Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 18-01-2011) 01-02-2011, n. 3607 Intercettazioni telefoniche; Stranieri; Associazione per delinquere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 17/2/2010, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Latina, in data 30/3/2009, assolveva G.S. e B.R. dall’imputazione loro ascritta al capo A) per non aver commesso il fatto e riconosciute a tutti gli imputati le attenuanti generiche prevalenti, determinava le pene come segue:

S.M., anni tredici, mesi quattro di reclusione;

T.T.B.S., anni sette di reclusione;

M.A.B.Y., anni sette di reclusione C.S., anni sette di reclusione;

G.S., ritenuta la continuazione con la sentenza 23/1/2007 del Tribunale di Latina, anni quattro, mesi sei di reclusione ed Euro 23.000,00 di multa.

Le imputazioni riguardavano il reato di associazione per delinquere finalizzato al traffico di stupefacenti, aggravata dal numero di partecipanti (superiore a 10), S.M., nella qualità di organizzatore, gli altri quali partecipanti, nonchè alcuni episodi di cessione a terzi di sostanze stupefacenti, tipo eroina e cocaina.

Avverso tale sentenza propongono ricorso S.M., G. S., T.T.B.S., M.A.B.Y. e C.S. per mezzo dei rispettivi difensori.

S.M.:

Solleva un unico motivo di gravame con il quale deduce violazione di legge per l’insussistenza dell’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. Al riguardo si duole che le fonti di prova, costituite tutte da frammenti di conversazioni telefoniche intercettate testimoniano rapporti con gli altri imputati posti in essere al solo fine dell’approvvigionamento personale di droga, essendo l’imputato da lungo tempo tossicodipendente. Proprio la condizione di tossicodipendenza gli impediva di assumere quella capacità di organizzatore, promotore e conduttore del consesso malavitoso che gli era stata attribuita con la sentenza di condanna.

G.S.:

Solleva due motivi di gravame con i quali deduce:

1) Violazione di legge per erronea applicazione della disposizione normativa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ed in particolare la mancata applicazione dell’attenuante speciale di cui al comma 5.

Al riguardo si duole che la Corte abbia valutato globalmente la posizione del prevenuto, omettendo di effettuare una valutazione della tenuità del fatto, con riferimento a ciascun episodio criminoso contestato nel quale risultava ceduta una quantità veramente modesta di sostanza stupefacente;

2) Violazione di legge per erronea applicazione dell’art. 444 c.p.p., comma 1 bis. In proposito eccepisce che, avendo la Corte riconosciuto le circostanze attenuanti prevalenti sulla recidiva contestata, all’imputato non poteva essere inibita la possibilità di usufruire del patteggiamento.

Successivamente G.S. ha fatto pervenire dichiarazione di rinunzia al ricorso T.T.B.S..

Solleva quattro motivi di gravame con i quali deduce:

1) Violazione di legge per erronea applicazione della norma di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato associativo. In proposito si duole della insussistenza degli estremi della condotta punibile nel reato di associazione ed eccepisce che i fatti giudicati riguardano la semplice partecipazione a singoli episodi di spaccio di sostanze stupefacenti, non essendo stata in alcun modo provata l’esistenza di una sia pur rudimentale struttura organizzativa;

2) Vizio della motivazione con riferimento al riconoscimento di colpevolezza del prevenuto. Al riguardo si duole che all’imputato non è stato addebitato alcun specifico episodio relativo allo spaccio, ma soltanto di aver svolto una illecita attività di intermediazione dalla quale illogicamente i giudici di merito hanno tratto la conclusione della sua partecipazione all’attività associativa;

3) Violazione di legge, in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 per la mancata applicazione dell’ipotesi di cui al comma 6. In proposito eccepisce che, essendo l’attività di spaccio di modestissima entità, al prevenuto andava applicata l’ipotesi attenuata di cui al comma 6;

4) Violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1988, art. 28, dolendosi dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato.

M.A.B.Y.:

Solleva tre motivi di gravame con i quali deduce:

1) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. Al riguardo eccepisce che la motivazione non rende conto dei requisiti indispensabili per la sussistenza della dedotta associazione per delinquere, limitandosi la sentenza impugnata a richiamare il contenuto di intercettazioni in cui gli imputati discutono di questioni riconducibili al commercio di stupefacenti, senza che possa desumersi l’esistenza di un progetto criminoso che assuma le caratteristiche richieste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. In particolare si duole che le condotte ritenute significative dalla Corte territoriale per provare la sussistenza del delitto associativo non sono di per sè idonee a superare la linea di demarcazione fra il concorso continuato nei reati di spaccio di stupefacenti e l’associazione finalizzata allo spaccio;

2) Violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione dell’imputato al sodalizio criminoso. In proposito eccepisce che gli unici elementi a carico del prevenuto sono costituiti da 5 contatti telefonici con S.M. dai quali non sarebbe possibile inferire la partecipazione ad una associazione piuttosto che la trattazione di singoli affari, di volta in volta concordati fra i due;

3) Violazione dell’art. 74, comma 6 D.P.R. per mancato riconoscimento di tale ipotesi attenuata nonostante ne ricorressero i presupposti di legge e vizio della motivazione sul punto.

C.S.:

Solleva tre motivi di ricorso con i quali deduce:

1) Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 267 c.p.p., comma 1, contestando l’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche in atti per nullità del decreto di autorizzazione emesso dal Gip, stante la carenza dei gravi indizi di reato;

2) Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. Al riguardo eccepisce che nella fattispecie difettano gli elementi essenziali di carattere oggettivo e soggettivo per potersi configurare la sussistenza dell’associazione. In particolare difetterebbe una organizzazione di carattere stabile ed il pactum sceleris;

3) Violazione e falsa applicazione di legge e vizio della motivazione in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. Al riguardo si duole che la Corte non ha riscontrato, attraverso il materiale probatorio il contributo causale che il prevenuto avrebbe fornito all’associazione ed eccepisce che il riferimento a sporadici episodi non consente di attribuire allo C. il ruolo di partecipe alla struttura criminale.
Motivi della decisione

S.M.:

Le censure sollevate dal ricorrente in punto di impossibilità di configurare un suo ruolo direttivo nell’associazione per delinquere contestata sono fondate all’evidenza su motivi del tutto generici, (come la condizione di tossicodipendenza) e che, in ogni caso, per l’assoluta aspecificità, non permettono alcuna seria e concreta valutazione delle stesse. Viceversa, il ricorrente ha del tutto ignorato le ragioni poste a base del provvedimento impugnato così incorrendo nel vizio di aspecificità conducente, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità dell’impugnazione (Cass., sez. 6, n. 35656, 6 luglio 2004, Magno).

G.S.:

La dichiarazione di rinunzia al ricorso effettuata dal G. all’Ufficio matricola del carcere di Rieti in data 6/8/2010, rende il ricorso inammissibile, ai sensi dell’art. 591, comma 1, lett. d).

T.T.B.S.:

I primi tre motivi di ricorso tendenti a contestare la sussistenza del reato associativo, la compartecipazione del ricorrente all’associazione, ed il mancato riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 sono infondati.

Secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10107 Ud. del 14/07/1998, Rv. 211403):

"L’associazione per delinquere si caratterizza per tre fondamentali elementi, costituiti:

a)- da un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati;

b)- dall’indeterminatezza del programma criminoso che distingue il reato associativo dall’accordo che sorregge il concorso di persone nel reato;

c)- dall’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira." In punto di diritto occorre rilevare che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sulle conclusioni raggiunte, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico- giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione.

Pertanto, nel caso di specie la motivazione sulla sussistenza dell’associazione deve essere desunta dalla lettura combinata della motivazione della sentenza di primo grado con quella d’appello. Nel caso di specie i giudici di merito hanno riscontrato la sussistenza dei requisiti dell’associazione attraverso un minuzioso esame delle fonti di prova, costituite essenzialmente dalle conversazioni telefoniche intercettate, rilevando – attraverso un giudizio in fatto – che nel caso di specie le risultanze istruttorie comprovano che sia stata costituita ed abbia operato in Latina e provincia, quantomeno dal mese di ottobre 2005 una stabile associazione finalizzata all’acquisto di eroina e cocaina, al taglio e confezionamento delle stesse ed alla cessione a terzi (Sentenza del Tribunale, fol. 27).

Tale conclusione appare coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui:

"In tema di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, la prova del vincolo permanente, nascente dall’accordo associativo, può essere data anche per mezzo dell’accertamento di facta concludenza, quali i contatti continui tra gli spacciatori, i frequenti viaggi per il rifornimento della droga, le basi logistiche, le forme di copertura e i beni necessari per le operazioni delittuose, le forme organizzative, sia di tipo gerarchico che mediante divisione dei compiti tra gli associati, la commissione di reati rientranti nel programma criminoso e le loro specifiche modalità esecutive" (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 25471 del 07/02/2007 Ud. (dep. 04/07/2007) Rv. 237002).

Ugualmente infondate sono le censure in punto di partecipazione del prevenuto all’associazione dal momento che nello stesso ricorso si da atto che il ricorrente ebbe a svolgere alcune attività di intermediazione della vendita dello stupefacente. Non v’è dubbio che tale attività di intermediazione comporti un contributo causale alla realizzazione del programma criminoso dell’associazione.

Alla luce degli elementi di prova presi in considerazione dai giudici di merito, deve escludersi, nella fattispecie, l’ipotesi attenuata, vale a dire che l’associazione in questione sia stata costituita per commettere i fatti descritti dall’art. 73, comma 5. La relativa censura sollevata con i motivi d’appello è stata implicitamente ma chiaramente respinta dalla Corte territoriale, laddove – esaminando la posizione di S.M. – la Corte, richiamando una comunicazione intercettata, laddove costui affermava di avere a disposizione mezzo chilo di stupefacente da distribuire a 50 persone, osserva che da tale comunicazione emerge la prova che l’associazione trattava ingenti quantitativi di droga.

E’ fondato, invece, il quarto motivo di ricorso in punto di revoca della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero.

La questione è stata compiutamente esaminata da questa Corte, Sez. 3, con la sentenza n. 18527 del 03/02/2010 Ud. (dep. 17/05/2010), Rv.

246974, del le cui conclusioni sono condivise da questo Collegio. Si richiama al riguardo la motivazione con la quale la Corte ha osservato quanto segue.

"La sentenza impugnata è (..) in primo luogo, priva di motivazione in ordine al rispetto della norma contenuta nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, (TU delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

Tale norma, al comma 2, lett. c), prevede espressamente che non è consentita l’espulsione, salvo che nei casi previsti dall’art. 13 comma 1, – (disposizione che disciplina l’espulsione per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato dal Ministro dell’Interno),- " degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana". La norma, secondo il Collegio, si applica a tutte le espulsioni giudiziali e, quindi, anche all’espulsione prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86 (TU sugli stupefacenti), disposizione che prevede l’espulsione dallo Stato, a pena espiata, dello straniero condannato per uno dei reati previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73, 74 e 79 e art. 82, commi 2 e 3.

A sostegno di tale conclusione militano due fondamentali argomenti:

A) In primo luogo il testo letterale dell’art. 19 cit., – avente come rubrica "divieti di espulsione e di respingimento", inquadrato a sua volta nel capo 3 "disposizioni di carattere umanitario" del titolo 2 del suindicato decreto legislativo, avente a oggetto "disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato", – anche nel testo modificato dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, art. 1, comma 22, lett. p), esclude espressamente dal divieto di espulsione soltanto i casi previsti dall’art. 13, comma 1. L’art. 13, al comma 1, prevede che "per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il Ministro dell’interno può disporre l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli affari esteri".

Trattasi quindi di ipotesi estreme, in cui è messo in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato e in cui il potere di espulsione è attribuito esclusivamente al Ministro dell’Interno. Il divieto di espulsione di cui all’art. 19, in base ad una interpretazione letterale della norma, comprende quindi tutti i casi di espulsione giudiziale.

Deve inoltre rilevarsi, sotto il profilo logico sistematico, stante l’ampia formulazione della norma contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, successivo al TU sugli stupefacenti, che, qualora il legislatore avesse voluto escludere dal divieto di espulsione i casi disciplinati dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86, avrebbe dovuto espressamente indicare tale eccezione nel testo della norma. Non è quindi condivisibile l’indirizzo minoritario di questa Corte, (vedi Cass. pen. sez. 4 sent. 4 febbraio 2004, n. 26938), in ordine alla prevalenza dell’espulsione sul diritto alla salvaguardia dell’unità familiare, sentenza che peraltro non si riferisce specificamente al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 e non tiene conto dell’interpretazione data dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 376 del 2000, di cui si farà cenno nel prosieguo della motivazione, al divieto di espulsione di cui al citato articolo.

B) Una diversa interpretazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 sarebbe, del resto, contraria al principio di diritto sancito dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, (cui è stata data esecuzione in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848), secondo cui:

"1) Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.

2) Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale o la protezione dei diritti e delle libertà altrui".

Nella valutazione comparativa dei contrapposti interessi lo Stato, in adesione all’obbligo sancito nell’art. 1 della CEDU; deve quindi rispettare i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo definiti nel titolo primo della Convenzione, tra i quali è appunto compreso anche il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8.

In proposito la Corte di Strasburgo, nella sentenza El Boujaidi c. Francia, 26 settembre 1997, ha precisato che spetta agli Stati contraenti assicurare l’ordine pubblico, in particolare nell’esercizio del loro diritto di controllare l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri, per cui, a questo titolo, essi hanno diritto di espellere coloro, tra questi, che delinquono. Tuttavia, le loro decisioni in materia, in quanto possono incidere su un diritto protetto dall’art. 8 della CEDU, devono essere "necessarie in una società democratica", cioè giustificate da un "bisogno sociale imperioso" e, principalmente, proporzionate allo scopo che esse si prefiggono. Di conseguenza, ha rilevato la Corte Europea, la misura dell’espulsione deve rispettare un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco: da una parte il diritto dello straniero al rispetto della sua vita privata e familiare, e, dall’altra, la protezione dell’ordine pubblico e la prevenzione dei reati. Nella sentenza 2 agosto 2001, Boultif c. Svizzera la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato inoltre che l’espulsione di una persona dal paese in cui vivono i congiunti può rappresentare un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita familiare come tutelato dall’art. 8, par. 1 della Convenzione. Una simile ingerenza viola la Convenzione a meno che non corrisponda ai requisiti di cui al par. 2 dello stesso articolo e, dunque, a meno che essa non sia "prevista dalla legge", dettata da uno o più scopi legittimi, (ai sensi della disposizione citata), "necessaria in una società democratica" e, infine, proporzionata al fine legittimo perseguito.

Lo stesso principio è stato affermato anche nella sentenza 30 giugno 2005, Bove c. Italia, nella sentenza 17 gennaio 2006, Aoulmi c. Francia, nella sentenza C.G. e altri c. Bulgaria del 24 aprile 2008, nella sentenza 7 aprile 2009, Cherif et autres c. Italia e, più recentemente, nella sentenza 12 gennaio 2010 Khan A.W c. Regno Unito.

Le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tratteggiano la famiglia come organismo che presuppone lo sviluppo della personalità dei suoi componenti sulla base dei principi di pari dignità, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà. Da tale configurazione discendono una serie di corollari, quali la tutela dei figli per se stessi e la pari dignità dei figli naturali rispetto ai figli legittimi.

Nella sentenza Todorova c. Italia del 13 gennaio 2009 la Corte Europea ha rammentato che il concetto di famiglia sul quale si fonda l’art. 8 della Convenzione include il legame tra un individuo e suo figlio, sia questi legittimo o naturale, che l’esistenza o l’assenza di una vita familiare è innanzitutto una questione di fatto dipendente dalla realtà pratica di legami personali stretti" e che, "garantendo il diritto al rispetto della vita familiare, l’art. 8 presuppone l’esistenza di una famiglia".

Il diritto al rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, è, del resto, costituzionalmente garantito nel nostro ordinamento, atteso che la Costituzione, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e negli artt. 29, 30 e 31 riconosce espressamente i diritti della famiglia, dei genitori e dei figli.

Nella sentenza n. 376 del 27 luglio 2000 la Corte Costituzionale ha rilevato che nel nostro ordinamento vige un principio di "speciale protezione alla famiglia in generale ed ai figli minori in particolare, che hanno il diritto di essere educati all’interno del nucleo familiare per conseguire un idoneo sviluppo della loro personalità, una protezione che non può non ritenersi estesa anche agli stranieri che si trovino a qualunque titolo sul territorio dello Stato" perchè "il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sè e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita in comune nel segno dell’unità della famiglia, sono diritti fondamentali della persona che spettano in via di principio anche agli stranieri". In proposito la Corte Costituzionale ha precisato che "i principi di protezione dell’unità familiare, con specifico riguardo alla posizione assunta nel nucleo dai figli minori, in relazione alla comune responsabilità educativa di entrambi i genitori, non trovano riconoscimento solo nella nostra Costituzione ma sono affermati anche da alcune disposizioni di trattati internazionali ratificati dall’Italia".

Oltre agli artt. 8 e 12 della CEDU sono infatti posti a tutela dell’integrità della famiglia e della protezione dei minori l’art. 10 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali aperto alla firma a New York il 16 dicembre 1966, e gli artt. 23 e 24 del Patto internazionale relativo ai diritti civili politici aperto alla firma il 19 dicembre 1966, trattati resi esecutivi in Italia dalla L. 25 ottobre 1977, n. 881.

Nell’art. 10 del primo Trattato si afferma che "la protezione e l’assistenza più ampia che sia possibile devono essere accordate alla famiglia, che è il nucleo naturale e fondamentale della società, in particolare per la sua costituzione e fin quando essa abbia la responsabilità del mantenimento e dell’educazione di figli a suo carico".

L’art. 23 del secondo Trattato al primo comma recita: "la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato"; l’art. 24 statuisce che "ogni fanciullo, senza discriminazione alcuna fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica o la nascita, ha diritto a quelle misure protettive che richiede il suo stato minorile da parte della sua famiglia, della società e dello Stato". Tutelano l’integrità della famiglia, con specifico riferimento alla salvaguardia dei figli minori, anche gli artt. 3, 9 e 10 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva dalla L. 27 maggio 1991, n. 176.

In particolare l’art. 3, al comma 2, prevede che "gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere in considerazione dei diritti e dei doveri dei genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la responsabilità legale e, a tal fine, adottano tutti i provvedimenti legislativo e amministrativi appropriati".

Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000, recepita dal Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1 dicembre 2009, all’art. 7 (che corrisponde sostanzialmente all’art. 8 CEDU) e all’art. 9 tutela specificamente la famiglia e all’art. 24 i bambini.

La Corte Costituzionale, nella citata sentenza n. 376 del 2000, ha rilevato che dal complesso delle disposizioni contenute nelle citate convenzioni internazionali, pur nella varietà delle loro formulazioni, emerge un principio, pienamente rinvenibile negli artt. 29 e 30 Cost., in base al quale alla famiglia deve essere riconosciuta la più ampia protezione ed assistenza, in particolare nel momento della sua formazione ed in vista della responsabilità che entrambi i genitori hanno per il mantenimento e l’educazione dei figli minori" ed ha precisato che "tale assistenza e protezione non può non prescindere dalla condizione, di cittadini o di stranieri dei genitori, trattandosi di diritti umani fondamentali, cui può derogarsi solo in presenza di specifiche e motivate esigenze volte alla tutela delle stesse regole della convivenza democratica". La tutela della famiglia, con specifico riferimento alla protezione dei minori, deve quindi ritenersi un principio universalmente riconosciuto nella Comunità Internazionale e in tutti gli organismi internazionali ai quali lo Stato Italiano appartiene e ai quali ha dato storicamente un rilevante contributo. Giova ricordare in proposito che la preminenza dell’interesse del minore ad ottenere la permanenza nel territorio dello Stato del proprio genitore, anche in deroga alle stesse norme sull’immigrazione, è stata affermata dalla Cassazione Civile a Sezioni Unite nella sentenza 16 ottobre 2006, n. 22216. Considerato che in caso di conflitto tra interessi, tutti degni di garanzia a livello costituzionale, la scelta di quello da privilegiare o da sacrificare deve avvenire secondo la precisa gerarchia dei valori dettata dalla Costituzione, il Collegio rileva che l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, offre la chiave di lettura della tutela che la Costituzione stessa offre alla famiglia attraverso gli artt. 29, 30 e 31. Inoltre, poichè i principi affermati nell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sono conformi agli artt. 2, 29, 30 e 31 Cost. non si pone neppure alcun problema di conflitto del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, interpretato alla luce dell’art. 8 della CEDU, con la Costituzione, con riferimento alle problematiche risolte dalla Corte Costituzionale nelle note sentenze n. 348 e 349 del 2007 relative alla posizione nella gerarchia delle fonti della normativa CEDU. Come ha infatti precisato la Corte Costituzionale nella più recente sentenza n. 239 del 2009 "al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale entro i limiti nei quali ciò è permesso dal testo delle norme", e solo qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale, egli deve investire la Corte Costituzionale delle relative questioni di legittimità rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1 (vedi anche in tal senso Corte Cost. 317 del 2009).

Del resto, per quel che attiene specificamente alla norma contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86, anche prima della legge sull’immigrazione del 1998, con la sentenza del 12 maggio 1993, n. 2194, Medrano, la prima sezione penale di questa Corte aveva affermato che "quando uno straniero possiede una famiglia in un paese determinato, l’esecuzione della misura di espulsione costituisce una ingerenza dell’autorità pubblica nell’esercizio del diritto al rispetto della vita familiare, quale garantito al paragrafo 1 dell’art. 8 della CEDU, sicchè, per ritenere giustificata la violazione di tale diritto, la misura di espulsione deve risultare necessaria in una società democratica".

Alla luce di quanto esposto deve quindi ritenersi sicuramente applicabile il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 anche all’ordine di espulsione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86".

In accoglimento del motivo va quindi annullata la sentenza impugnata limitatamente all’ordine di espulsione a carico di T.T. B.S., con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma che, nel nuovo esame, dovrà valutare se l’espulsione dell’imputato sia consentita ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. c), in relazione alla situazione familiare del prevenuto.

In tale indagine, da eseguirsi alla luce del disposto contenuto nell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, (vedi per tutte Marckx c. Belgio 13 giugno 1979; Keegan e Manda, 26 maggio 1994; Johnston c. Manda, 13 giugno 1979 e; El Boujadi c. Italia, 26 settembre 1997; Boultif c. Suisse, 2 agosto 2001; Bove c. Italia 30 giugno 2005; Aoulmi c. Francia, 17 gennaio 2006; C.G. e altri c. Bulgaria; Todorova c. Italia, 13 gennaio 2009 e A.W. Khan c. Regno Unito, 12 gennaio 2010), in cui si fa riferimento ai limiti del potere pubblico all’ingerenza sulla vita familiare delle persone, al rispetto e alla tutela della vita privata e familiare nella prospettiva del diritto dei figli minori ad uno sviluppo sano e sereno, la Corte Territoriale dovrà tener presente anche il principio di diritto affermato da questa Corte, (vedi per tutte Cass. pen. sez. 1, sent. 27 maggio 2009, 26753, rv 244715), secondo cui "lo stato di convivenza con il coniuge di nazionalità italiana impedisce l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero, se detta condizione sussiste al momento della decisione, non richiedendosi invece che sia presente già alla data di commissione del fatto reato".

La Corte di merito dovrà in proposito accertare che trattasi di effettiva convivenza con il coniuge e/o con i figli minori di nazionalità italiana, – che rientrano sicuramente tra i parenti entro il secondo grado di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. c) (vedi in tal senso Cass. 13 febbraio 2006, n. 3019) – atteso che, come ha precisato la Cassazione Civile nella sentenza 3 novembre 2006, n. 23598, "in tema di disciplina dell’immigrazione, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 e art. 30, comma 1 bis, il matrimonio con un cittadino italiano, in tanto conferisce allo straniero il diritto al soggiorno in Italia, sia ai fini del rilascio del relativo permesso che ai fini del divieto di espulsione, in quanto ad esso faccia riscontro l’effettiva convivenza che deve essere provata dal soggetto destinatario della misura (vedi per tutte Cass. civ. sez. 1, sent. 8 febbraio 2005, n. 2539 e Cass. civ. sez. 1, sent. 3 novembre 2006, n, 23598).

Qualora, all’esito dell’esame, tale espulsione non dovesse risultare vietata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, la Corte Territoriale dovrà accertare, in concreto, la pericolosità del condannato e darne adeguata motivazione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 58 del 1995, ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86 nella parte in cui obbligava il giudice ad emettere, senza l’accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale contestualmente alla condanna, l’ordine di espulsione eseguibile, a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73, 74 e 79 e art. 82, commi 2 e 3 e, conseguentemente, questa Corte, (vedi per tutte Cass. pen. sez. 4 sent. 25 ottobre 2007, n. 46759, rv 238359), ha affermato che prima di applicare la misura dell’espulsione di cui al citato art. 86 il giudice deve verificare, nella specie, la sussistenza della pericolosità del condannato e dame adeguata motivazione.

M.A.B.Y.:

I motivi di ricorso dedotti da M.A.B.Y. sono analoghi ai primi tre motivi di ricorso sollevati dal T. e risultano infondati per gli stessi motivi già sviluppati trattando la posizione di quest’ultimo. In particolare per quanto riguarda l’interpretazione degli elementi di prova a carico di M., le obiezioni del ricorrente puntano ad ottenere una diversa lettura delle emergenze processuali a suo carico e quindi si risolvono in delle censure in fatto inammissibili in questa sede, non essendo concepibile un intervento di questa Corte in sovrapposizione argomentativa rispetto alle conclusioni legittimamente assunte dai giudici di merito.

C.S.:

Per quanto riguarda il primo motivo, in punto di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, lo stesso è inammissibile perchè manca in esso ogni correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione.

I motivi di ricorso sono sostanzialmente coincidenti con i motivi di appello e non una parola e spesa per confutare le argomentazioni del giudice di appello che ha – con dettagliata motivazione – rigettato tali motivi.

Infatti le obiezioni del ricorrente, riproducono l’analoga censura già sollevata in primo grado e con i motivi d’appello, alla quale i giudici di merito hanno compiutamente risposto, osservando che il primo decreto che autorizzava le intercettazioni risultava ampiamente motivato, facendo riferimento al servizio di osservazione effettuato dalla PG nei confronti di P. e B., che ha dato luogo ad una specifica contestazione. Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, il fatto che nessuna argomentazione sia svolta nel ricorso, in ordine alle valutazioni espresse dal giudice di appello sui vari motivi, determina l’inammissibilità del motivo. Gli altri due motivi di ricorso, in punto di sussistenza dei requisiti dell’associazione, sono analoghi a quelli dedotti da M.A.B. Y. (e da T.T.B.S.). Tali motivi sono infondati e devono essere respinti per quanto già osservato sopra.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, gli imputati che lo hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè -ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00) per S.M. ed in Euro 500,00 (cinquecento) per G.S..

Il rigetto dei ricorsi di M.A.B.Y. e di C. S. ne comporta la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di T.T.B. S., limitatamente all’ordine di espulsione dello stesso e rinvia ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma per nuovo giudizio sul punto, rigetta nel resto il ricorso;

Dichiara inammissibile il ricorso proposto da G.S. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro cinquecento alla Cassa delle ammende;

Dichiara inammissibile il ricorso proposto da S.M. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende;

Rigetta i ricorsi di M.A.B.Y. e di C.S. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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