Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 12-10-2010) 01-02-2011, n. 3578

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

C.S. e B.S., tramite i rispettivi difensori ricorrono per Cassazione avverso la sentenza 26.2.2009 con la quale la Corte d’Appello di Roma li ha condannati rispettivamente:

C.S. alla pena di anni uno, mesi quattro e 300,00 Euro di multa e B.S. a quella di anni uno, mesi sei di reclusione e 400,00 Euro di multa, siccome responsabili del delitto di cui agli artt. 110 e 643 c.p., perchè, in concorso fra loro, facendo credere a Be.Ro. che con riti magici si liberava da malesseri e pericoli nonchè, comunque esponendole le sue esigenze di vario tipo, si facevano dare dalla stessa la somma totale di L. 60.000.000 e un braccialetto d’oro di valore imprecisato.

Le difese degli imputati richiedono l’annullamento della sentenza impugnata lamentando:

C.S.:

1) Vizio di carenza di motivazione e violazione dell’art. 125 c.p.p., perchè la motivazione della sentenza sarebbe solo apparente, non avendo la Corte d’Appello risposte alle censure mosse con l’atto di gravame.

2) Violazione di legge, perchè la decisione di primo grado sarebbe stata pronunciata da un giudice diverso da quello che aveva svolto la attività istruttoria dibattimentale.

3) Vizio per erronea applicazione dell’art. 643 c.p. e vizio di motivazione, perchè mancherebbe la prova della condizione di infermità di mente della parte offesa, quale presupposto indefettibile del delitto di circonvenzione di incapace.

4) vizio di motivazione essendo carente la prova del concorso di persone nel reato con il B.S., con la conseguenza che il delitto ascritto al ricorrente sarebbe ricorrente sarebbe estinto per prescrizione essendo stato consumato alla data del (OMISSIS).

B.S.:

5) vizio di motivazione in ordine alla prova della condizione di infermità di mente della parte offesa, quale presupposto del delitto di cui all’art. 643 c.p. e della prova del compimento di atti di disposizione pregiudizievoli.

Esaminando partitamente i singoli punti della impugnazione il collegio osserva quanto segue.

Ricorso C..

1) La difesa lamenta che la Corte territoriale ha trasfuso nella propria decisione, in modo integrale, quella di primo grado, trascurando completamente le doglianze provenienti dalla parte appellante, così violando il disposto di cui all’art. 125 c.p.p..

La censura è formulata in modo inammissibile, perchè, il ricorrente, non rispettando la regola prevista dall’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), non indica, neppure sommariamente, in modo preciso quali siano state le doglianze già proposte con l’atto di appello e non esaminate dal giudice di merito, nè indica in quali parti la motivazione della sentenza (che si articola in diciannove pagine) siano connotata da mera apparenza.

2) la seconda doglianza, espressa in modo implicito, nell’ambito dell’esposizione del primo motivo di ricorso, presenta caratteri di genericità, poichè, anche in questo caso non appare chiaro se la circostanza "… l’intera istruttoria dibattimentale di primo grado è stata condotta da un giudice, persona fisica, diverso da quello che ha assunto la decisione" (v. ricorso difesa C.) abbia costituito un motivo di gravame autonomo, disatteso dal giudice dell’appello, o se, nella presente sede, sia una mera considerazione narrativa della vicenda processuale, con funzione di critica generica rivolta al giudice dell’appello, priva di qualsivoglia efficacia giuridica; va osservato quanto lamentato dalla difesa è quanto mai evanescente, perchè non si comprende se sia stata violata la disposizione dell’art. 525 c.p.p., dovendosi qui ribadire che: "Non sussiste la nullità della sentenza qualora le prove acquisite da un collegio siano valutate da un collegio in composizione diversa qualora le parti presenti non si siano opposte alla lettura degli atti del fascicolo dibattimentale precedentemente assunti e non abbiano esplicitamente richiesto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in quanto, in tal caso, si deve intendere che esse abbiano prestato consenso, sia pure implicitamente, alla lettura degli atti suddetti. (Cass. pen., sez. 5, 16.5.2008, n. 35975 in Ced Cass., rv. 241583). Il motivo deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

3) con il terzo motivo di ricorso la difesa lamenta la mancanza degli elementi costitutivi della fattispecie contestata ( art. 643 c.p.) sotto un doppio e diverso profilo: erronea applicazione dell’art. 643 c.p. (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)) e vizio di motivazione (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)).

La difesa afferma che la Corte territoriale ha fondato l’affermazione della condizione di incapacità psichica della parte offesa sulla base della sua cartella clinica e delle sue dichiarazioni testimonali, trascurando l’analisi e la rilevanza "…di elementi di segno opposto pur riportati in sede di motivazione, che avrebbero dovuto portare quantomeno ad una riqualificazione del reato contestato".

Osserva ancora la difesa, che: 1) la parte offesa si sarebbe rivolta liberamente e autonomamente all’imputato (svolgente la attività di "mago" sotto lo pseudonimo "(OMISSIS)") ritenendolo il soggetto idoneo a risolvere i suoi problemi; 2) il prevenuto si è limitato a richiedere un compenso per la attività "taumaturgica" senza svolgere alcun atto di induzione nei confronti della donna; 3) la documentazione non consente di affermare in modo certo che la BE., nel momento in cui si è rivolta all’imputato, versasse, seppure in modo temporaneo, in condizioni di incapacità di intendere o di volere. La difesa ricorrente ripropone in questa sede la medesima doglianza già formulata con l’atto di appello (v. pag. 6 della decisione impugnata), per la quale la Corte territoriale ha dato risposta esaustiva, motivando in modo compiuto in ordine ad ognuno dei singoli elementi costitutivi della fattispecie contestata.

In relazione alla condizione psichica della parte offesa, in particolare, la Corte d’Appello ha indicato i seguenti elementi di prova, sulla cui base ha fondato il proprio giudizio: a) contenuto della cartella clinica, nella quale, al momento del ricovero della BE. (presso l’Ospedale psichiatrico (OMISSIS)) nel novembre del 1999, è riportata la diagnosi di "schizofrenia paranoidea"; b) dichiarazioni testimoniali della BE.Ma.

(sorella della parte offesa), dalle quali si desume che la sorella RO. era da tempo affetta da problemi psichiatrici ed in cura presso uno specialista; c) lunga durata del rapporto intercorso tra la parte offesa e gli imputati C. e B. ed l’entità delle somme loro elargite (complessivi L. 60 milioni).

La censura formulata dalla difesa da correlarsi al contenuto della motivazione della sentenza impugnata, appare generica e non conforme al dettato dell’art. 581, comma 1, lett. c), perchè non pone in evidenza i punti "critici" della decisione; il costrutto difensivo, per contro, propone una propria, autonoma e diversa valutazione del materiale probatorio così finendo con lo introdurre mere considerazioni di fatto che non possono essere prese in considerazione in questa sede.

D’altro canto, la motivazione decisione della Corte d’appello oltre a non essere frutto di travisamento delle prove (vizio peraltro neppure prospettato dalla difesa), non evidenzia manifeste illogicità in punto "prova" della "deficienza psichica" della parte offesa.

Premesso che, come già sostenuto in precedenti pronunce, "lo nozione di deficienza psichica utilizzata dalla disposizione incriminatrice della circonvenzione di incapace comprende qualsiasi minorazione della sfera volitiva e intellettiva, che renda facile la suggestionalità della vittima e ne diminuisca i poteri di difesa contro le insidie altrui (Cass. pen., sez. 2, 23.1.2009, n. 17415 in Ced Cass., rv. 244343), si deve ritenere non manifestamente illogica la deduzione della Corte Territoriale circa le condizioni mentali della BE.Ro., essendo provato che, già prima di incontrare gli odierni imputati, la donna aveva problemi psichiatrici (tanto da essere ricoverata con la diagnosi di schizofrenia paranoidea nel novembre del 1999) e che, successivamente alle sue dimissioni dal luogo di ricovero, ella era in cura presso un medico psichiatrica, il quale, ad un certo punto, ritenne doveroso avvisare la sorella della sua paziente di fatti per i quali è l’odierno processo.

Parimenti, non appare manifestamente illogico il giudizio debolezza psichica della parte offesa fondato sulla natura e la rilevanza economica degli atti di disposizione patrimoniale compiuti dalla BE.Ro..

Risulta provato che la parte offesa avrebbe consegnato agli imputati, in diverse occasioni la complessiva somma di L. 60.000.000 (versamento di somme di L. 3.000.000, nel novembre del 1999, per il compimento di ognuno dei "rituali di purificazione", consegna di un braccialetto in oro – poi non restituito – consegna della somma di L. 7.000.000 nel gennaio del 2000 e consegne di ulteriori cospicue somme in epoche successive). E’ corretto, sul piano della logica comune ritenere, come ha fatto la Corte territoriale, che l’atto di disposizione patrimoniale compiuto dalla donna è in sè, pregiudizievole e dimostrativo di una condizione di debolezza psichica di chi lo compie per avere agito a seguito di "induzione" provata dalla prospettazione, per esempio, delle esistenza di "fatture" e minacce di morte (consistenti nel rinvenimento nella propria cassetta postale della vittima del reato, "fettine di carne intrecciate fra loro, legate con un nastro ed infilzate da spilli" o per il compimento di "riti magici" quali quelli descritti in sentenza). Nè vale ad inficiare la bontà del giudizio della Corte di merito, il fatto che la BE.Ro., abbia manifestato iniziali perplessità nel pagare rilevanti somme di denaro, nel momento in cui i suddetti dubbi risultano essere stati superati proprio attraverso l’opera di convincimento svolta dal C. (v. pag. 9 della sentenza impugnata). La difesa dell’imputato censura la decisione segnalando ancora che: 1) non esisterebbe prova certa che la BE.Ro. abbia consegnato all’imputato la complessiva somma di 60.000.000; 2) la BE.Ro. avrebbe frequentato, nello stesso torno di tempo, altri "maghi" ai quali ha consegnato pure rilevanti somme di denaro; 3) non si comprende perchè la azione penale non sia stata rivolta anche nei confronti di costoro.

La difesa, infine, giunge a prospettare che la BE.Ro. avrebbe denunciato il C. perchè questi si sarebbe rifiutato di intrecciare con lei una relazione sentimentale.

Le critiche formulate dalla difesa sono generiche e volte a prospettare una ricostruzione della vicenda alternativa rispetto a quanto accertato dalla Corte territoriale, che ha desunto la prova del versamento delle somme dalle dichiarazioni della parte offesa e dal confronto delle stesse con le risultanze emergenti dalla lettura degli estratti di conto corrente della BE..

La difesa, nella formulazione della propria doglianza avrebbe dovuto dare ben più concreta e puntuale indicazione delle ragioni per le quali il giudizio della Corte si appalesi carente, manifestamente illogico o contraddittorio.

Infatti, appare in sè del tutto irrilevante che, in epoca coeva ai fatti per i quali è processo, la BE., si sia recata anche presso altri "maghi", versando anche a costoro cospicue somme di denaro: ciò non vale ancora ad inficiare la prova dell’avvenuto versamento delle somme di denaro al C.; parimenti la considerazione che anche gli altri "maghi" sarebbero stati meritevoli di denuncia, è affermazione di mero effetto, che non modifica la valenza del quadro probatorio a carico dell’imputato. L’indicazione infine che le ragioni della denuncia sarebbero da ricercarsi nella delusione della BE. per la mancata realizzazione di una relazione sentimentale è considerazione di fatto non suscettibile di attenzione nella presente sede a fronte dei dati di riscontro oggettivi dei fatti oggetto di imputazione ed indicati dalla Corte d’Appello.

Per tali ragioni il terzo motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

4) Con il quarto motivo di ricorso la difesa del C. lamenta la violazione di legge e la carenza di motivazione in relazione alla prova dell’esistenza di un’attività criminosa in concorso con il B..

La difesa in particolare sostiene che le circostanze della condivisione dello studio fra gli odierni imputati e della loro comune conoscenza da parte della Be. non sarebbero elementi sufficientemente dimostrativi dell’esistenza di un’ipotesi di concorso nel reato ex art. 610 c.p., avendo la parte offesa frequentato i due imputati in momenti diversi e fra diacronici.

La doglianza è generica nel contenuto, si riferisce ad aspetti di mero fatto e non formula censure specifiche inerenti la motivazione della sentenza impugnata; la doglianza non deduce argomenti nuovi rispetto al contenuto dei motivi di appello, in ordine ai quali la Corte territoriale ha dato una risposta adeguata fondata su tre distinti elementi di fatto che vanno letti congiuntamente: a) gli imputati condividevano lo studio non solo in Roma ma anche in altre località della penisola; b) gli imputati si erano presentati alla BE. congiuntamente e con una ripartizione dei ruoli: il C. quale "(OMISSIS)" e il B. come suo assistente; c) il B. (su indicazione del C.) era intervenuto presso la BE. al fine di convincerla definitivamente a versare in favore del C. le somme da quest’ultimo richieste.

La valutazione complessiva dei tre elementi di fatto permette di ritenere con giudizio non manifestamente illogico (non sindacabile quindi nel merito) che B. e C. hanno operato in modo congiunto e coordinato in danno della BE.. La manifesta infondatezza della censura riferita alla prospettata assenza di prova della ipotesi di cui all’art. 110 c.p., rende superfluo ogni esame sull’invocata dichiarazione di estinzione del reato da ascriversi, in tesi della difesa, al solo C..

Passando quindi all’esame dei motivi di ricorso proposti dalla difesa dell’imputato B., il Collegio osserva ancora quanto segue.

5) Circa il denunciato vizio di motivazione in ordine all’affermata esistenza della condizione di infermità di mente della parte offesa, quale presupposto del delitto di cui all’art. 643 c.p., e della prova del compimento di atti di disposizione pregiudizievoli, si deve richiamare quanto già detto nell’ambito del 3 ove è stato trattato l’analogo motivo dedotto dalla difesa del C., dovendosi solo aggiungere quanto segue. La difesa del B. tende a ridimensionare, se non a ribaltare, l’efficacia probatoria della cartella clinica, perchè in essa si leggerebbe, che alla data 11- 14.12.1999 la "…paziente appare lucida ed orientata, tranquilla e collaborativa, non sono presenti elementi psicopatologici" ed, ancora: "non sono più presenti gli elementi deliranti-persecutori presenti all’inizio del ricovero".

Il richiamo del documento "cartella clinica" e la citazione di una parte dello stesso, disgiunta dalla valutazione degli altri elementi di fatto, come operato dalla Corte territoriale, non è sufficiente a far ritenere viziata da contraddittorietà la motivazione della sentenza.

Già il fatto stesso che la B. alla data del 14.12.1999 avesse superato lo stato di crisi acuta (connotata, al momento del ricovero dalla presenza di elementi deliranti-psesecutori), non vale ancora ad escludere, in modo automatico, che la parte offesa versasse ancora in condizioni di "deficienza psichica", così come ritenuto dalla Corte territoriale attraverso una complessiva valutazione (non sindacabile nel merito) di tutti gli elementi di prova a sua disposizione e ritenuti convergenti nella dimostrazione della esistenza di uno degli elementi costitutivi della fattispecie.

Parimenti non costituisce circostanza che si ponga in contraddizione con quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il fatto che tempo dopo l’inizio della vicenda, e l’erogazione di somme di denaro agli imputati, la BE. abbia ritenuto di esporre i fatti alla propria sorella e successivamente di denunciarli, circostanze queste, denotative secondo la difesa, di chiara percezione della realtà da parte della BE..

In vero, la difesa dimentica che la Corte territoriale, sulla base dell’attività di indagine probatoria dibattimentale svolta dal Tribunale, ha accertato che la parte offesa ha esposto la propria vicenda inizialmente al medico psichiatra che la aveva in cura (circostanza questa della persistenza di una condizione di malattia nella BE. anche successivamente alla fase del ricovero ospedaliero) e ad un sacerdote e solo dopo alla propria sorella, rivelando anche il proprio stato di paura nel denunciare i fatti. La dinamica complessiva della vicenda esaminata e descritta dalla Corte territoriale consente di affermare che la decisione di quest’ultima non evidenzia contraddittorietà che devono essere desumibili dalla lettura del provvedimento impugnato o fra questo e gli atti del processo che devono essere indicati in modo puntuale e specifico. La circostanza che la BE. sia riuscita a denunciare gli odierni imputati attraverso il sostegno e il supporto di altre persone, non vale, infatti ad escludere l’illiceità delle condotte antecedenti degli imputati e l’esistenza di uno stato di deficienza psichica nella parte offesa, di cui i prevenuti hanno approfittato nel corso di tutto il rapporto di frequentazione.

Il fatto che la BE. ad un certo punto della complessa vicenda, abbia sentito la necessità di confidarsi e di denunciare, successivamente i fatti, non è ancora di per sè sufficiente ad elidere la prova che in un periodo antecedente la stessa BE. versasse in condizioni di deficit psichico: la circostanza può al massimo permettere di inferire che la donna ha avuto, nel tempo un’evoluzione in senso migliorativo della propria malattia.

La critica svolta dalla difesa, pertanto, invece di porre in evidenza un reale vizio della motivazione, prospetta, nella sostanza, solo una diversa e parziale lettura del dato probatorio, con la conseguenza che la doglianza deve essere ritenuta inammissibile perchè deduce un tema processuale che, attenendo al merito, esula dai compiti della giurisdizione di legittimità.

Ad analoga conclusione si deve pervenire anche in relazione alle argomentazioni adottate dalla difesa del B. per affermare la mancanza di una prova certa circa il versamento della complessiva somma di L. 60.000.000. La doglianza, in particolare formulata nei termini che la Corte "… non si è preoccupata di motivare il perchè si potesse escludere che quei movimenti (desumibili dagli estratti del conto corrente della parte offesa ndr) di denaro non fossero destinati ad altri maghi,…." appare del tutto generica. La Corte territoriale ha fornito indicazione precisa degli elementi di prova sulla cui base ho fondato il proprio giudizio in relazione alla responsabilità degli imputati. La difesa infatti non ha fornito alcuna seria indicazione sul fatto che la lettura degli estratti di conto corrente e della documentazione bancaria, fatta dalla Corte territoriale, sia stata fatta con travisamento del dato probatorio.

Pertanto, la censura è generica e come tale inammissibile.

Per tutte le suddette considerazioni i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili e i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e ciascuno, ex art. 616 c.p.p., al pagamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende attesa la pretestuosità delle ragioni di impugnazione.

I ricorrenti devono essere altresì condannati alla rifusione delle spese sostenute, nel presente grado di giudizio, dalla parte civile BE.Ro. e che liquida nella complessiva somma di Euro 2.496,00 comprensiva della Cassa Avvocati e dell’Iva.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti ai pagamento delle spese processuali e ciascuno, ex art. 616 c.p.p., al pagamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute, nel presente giudizio, dalla parte civile BE.Ro. e che liquida in complessive Euro 2.496,00.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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