Cass. civ. Sez. V, Sent., 09-03-2011, n. 5566 Fatture

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 7/11/2002 la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla società Gruppo La Perla s.r.l, nei confronti della pronunzia della Commissione Tributaria Provinciale di Bologna di rigetto dell’opposizione spiegata in relazione ad avviso di rettifica emesso dall’Agenzia delle entrate Bologna (OMISSIS) a titolo di I.V.A. per l’anno d’imposta 1989 in relazione a mancato riconoscimento di esenzioni ed omesse fatturazioni, dichiarava non recuperabile a tassazione I.V.A. la somma di L. 90.656.000 relativa a prestazioni pagate ad agenti di commercio.

Avverso la suindicata sentenza del giudice dell’appello il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi.

Resiste con controricorso la società Gruppo La Perla s.r.l.

Già chiamata all’udienza del 26/10/2009, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della pronunzia delle Sezioni Unite in ordine alla questione se la sospensione dei termini d’impugnazione ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, operi o meno con riferimento ai giudizi proposti avverso gli avvisi di accertamento e di rettifica adottati per il recupero dell’I.V.A.
Motivi della decisione

Va preliminarmente osservato che Cass., Sez. Un., 17/2/2010, n. 3676 ha avuto modo di affermare che la L. n. 289 del 2002, art. 16 nella parte in cui prevede la definizione delle liti pendenti e le relative condizioni, nonchè la sospensione dei termini di impugnazione, non comporta una rinuncia dell’Amministrazione all’accertamento dell’imposta (già effettuato e contestato nella sua legittimità), bensì la definizione di una lite in corso con il contribuente, in funzione della riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri rapportati allo stato della lite al momento della domanda di definizione, garantendo la riscossione di un credito tributario incerto, sulla base di un trattamento paritario tra i contribuenti, sicchè nella parte in cui si riferisce alle controversie in materia di IVA esso non può essere disapplicato per contrasto con la 6^ direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, neppure a seguito della sentenza della Corte di Giustizia CE del 17 luglio 2008, in causa C-132/06, con la quale, in esito ad una procedura di infrazione promossa dalla Commissione Europea, è stata dichiarata l’incompatibilità con il diritto comunitario (in particolare con gli artt. 2 e 22 della 6^ direttiva cit.) degli artt. 8 e 9 della medesima legge, nella parte in cui prevedono la condonabilità dell’IVA alle condizioni ivi indicate, dovendo tale pronuncia essere interpretata restrittivamente.

Con il 1 motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamentano che erroneamente il giudice dell’appello ha respinto "l’eccezione di inammissibilità esposta … nelle proprie controdeduzioni all’appello", ritenendola "non essenziale".

Con il 2 motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. a), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono che il giudice dell’appello abbia erroneamente ritenuto applicabile nel caso del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 1, anzichè del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, pur trattandosi di pagamenti fatti a favore solo di alcuni agenti di rappresentanza, e pertanto di cessioni di denaro non direttamente collegate ad una prestazione di servizio.

Con il 3 motivo i ricorrenti denunziano insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamentano che "le argomentazioni prospettate dall’Ufficio sono state disattese dalla C.T.R. con motivazione insufficiente e contraddittoria".

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del "fatto", sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex artt. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dagli odierni ricorrenti.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come i medesimi facciano richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., alle "proprie controdeduzioni all’appello", alle "fatture emesse dagli agenti di rappresentanza", a "pagamenti fatti solamente a favore di alcuni agenti di rappresentanza, quindi a favore di persone ben individuate", alla "maggiori prestazioni") di cui lamentano la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua essi non pongono questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 172/1995, n. 1161).

Nè i ricorrenti, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed avere indicato il modo in cui il giudice li ha decisi, hanno espresso la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa deciso.

A fortiori a fronte del principio generale di raggiungimento dello scopo dell’atto ex art. 156 c.p.c., nonchè di quello in base al quale la notifica da parte del contribuente dell’impugnazione presso un ufficio della locale Agenzia delle Entrate non territorialmente competente, perchè diverso da quello che ha emesso l’atto impositivo, non comporta nè la nullità nè la decadenza dall’impugnazione, sia per il carattere unitario dell’Agenzia delle Entrate, sia per il principio di effettività della tutela giurisdizionale che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia per la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all’organo (e non alle singole articolazioni organizzative) che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (cfr. Cass., 3/7/2009, n. 15718), nonchè del principio per il quale si è da questa Corte, mutando il precedente orientamento (per il quale v. Cass., 13/12/2007, n. 26138, e già Cass., Sez. Un., 13/11/1997, n. 11217), avuto modo di affermare, in termini condivisibili e che meritano di essere confermati e ribaditi, che la presentazione di un’istanza di rimborso ad un organo diverso da quello territorialmente competente a provvedere costituisce atto idoneo non solo ad impedire la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso, ma anche a determinare la formazione del silenzio – rifiuto impugnabile dinanzi al giudice tributario, sia perchè l’ufficio non competente (quando non estraneo all’Amministrazione finanziaria e, nella specie, coincidente con una diversa Direzione regionale) è tenuto a trasmettere l’istanza all’ufficio competente, in conformità delle regole di collaborazione tra organi della stessa Amministrazione, sia alla luce dell’esigenza di una sollecita definizione dei diritti delle parti, ai sensi dell’art. 111 Cost. (v.

Cass., 27/2/2009, n. 4773. E già Cass., 8/8/1988, n. 4878).

Principio di cui si è invero sottolineato il carattere generale, nel ritenerlo applicabile in ipotesi di domanda giurisdizionale proposta al giudice incompetente, con salvezza dei relativi effetti sostanziali e processuali, quale regola di generale applicazione in argomento (v. Cass., 9/2/2010, n. 2810; Cass., 6/8/2009, n. 18015).

Nè, va per altro verso sottolineato, i ricorrenti denunziano al riguardo un vizio integrante error in procedendo, anche in relazione al quale il principio di autosufficienza va comunque osservato, dovendo specificamente indicarsi l’atto difensivo o il verbale di udienza nei quali le domande o le eccezioni sono state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. Cass., 31/1/2006, n. 2138; Cass., 27/1/2006, n. 1732; Cass., 4/4/2005, n. 6972; Cass., 23/1/2004, n. 1170; Cass., 16/4/2003, n. 6055).

E’ infatti al riguardo noto che, pur divenendo nell’ipotesi in cui vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo la Corte di legittimità giudice anche del fatto (processuale) ed abbia quindi il potere – dovere di procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali, preliminare ad ogni altra questione si prospetta invero quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diviene possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo, sicchè esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione la Corte di Cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (v. Cass., 23/1/2006, n. 1221).

Quanto al vizio di motivazione va infine posto in rilievo che i ricorrenti non deducono invero alcuna censura al riguardo, limitandosi ad affermare che "le argomentazioni prospettate dall’Ufficio sono state disattese dalla C.T.R. con motivazione insufficiente e contraddittoria".

Emerge evidente, a tale stregua, come lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni degli odierni ricorrenti, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, come si è sopra osservato, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., la ricorrente in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.500,00, di cui Euro 2.300,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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