Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 15-12-2010) 01-02-2011, n. 3572 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 1.3.2010 la Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Taranto in data 11.3.2009 all’esito del giudizio abbreviato, riduceva la pena inflitta a I.M. (che aveva rinunciato ai motivi d’appello concernenti la responsabilità), per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (detenzione al fine di spaccio gr. 580 circa di hashish), escludendo la recidiva generica e specifica reiterata infraquinquennale, ad anni quattro di reclusione ed Euro 18.000,00 di multa. Avverso tale sentenza ricorrono in appello il Procuratore generale presso la suddetta Corte e l’imputato, personalmente.

La Parte pubblica denunzia la violazione dell’art. 99 c.p. in relazione all’esclusione della recidiva nonchè la mancanza e/o la manifesta illogicità della motivazione.

In particolare, deduce l’omessa valutazione, ai fini della disapplicazione della recidiva, della natura dei precedenti penali, del tempo della loro commissione e dei parameri indicati dall’art. 133 c.p., contestando la congruità della motivazione addotta dalla Corte ("in considerazione della natura della sostanza stupefacente in sequestro e dei non particolarmente allarmanti precedenti penali del prevenuto") che taccia di vuoto assoluto.

L’imputato, invece, prospettando il vizio di violazione di legge, si duole del fatto che la Corte avrebbe dovuto ulteriormente ridurre l’entità della pena, tenendo conto delle circostanze del fatto e della sua tossicodipendenza a causa della quale si era sottoposto a terapia riabilitativa.
Motivi della decisione

I ricorsi sono inammissibili.

Non essendo stata contestata l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, l’aumento di pena per la recidiva non è obbligatorio.

Infatti anche a seguito della riforma dell’art. 99 per effetto della L. 5 dicembre 2005, n. 251, l’aumento di pena per effetto della recidiva (facoltativo in modo pacifico nel sistema precedente: Cass. pen. Rv. 178347; 176963; 176079) è rimasto discrezionale in tutti i casi descritti dall’art. 99 c.p., salvo quello del comma 5.

Tanto si desume dall’uso del verbo "può" con il quale si definisce la facoltà di aumento di pena rimessa al giudice nei casi dell’art. 99 c.p., comma 1 e 2, e, per quanto concerne il comma che qui interessa, il 4, dalla lettura di esso necessariamente integrata con i commi che precedono.

Tale norma, infatti, gradua l’aumento di pena riferibile al recidivo reiterato a seconda che il nuovo delitto non colposo sia commesso da un recidivo semplice, richiamando il comma 1, o da un recidivo specifico o infraquinquennale (più altri casi), richiamando il comma 2. E’ logico dunque supporre che la strutturazione dei precetti contenuti nei commi richiamati si ripercuota sul comma che li richiama. Nel far ciò, il legislatore ha imposto una sola esplicita differenza rispetto ai commi che precedono: ha voluto cioè rendere fissa l’entità degli aumenti di pena ("l’aumento.. è.." della metà nel primo caso e "..è.."dei due terzi nel secondo), ma tale limitazione della discrezionalità del giudice sul "quantum" non si è estesa all’"an", ossia alla valutazione sul se applicare o meno tale aumento.

La decisione su tale punto, proprio per il rinvio al criterio indicato nei commi richiamati, resta discrezionale come si deduce anche dal rilievo che, dove ha voluto manifestare una volontà diversa, il legislatore lo ha fatto espressamente: è quanto accaduto nella formulazione del comma 5, relativo alla recidiva reiterata determinata dalla commissione di uno dei gravi delitti indicati all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), in relazione alla quale il precetto recita:" l’aumento…è obbligatorio..". E di tale specificazione certo non vi sarebbe stato bisogno alcuno se anche l’aumento indicato nei casi del comma 4 fosse stato obbligatorio. In conclusione, deve ritenersi che tale comma prevede che anche a fronte di contestazione di recidiva reiterata il giudice debba valutare, nella sua discrezionalità, se procedere o meno all’aumento di pena, solo attenendosi al precetto per cui se decide in tale senso, l’entità del aumento è predeterminato in misura fissa. Ne consegue che, come del resto già ritenuto da buona parte della giurisprudenza formatasi nella vigenza del precedente sistema, mentre il giudice potrebbe decidere, anche senza fornire motivazione, di non applicare l’aumento di pena, viceversa, attesa la assenza di discrezionalità sul riconoscimento della sussistenza della qualità di recidivo, incorre quantomeno nel vizio di motivazione se non argomenta le ragioni per le quali ritiene che esso, non ricorra (rv 161468;

143580). (Sez. 5, n. 40446 del 25.9.2007 Rv. 237273).

Infatti: "L’applicazione dell’aumento di pena per effetto della recidiva rientra – fatti salvi i casi di operatività obbligatoria di cui all’art. 99 c.p., comma 5, – nell’esercizio dei poteri discrezionali del giudice e richiede adeguata motivazione, in particolare, con riguardo alla nuova azione costituente reato e alla sua idoneità a manifestare una maggiore capacità a delinquere che giustifichi l’aumento di pena" (Sez. 5, n. 46452 del 21.10.2008 Rv.

242601).

Insomma, la recidiva, operando come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio, ma può non essere ritenuta configurabile dal giudice, a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’art. 99 c.p., comma 5, nel qual caso va anche obbligatoriamente applicata.

(Nell’enunciare tale principio, la Corte ha precisato che, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi dell’art. 99 c.p., è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali). V. Corte cost, 14 giugno 2007 n. 192; 14 giugno 2007 n. 198;

30 novembre 2007 n. 409; 21 febbraio 2008 n. 33; 4 aprile 2008 n. 90;

4 aprile 2008 n. 91; 6 giugno 2008 n. 193; 10 luglio 2008 n. 257; 29 maggio 2009 n. 171. (Sez. Un., n. 35738 del 27.5.2010, Rv. 247838).

In altri termini e conclusivamente, una motivazione è indispensabile laddove venga riconosciuta in concreto dal Giudice la contestata recidiva ed applicato il relativo aumento nella misura prevista per legge. Ma qualora, invece, pur implicitamente riconoscendo la correttezza della contestazione della recidiva, il Giudice non ritenga di operare l’aumento previsto, non deve addurre una motivazione circa l’insussistenza dei presupposti sopra indicati e, laddove, come nel caso di specie, ritenga di non condividere l’avviso del primo giudice al riguardo (ove questi abbia addotto una adeguata motivazione sul punto) è tenuto solo ad indicare quegli elementi che consentono, a suo insindacabile avviso, di escludere quella pericolosità del soggetto tale da giustificare il detto aumento.

Tale minimo adempimento motivazionale si deve riconoscere nel caso di specie, laddove sono stati richiamati sia la natura della sostanza stupefacente in sequestro (trattasi di hashish, decisamente meno costoso e meno dannoso di altre sostanze, quali eroina e cocaina) e dei non particolarmente allarmanti precedenti penali del prevenuto (che non sono stati esclusi, ma ricondotti ad una valenza non incisiva sulla valutazione della complessiva personalità dell’imputato). Altrettanto vale circa la censura mossa dall’imputato laddove si pretende, in sostanza, che in questa sede si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito ha esercitato il potere discrezionale a lui concesso dall’ordinamento ai fini della commisurazione della pena.

L’esercizio di detto potere deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.

Le generiche censure del ricorrente in ordine a pretese carenze motivazionali della sentenza impugnata risultano, pertanto, manifestamente infondate, tanto più se si considera che la pena irrogata è comunque pari al minimo edittale.

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente I.M. al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, della ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 186 del 7 – 13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi; condanna il ricorrente I. M. al pagamento delle spese processuali nonchè di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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