Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 07-01-2011) 04-02-2011, n. 4183 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 10/12/2009, la Corte di appello di Potenza, in parziale riforma della sentenza del Gup presso il Tribunale di Matera, in data 7/3/2008, esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 7 e concesse le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante di cui all’art. 640 cpv c.p., rideterminava la pena inflitta a A.S. per i reati di truffa e esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta in anni uno, mesi due di reclusione ed Euro 600,00 di multa.

La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di truffa e del reato di esercizio abusivo di una professione, riformando le statuizioni del primo giudice, soltanto in punto di pena per effetto del riconoscimento delle attenuanti generiche e dell’esclusione dell’aggravante del danno patrimoniale di rilevante entità.

Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputata per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando quattro motivi di gravame.

Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 640 c.p.. Al riguardo eccepisce che la motivazione della sentenza impugnata non rende ragione della sussistenza degli estremi della condotta punibile per il reato di truffa. In particolare la ricorrente si duole di motivazione apparente in ordine alla sussistenza degli estremi degli artifizi e raggiri e della induzione in errore, evidenziando che la stessa non aveva mai nascosto di non avere una specifica abilitazione professionale per la psicoterapia e che le persone offese non erano affatto dei creduloni. Contesta, inoltre, la motivazione nella parte in cui osserva che "l’essenza della condotta truffaldina va ravvisata nella prospettazione di poter intervenire positivamente nella situazione del malato, pur difettando del necessario titolo di legittimazione", obiettando che, in tal modo, la Corte territoriale finisce per identificare la truffa con l’esercizio abuviso della professione.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 348 c.p.. Al riguardo eccepisce che i giudici avrebbero fatto malgoverno delle emergenze processuali estrapolando dai colloqui videoregistrati alcuni brani, interpretando l’operato dell’imputata come in antitesi alla medicina ufficiale, senza minimamente tener conto di altri brani, nella quale la A. riconosce il valore della psichiatria ufficiale e l’efficacia dei medicinali prescritti dai medici curanti.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 640 c.p., comma 2, n. 2). Al riguardo eccepisce che le e mail prese in considerazione della Corte territoriale non hanno un contenuto tale da ingenerare il timore di un pericolo immaginario. Osserva inoltre che l’eventuale pericolo prospettato riguardava il giovane oggetto della terapia e non i suoi genitori soggetti passivi del reato di truffa, Conseguentemente non sussistendo l’aggravante in parola il reato di truffa risultava non procedibile per difetto di valida querela.

Con il quarto motivo si duole della dosimetria della pena eccependo che la riduzione della pena accordata dalla Corte d’appello appariva troppo modesta in relazione al ridimensionamento del fatto operato attraverso l’eliminazione di un’aggravante e la concessione delle generiche.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati.

In punto di sussistenza degli estremi della condotta punibile nel reato di truffa, posto che la norma di cui all’art. 640 c.p. è diretta a tutelare la libertà del consenso, intesa come autonoma determinazione della volizione negoziale, l’elemento oggettivo consiste nella condotta di colui che procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, inducendo taluno in errore con artifici o raggiri.

Nella fattispecie la Corte territoriale ha identificato l’elemento oggettivo della condotta nella prospettazione di poter intervenire positivamente sulla situazione del malato, pur difettando del necessario titolo di legittimazione e della competenza sostanziale al riguardo. Non v’è dubbio che tale prospettazione integri un raggiro che ha indotto in errore le vittime, vale a dire i genitori del giovane M., soggetti molto provati psicologicamente dalla malattia del figlio e quindi più facilmente condizionabili. Sussiste pertanto il nesso di causalità fra il raggiro posto in essere dall’agente ed il danno patrimoniale subito dalle parti lese, che si sono sottoposte alla terapia praticata dalla A. e ne hanno sopportato il relativo costo, nell’illusione che il figlio ne avrebbe tratto dei benefici.

La Corte territoriale, pertanto, ha correttamente identificato gli elementi della condotta che integrano la fattispecie legale tipica del delitto di truffa. Le censure sollevate con il ricorso non scalfiscono la motivazione e non fanno emergere errori di diritto. In particolare risulta infondata la censura in punto di coincidenza fra la condotta truffaldina, come identificata dalla Corte, ed il delitto di esercizio abusivo di una professione. Non v’è dubbio che la truffa, quand’anche compiuta attraverso l’esercizio abusivo di una professione, non coincida con il reato di cui all’art. 348 c.p. per la presenza di un elemento specializzante, rappresentato dall’induzione in errore, che incide sulla libertà del consenso del soggetto passivo. Tale requisito non rientra nella fattispecie tipica del delitto di esercizio abusivo di una professione la cui condotta è integrata dal semplice svolgimento di prestazioni che richiedono una specifica competenza professionale da soggetto privo dell’abilitazione professionale richiesta dalla legge, non essendo necessario che il fruitore della prestazione sia tratto in inganno o meno.

Pertanto, correttamente, nella fattispecie i giudici di merito hanno ritenuto la continuazione fra il reato di truffa e quello di esercizio abusivo della professione medica.

Alla luce di tali considerazioni deve essere respinto il primo motivo di ricorso.

Per quanto riguarda il secondo motivo, in punto di sussistenza degli estremi della condotta di esercizio abusivo di una professione, le censure sollevate dalla ricorrente postulano, al di là dei vizi formalmente denunciati, una rivalutazione di merito di risultanze processuali già esaurientemente e coerentemente esaminate dalla sentenza impugnata nella operata ricostruzione dei fatti e nella puntuale indicazione degli elementi confermativi dell’accusa formulata e risultano destituite di fondamento, è il caso di aggiungere che la sentenza di secondo grado va necessariamente integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti, pronunciata in prime cure, derivandone che i giudici di merito hanno spiegato, in maniera adeguata e logica, le risultanze confluenti nella certezza del pieno coinvolgimento dell’imputata nella commissione del reato ritenuto a suo carico.

Uguali considerazioni devono essere svolte per quanto riguarda il terzo motivo di ricorso, in punto di sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 2). Le osservazioni del ricorrente non scalfiscono l’impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di manifesta illogicità della stessa; nella sostanza, esse svolgono, sul punto dell’induzione nelle parti offese del timore di un pericolo immaginario, considerazioni in fatto insuscettibili di valutazione in sede di legittimità, risultando intese a provocare un intervento in sovrapposizione di questa Corte rispetto ai contenuti della decisione adottata dal Giudice del merito.

Parimenti inammissibile è il motivo concernente la misura della pena giacchè la Corte, accogliendo parzialmente l’appello, ha concesso all’imputata le attenuanti generiche, mitigando la pena irrogata in primo grado.

Ai sensi dell’art 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputata che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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