visti i termini della decisione.

Per le ragioni esposte la sentenza impugnata deve essere annullata con riferimento agli imputati A.G. e V.G. R. limitatamente alla affermazione di responsabilità per il delitto di associazione per delinquere finalizzata a commettere delitti di usura con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano per un nuovo esame.

Soltanto in caso di rinnovata affermazione di responsabilità per il delitto di cui all’art. 416 c.p. la Corte di rinvio dovrà affrontare anche il problema della possibile continuazione tra il delitto associativo ed i reati di spaccio di sostanze stupefacenti.

3.2) Il ricorso di C.A..

C.A. in primo grado veniva condannato, previo riconoscimento delle attenuanti generiche e con la diminuente del rito, alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed Euro 14.000,00 di multa perchè ritenuto colpevole della cessione di duecento grammi di cocaina a tale Ch..

La Corte di Appello di Milano, preso atto che il C. non si era doluto della affermazione di responsabilità, essendosi limitato a richiedere il riconoscimento della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, rigettava l’appello sul presupposto che l’attenuante poteva essere concessa soltanto in caso di minima offensività della condotta, cosa da escludere per un quantitativo rilevante quale doveva considerarsi quello di duecento grammi di cocaina.

Con il ricorso per cassazione C.A. deduceva la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 87, art. 73, commi 1 e 5 per errata applicazione della legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta assenza dei presupposti per applicare l’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, cit. art. 73, comma 5.

Il C. rilevava che aveva commerciato due dosi e non due etti di cocaina, come si desumeva dalla telefonata intercettata e che il termine amici illegittimamente era stato ritenuto sinonimo di etto.

Sottolineava, infine, il ricorrente che ai fini del riconoscimento della attenuante de qua non rilevava soltanto la quantità di droga, ma anche il principio attivo e le modalità dell’azione, tutti fatti che deponevano per una ipotesi attenuata.

Il motivo posto a sostegno del ricorso proposto dal C. è infondato ed anzi è ai limiti della ammissibilità perchè il ricorrente sembra mettere in discussione la valutazione delle prove compiuta dai giudici del merito.

La interpretazione delle intercettazioni telefoniche compete, infatti, ai giudici dei primi due gradi di giurisdizione; cosicchè le valutazioni dei giudici del merito sorrette da una motivazione non palesemente illogica, come nel caso di specie, non sono censurabili in sede di legittimità.

La Corte di merito ha, inoltre, precisato che il fatto contestato a C. era stato commesso in concorso con A.G., il quale – è bene porlo in evidenza – non si era doluto della affermazione di responsabilità per tale reato.

Ai fini del riconoscimento della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 è necessario compiere una valutazione complessiva del fatto contestato, condotta sulla base dei parametri di riferimento indicati nella norma medesima, potendosi riconoscere l’attenuante soltanto in ipotesi di minima offensività della condotta.

Minima offensività che deve essere esclusa anche quando uno solo degli elementi indicati dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 venga valutato in senso negativo (SS.UU., 21 settembre 2000, Primavera).

Nel caso di specie la Corte di merito ha correttamente ritenuto che sia il dato ponderale – due etti di cocaina – che il ruolo ricoperto dal ricorrente nella cessione non consentivano di riconoscere l’attenuante richiesta.

La decisione non è censurabile sotto il profilo della legittimità.

Il ricorso del C. deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.

3.3) I motivi di ricorso di D.R.F..

D.R.F. in primo grado per una ipotesi di detenzione a fini di spaccio di cocaina è stato condannato, ritenuta l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e riconosciute le attenuanti generiche e la diminuente del rito abbreviato, alla pena di anni uno, mesi otto di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa.

La Corte di appello, nel confermare la affermazione di responsabilità, riteneva, tenuto conto del modesto quantitativo di sostanza stupefacente, di ridurre la pena inflitta in primo grado ad anni uno di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa.

La condanna si fondava sul fatto che da intercettazioni telefoniche era risultato che il D.R. aveva ordinato a S.D., che successivamente veniva arrestato in flagranza di reato perchè in possesso di cocaina, un quantitativo di droga per venti persone, segno evidente che non si trattava di uso personale e che aveva parlato di dieci e quindici, riferito evidentemente ai grammi di stupefacente ordinato.

Con il ricorso per cassazione il D.R., premesso l’iter del processo, deduceva la mancanza e contraddittorietà della motivazione con riferimento agli elementi probatori raccolti – intercettazioni telefoniche – e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla sussistenza del fatto contestato ad esso D. R..

Il ricorrente, in particolare, rilevava che le intercettazioni avevano un significato manifestamente ambiguo ed equivoco, che mancavano elementi di riscontro necessari in caso di ambiguità delle intercettazioni e che l’imputato non era mai stato trovato in possesso di sostanza stupefacente o di attrezzi necessari per il taglio ed il confezionamento di dosi di sostanza stupefacente.

I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da D.R.F. sono manifestamente infondati e si risolvono in inammissibili censure di merito della decisione impugnata.

I giudici del merito, infatti, hanno interpretato le intercettazioni telefoniche di conversazioni tra il D.R. ed il S. ed hanno logicamente spiegato perchè il loro dire si riferiva a partite di cocaina.

In verità tali intercettazioni non sono affatto manifestamente ambigue, come sostenuto genericamente dal ricorrente, dal momento che nelle stesse si parla prima di dieci e poi di quindici, con evidente riferimento ai grammi di sostanza stupefacente, e si fa riferimento a venti persone, segno che non si trattava di droga per uso personale.

Una intercettazione siffatta, per nulla ambigua, può costituire piena prova a carico dell’imputato e non necessita di riscontri, come la giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte stabilito.

Peraltro nel caso di specie costituisce indubbio riscontro il fatto che il S. davvero venne arrestato in flagranza perchè trovato in possesso di cocaina.

Di fronte a tali elementi nessun rilievo ha il fatto che una perquisizione domiciliare in danno del D.R. abbia avuto esito negativo.

Per le ragioni indicate il ricorso deve essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento ed a versare la somma, liquidata in via equitativa, in ragione dei motivi dedotti, di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

3.4) Il gravame e la posizione di I.D..

I.D. è stato ritenuto dal giudice di primo grado l’organizzatore di tre episodi di traffico di stupefacenti, che materialmente vennero portati a termine dai suoi fratelli I. V. e I.G., che definivano la loro posizione con l’applicazione della pena richiesta ex art. 444 c.p.p., e condannato alla pena di anni otto di reclusione ed Euro 40.000,00 di multa.

La Corte di appello milanese, nel confermare la condanna, ricordava che il corriere P.G., in base ai servizi di appostamento seguiti alle intercettazioni, venne arrestato perchè in possesso di Kg 1,587 di cocaina.

Il traffico era stato organizzato dai fratelli I., come si desumeva da intercettazioni telefoniche, nel corso delle quali I.V. e I.G. facevano riferimento al fratello I.D., indicato come Mi. o M..

Tra l’altro da altra telefonata risultava il tentativo del I. D. di ottenere dal Ch., destinatario della merce trasportata dal P., il pagamento della merce.

Quanto agli altri due episodi di cessione a tali Co.Al. e Pa.Gi., i giudici di merito ponevano in evidenza che nel corso di una conversazione avvenuta nella auto smart del Co. tra I.G. e il Co. stesso si parlava del pagamento concordato con Mi..

I giudici del merito non davano alcun rilievo favorevole per il ricorrente al fatto che I.V. e I.G. non avevano mai chiamato in correità il fratello I.D..

Con il ricorso per cassazione I.D. deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192 e 530 c.p.p., nonchè artt. 81 e 133 c.p..

Il ricorrente, in particolare, segnalava che nessuno – Pa., Co., I.G. e I.V. – aveva chiamato in correità I.D. e che i giudici del merito erano incorsi in un errore logico nel ritenere che l’espressione M. o Mi., utilizzata in alcune conversazioni intercettate, si riferisse a I.D..

E’ singolare, osservava ancora il ricorrente, che il preteso organizzatore del traffico illecito, che, tra l’altro, è il più giovane dei fratelli I., non fosse mai stato sorpreso ad effettuare una telefonata ai suoi collaboratori.

Inoltre ben poteva l’espressione M., usata prevalentemente dal Co., essere una imprecazione e non un nome di battesimo.

La motivazione era poi assolutamente carente sul fatto che il Co. aveva parlato di un Mi. dimorante a (OMISSIS), mentre I.D. abitava a (OMISSIS).

Quanto alla vicenda del traffico di P.G., il ricorrente poneva in evidenza che i giudici di merito avevano commesso un grave errore nel ritenere che fosse I.D. a pretendere il pagamento della partita di droga da tale Ch., trattandosi, invece, di I.V..

Il ricorrente deduceva, poi, che erroneamente era stato ritenuto più grave il delitto di cui al capo di imputazione n. 142, posto che in tal caso non si era appurato il quantitativo di droga commerciato, e non quello di cui al capo n. 67, posto a base del calcolo della pena concordata dai fratelli I.V. e I.G..

I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da I.D. non sono fondati.

In verità i motivi sembrano risolversi in censure di merito dal momento che il ricorrente ha contestato la interpretazione delle intercettazioni telefoniche ed ambientali compiuta dai giudici del merito, più che mettere in evidenza manifeste illogicità della motivazione.

In ogni caso va detto che certamente l’espressione Mi. o M. non costituisce una imprecazione, come sostenuto dal ricorrente, trattandosi del diminutivo di I.D. in uso in molte regioni dell’Italia meridionale.

Del resto non si comprende, nè il ricorrente ne fornisce una spiegazione, di quale imprecazione dovrebbe trattarsi.

Del tutto logica appare, pertanto, la individuazione del Mi. di cui alle telefonate nel I.D., fratello degli altri due I. implicati nei traffici di cui al presente processo.

Il fatto che I.D. non sia stato mai intercettato direttamente in verità non appare rilevante, come pure il fatto che i coimputati non l’abbiano chiamato in correità non è particolarmente significativo.

Del resto due dei coimputati sono i fratelli che, come è costume diffuso, si sono astenuti dal chiamarlo in correità.

Anche la circostanza che il Co. abbia parlato a telefono di Mi. di (OMISSIS) mentre I.D. abita in (OMISSIS) non appare, come correttamente stabilito anche dalla Corte di merito, elemento rilevante non solo perchè i due comuni sono molto vicini e, quindi, un errore è facilmente comprensibile, ma anche perchè non si tratta di elemento che consente di mettere in discussione le acquisizioni probatorie emergenti dalle intercettazioni telefoniche, acquisizioni che nemmeno il ricorrente ha censurato, essendosi limitato a sostenere che il Mi. delle telefonate non fosse identificabile in I.D..

Soltanto per completezza è bene dire che nelle trattative per il trasporto di oltre un chilo e mezzo di cocaina, oggetto di sequestro ai danni del corriere P., elemento di riscontro alle intercettazioni di indubbio rilievo, i fratelli I. avevano fatto più volte riferimento al fratello Mi., che appariva come l’organizzatore del traffico.

Inoltre dopo il sequestro I.G. è stato intercettato mentre parlava a telefono con il fratello I.D., e si informava se il sequestro fosse avvenuto prima o dopo la consegna della merce al P..

Di sicuro rilievo è anche il colloquio tra I.G. ed il Co. nel corso del quale si parla del pagamento concordato con Mi..

A fronte di tali elementi di particolare significato non ha alcun rilievo la divergenza tra l’ordinanza cautelare, che individua in I.V. la persona che per telefono cercava di ottenere il pagamento della cocaina sequestra al P. dal Ch., al quale la droga era destinata, e la sentenza impugnata che, invece, individua in I.D. l’interlocutore del Ch..

Infondato è anche il rilievo circa l’erronea individuazione del reato più grave ai fini della determinazione della pena base, dal momento che la Corte di rinvio ha giustificato la individuazione del capo 142) con riferimento alla quantità di sostanza stupefacente ceduta, non apparendo rilevante che non vi fu in tale circostanza nessun sequestro della merce.

Per le ragioni indicate il ricorso di I.D. deve essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagate le spese del procedimento.

3.5) Il ricorso di P.G..

P.G., accusato del trasporto di un quantitativo imprecisato di cocaina, veniva condannato in primo grado, ritenuta la continuazione con la sentenza del Tribunale di Monza del 12 aprile 2006, alla pena di anni uno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa.

La decisione veniva confermata dalla Corte di appello, che rigettava i motivi di appello, fondati sul fatto che il P. non avrebbe potuto compiere traffici illeciti, essendo in quel periodo di tempo impegnato con il padre in attività del tutto lecite, facendo notare che il P. non era nuovo ad episodi del genere, tanto è vero che venne sorpreso a trasportare oltre un chilogrammo e mezzo di cocaina, fatto per il quale venne arrestato e separatamente giudicato e condannato.

Con il ricorso per cassazione, concernente esclusivamente il trattamento sanzionatorio, P.G. deduceva la mancanza o manifesta illogicità della motivazione e la erronea interpretazione delle norme in punto di applicazione della pena in continuazione.

Il ricorrente denunciava che ad altri coimputati, accusati di fatti più gravi, era stato applicato un aumento per continuazione più contenuto, e poneva in evidenza la carenza motivazionale su punti specifici dedotti in appello ed il fatto che la Corte di secondo grado non avesse tenuto conto dello stato di incensuratezza e della posizione marginale di esso ricorrente.

Denunciava, infine, il ricorrente la erronea interpretazione dell’art. 133 c.p..

I motivi posti a sostegno del ricorso di P.G. sono infondati ed anzi sono ai limiti della ammissibilità perchè la determinazione della pena è demandata alla discrezionalità del giudice di merito, che è tenuto a valutare tutta la vicenda processuale in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p..

Ebbene nel caso di specie i giudici di merito hanno ritenuto adeguata ai fatti la pena comminata.

Le censure del ricorrente non sono fondate in primo luogo perchè non è affatto vero che il P. era un incensurato, come erroneamente si è sostenuto, perchè al momento della irrogazione della pena il ricorrente risultava gravato da un precedente specifico, tanto è vero che il presente fatto è stato ritenuto in continuazione con quello di cui alla sentenza del Tribunale di Monza del 12 aprile 2006.

Dalla lettura delle due sentenze di merito, inoltre, il ruolo del P. non appare per nulla marginale, tanto è vero che successivamente al fatto per il quale vi è stata condanna nel presente processo, veniva arrestato perchè trovato in possesso di oltre un chilo e mezzo di cocaina che stava portando all’acquirente Ch. per conto dei fratelli I..

Il ricorrente, inoltre, si è doluto che altri coimputati, accusati di fatti più gravi, avevano ottenuto un trattamento sanzionatorio più favorevole.

E’ del tutto evidente che il rapporto tra coimputati, specialmente quando siano giudicati con riti diversi, è particolarmente complesso perchè ai fini della determinazione della pena non si può tenere conto soltanto del reato o dei reati ascritti a ciascuno, ma anche della gravità della condotta in concreto tenuta da ciascuno, delle condizioni soggettive e di tutti gli altri elementi, di cui ai sensi dell’art. 133 c.p., il giudice deve tenere conto nella determinazione della pena.

Ebbene, in assenza di specifiche indicazioni del ricorrente, la lettura complessiva della sentenza impugnata consente di ritenere che la differenze nella determinazione della pena tra i vari imputati è sempre stata correttamente motivata ed ancorata a precisi elementi di valutazione; non è ravvisabile in proposito nessuna illogicità o contraddittorietà nella motivazione del provvedimento impugnato.

Per tali ragioni il ricorso di P. deve essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.

3.6) La posizione di V.G.R..

V.G.R. è stato condannato in primo grado per sedici episodi di spaccio di sostanze stupefacenti alla pena di anni sette e mesi due di reclusione ed Euro 40.000,00 di multa e per il delitto di partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata a commettere reati di usura, unitamente al coimputato A. G. ed a M.S. e B.E., giudicati separatamente con il rito ordinario, ad anni due di reclusione.

La Corte di appello milanese rigettava la impugnazione del V. e confermava la decisione di primo grado.

L’affermazione di responsabilità si fondava sull’esito delle intercettazioni telefoniche e sulla scorta degli argomenti già indicati quando si è trattata la posizione di A.G. per quanto concerne il delitto associativo.

Con il ricorso per cassazione V.G.R. ha dedotto i seguenti motivi di impugnazione:

1) con riferimento alle violazioni del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, la violazione della legge penale, ed in particolare dell’art. 533 c.p.p. e art. 111 Cost. per il mancato rispetto del principio di offensività.

In effetti la offesa al bene giuridico protetto dipende non tanto dal quantitativo di sostanza stupefacente commerciata, quanto dal quantitativo esatto di principio attivo contenuto nella merce.

Per individuare il quantitativo di principio attivo è necessario procedere ad una perizia tossicologica, possibile soltanto quando si pervenga ad un sequestro di sostanza stupefacente.

Ne consegue che le fonti di prova, ivi comprese le intercettazioni telefoniche ed ambientali, diverse dal sequestro probatorio seguito da perizia tossicologica, non sono sufficienti a legittimare un giudizio di responsabilità penale.

Nei confronti del V. non si era proceduto al sequestro di merce e non era stato, quindi, accertato il quantitativo di principio attivo presente nella sostanza stupefacente che sarebbe stata ceduta.

Tutto ciò ha comportato la violazione dell’art. 533 c.p.p. e dell’art. 111 Cost.;

2) sempre con riferimento alle violazioni del D.P.R. cit., art. 73 la inosservanza ed erronea applicazione del disposto di cui al comma 5 del predetto articolo, dovendosi nel caso appena descritto quantomeno riconoscere la ipotesi di lieve entità, per le ragioni già indicate;

3) ancora con riferimento alle violazioni della legge sugli stupefacenti, la violazione degli artt. 192 e 533 c.p.p., nonchè la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione perchè gli esiti delle intercettazioni telefoniche possono costituire prova di responsabilità soltanto quando le conversazioni intercettate siano chiare, decifrabili, non ambigue e non lascino, pertanto, margini di dubbio;

4) con riferimento al delitto associativo, la violazione di legge ed il vizio di motivazione perchè non vi era alcuna prova della esistenza di una organizzazione permanente caratterizzata da un programma criminoso indeterminato, della quale avesse fatto parte coscientemente e volontariamente il V.; sul punto la motivazione era apodittica;

5) la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra le violazione in materia di stupefacenti ed il delitto associativo, non avendo i giudici del merito tenuto conto del fatto che i reati erano stati commessi per ragioni economico – patrimoniali in uno stesso arco temporale;

6) la violazione di legge ed il vizio di motivazione, nonchè il travisamento del fatto, per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Sono fondati i motivi posti a sostegno del ricorso proposto da V.G.R. concernenti la affermazione di responsabilità per il delitto associativo – motivi quattro e cinque, mentre non sono fondati gli altri motivi di impugnazione.

Quanto al delitto associativo si deve rinviare a quanto già detto nel paragrafo nel quale è stata trattata la posizione di A. G..

Quanto ai numerosi episodi di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, infondato è il primo motivo di impugnazione perchè per l’affermazione di responsabilità per violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 non sono necessari il sequestro della merce e l’espletamento di una perizia tossicologica per la determinazione del principio attivino drogante contenuto in una determinata partita di merce.

La Suprema Corte ha chiarito che l’incriminazione delle condotte previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ha lo scopo di combattere il mercato della droga;

è per tale ragione che viene punita ogni ipotesi di cessione perchè è proprio attraverso tale condotta che si alimenta il mercato della droga.

Inoltre al fine di rendere più incisiva l’azione di repressione del fenomeno nel nostro ordinamento la nozione di stupefacente ha natura legale, nel senso che sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione tutte e soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi appositamente predisposti.

Conseguentemente la circostanza che il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta soglia drogante in mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto non ha alcuna rilevanza ai fini della punibilità del fatto (vedi Cass., Sez. 6^, 13 maggio – 1^ giugno 1999, n. 6864).

La Suprema Corte ha altresì precisato che la idoneità della azione di detenzione e cessione di sostanze stupefacente deve essere valutata in relazione ai beni tutelati dalla norma penale in discussione, individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell’ordine pubblico, beni che sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante (SS.UU. 24 giugno – 21 settembre 1998, n. 9973).

Il Collegio condivide tali indirizzi che rendono evidente la infondatezza delle deduzioni del ricorrente.

E’ infondato anche il secondo motivo di impugnazione perchè non può ritenersi la ipotesi di minima offensività quando l’agente ponga in essere ben sedici episodi di cessione di sostanze stupefacenti di quantità non certo trascurabile, come è lecito desumere dalla motivazione delle due sentenze di merito.

E’ infondato anche il terzo motivo di impugnazione perchè la prova della cessione di sostanze stupefacenti può essere fornita anche soltanto dagli esiti delle intercettazioni telefoniche, quando esse siano, come nel caso di specie, non equivoche.

I giudici del merito hanno analizzato le singole intercettazioni e ne hanno fornito una interpretazione sorretta da motivazione immune da manifeste illogicità.

Del resto le intercettazioni, seguite da servizi di osservazione della polizia giudiziaria, hanno consentito, come si è già detto, alcuni arresti in flagranza di reato di coimputati e sequestri di merce anche di notevole quantità.

Esse appaiono, pertanto, del tutto attendibili; le conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici del merito non possono essere superate dalle generiche osservazioni del ricorrente.

Infondato è, infine, l’ultimo motivo di impugnazione perchè i giudici del merito hanno negato il riconoscimento delle attenuanti generiche al V. per la gravità dei fatti ed il gran numero di reati ascritti all’imputato.

Trattasi di motivazione immune da manifeste illogicità e non censurabile, pertanto, sotto il profilo della legittimità.

Per le ragioni indicate la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla affermazione di responsabilità per il delitto associativo – assorbito il motivo concernente il mancato riconoscimento della continuazione tra delitto associativo ed i reati di spaccio – con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano per nuovo esame;

il ricorso del V. deve essere rigettato nel resto.

4) Conclusioni.

In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata, con riferimento alle posizioni di A.G. e V.G. R. e limitatamente alla affermazione di responsabilità per il delitto associativo, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano per nuovo esame;

Il ricorso del V. deve essere nel resto rigettato.

I ricorsi di C.A., I.D. e P. G. debbono essere rigettati, mentre il ricorso di D.R. F. deve essere dichiarato inammissibile.

C.A., I.D., D.R.F. e P. G. vanno condannati ciascuno al pagamento delle spese del procedimento ed il P., inoltre, al versamento della somma, liquidata in via equitativa, in ragione dei motivi dedotti, di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata con riferimento alle posizioni di A.G. e V.G.R. limitatamente alla affermazione di responsabilità per il delitto associativo, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano per nuovo esame;

Rigetta nel resto il ricorso di V.G.R.;

Rigetta i ricorsi di C.A., I.D. e P. G. e condanna ciascuno a pagare le spese del procedimento;

Dichiara inammissibile il ricorso di D.R.F. che condanna al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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