Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-03-2011, n. 5740 Causa Contratto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

V.G., premesso di essere debitore in forza di un rapporto usuraio di G.S., a cui aveva conferito una procura a vendere un proprio immobile sito in (OMISSIS), procura che il creditore aveva effettivamente utilizzato trasferendo fittiziamente il bene alla propria moglie C.M. R. con atto stipulato a mezzo del notaio Ch.Va. in data 6 maggio 1998, convenne dinanzi al Tribunale di Milano G.I., C.R.M. e Ch.Va., chiedendo che L’atto di compravendila fosse dichiarato nullo per violazione del divieto del patto commissorio ovvero, in subordine, che venisse annullato, previa dichiarazione che esso era affetto da simulazione relativa, ai sensi dell’arT. 1395 cod. civ., in quanto contratto dal rappresentante con se stesso, o, in ulteriore subordine, che il G. fosse condannato a versargli il prezzo della vendita, pari all’importo di l. 280.000.000; chiese inoltre che il notaio rogante la compravendita fosse condannato al risarcimento del danno per avere incluso nell’atto anche il cortile antistante l’immobile, bene che non era compreso nella procura da lui rilasciata.

Si costituirono in giudizio i convenuti opponendosi alle domande contro di loro rispettivamente proposte e i coniugi G.I. e C.M.R. chiedendo altresì, in via riconvenzionale, la condanna dell’attore alla restituzione del debito di L. 280.000.000.

Il giudice di primo grado, disattese nel corso dell’istruttoria le richieste di prove orali avanzate dalle parti, respinse la domanda principale di nullità del contratto di compravendita per violazione delle divieto di patto commissorio e quella avanzata dall’attore nei confronti del notaio Ch.; accolse invece quella di annullamento della compravendita ai sensi dell’art. 1395 cod. civ., previa dichiarazione di simulazione del contratto, nonchè la domanda riconvenzionale dei convenuti G. e C., condannando l’attore al pagamento della somma richiesta, oltre interessi legali dalla data del 14 maggio 1996 al saldo.

Interposto gravame da parte del solo V., con sentenza n. 1112 del 26 aprile 2005 la Corte di appello di Milano confermò in toto la decisione impugnata, affermando, con riferimento alla riproposta domanda di nullità della compravendita ex art. 2744 cod. civ., che, nella specie, difettavano i presupposti del patto commissorio, per insussistenza di un nesso di interdipendenza tra l’assunzione del debito e la procura a vendere l’immobile, atteso che quest’ultima, nelle intenzioni delle parti, era destinata non già a realizzare il trasferimento della proprietà del bene in capo al creditore nel caso di inadempimento del debito, ma di consentire la vendita del bene a prezzo di mercato, con obbligo del creditore di versare al debitore la differenza in caso di realizzo ad un prezzo superiore al debito stesso; in relazione all’accoglimento della domanda riconvenzionale, il giudice di secondo grado ritenne invece che non era stata data la prova nè degli interessi usurari nè della eccepita restituzione del debito, confermando la valutazione del primo giudice di inammissibilità delle prove orali articolate dalla parte attrice su questi punti; ritenne infine infondato il gravame avverso il rigetto della domanda proposta dal V. nei confronti del notaio Ch., assumendo che l’accoglimento della domanda di annullamento del contratto da questi rogato determinava il venir meno dell’interesse ad affermare l’eventuale responsabilità del professionista ed all’accertamento dell’eventuale danno conseguente.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 17 maggio 2005, con atto notificato il 5 e 6 luglio 2005, ricorre V.G., affidandosi a cinque motivi.

Con distinti controricorsi resistono in giudizio sia G. I. e C.R.M., che Ch.Va.. Il ricorrente ed il controricorrente Ch. hanno depositato memorie.
Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 1418, 1344 e 2744 cod. civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto essenziale della controversia, censurando la sentenza impugnata per avere respinto la domanda di nullità del contratto di compravendita per violazione del divieto del patto commissario. Ad avviso del ricorso il giudice territoriale è pervenuto a questa conclusione in forza di una non corretta interpretazione del divieto sancito dall’art. 2744 cod. civ., il quale va esteso ad ogni atto negoziale che abbia il fine di far conseguire al creditore la proprietà del bene del debitore in caso di inadempimento del debito. Nel caso di specie, il nesso di interdipendenza tra l’assunzione del debito e la procura a vendere emergeva ictu oculi, essendo stato nel corso del giudizio pienamente provato che il V. era stato costretto a rilasciare la procura a vendere al G. nell’ambito di un rapporto debitorio, che la suddetta procura era stata rilasciata a garanzia delle somme mutuate e che la procura a vendere era stata in concreto utilizzata dal creditore al fine di acquisire, dietro lo schermo della moglie, l’effettiva proprietà del bene. La decisione di secondo grado è quindi incorsa anche nel denunziato vizio di motivazione, in quanto il giudicante, da un lato, ha sostenuto di condividere un’interpretazione estensiva dell’art. 2744 cod. civ., affermando la sola necessità dell’interdipendenza tra i due negozi, dall’altro, contraddicendosi, ha negato che la procura a vendere potesse considerarsi atto negoziale idoneo a far pervenire al creditore la proprietà del bene, limitandosi sul punto ad osservare che essa era destinata "a realizzare una vendita effettiva e al reale valore di mercato", ma senza rilevare che, nel concreto, essa era servita al creditore per intestarsi il bene attraverso lo schermo della sua vendita simulata alla moglie.

Nel proprio controricorso G.I. e C.M.R. eccepiscono l’inammissibilità del motivo, assumendo che la controparte non ha interesse a coltivare la domanda di annullamento del contratto per violazione del divieto di patto commissorio, atteso che il contratto di compravendita impugnato risulta essere stato già annullato in accoglimento della domanda subordinata ex art. 1395 cod. civ., in forza di una statuizione su cui, non essendo stata impugnata, si è ormai formato il giudicato. Il primo motivo di ricorso è fondato.

L’eccezione preliminare di inammissibilità del motivo per difetto di interesse non può essere accolta, risultando pacifico dall’esposizione delle vicende del processo che la domanda di nullità ex art. 2744 cod. civ. è stata proposta dall’attore in via principale e quella di annullamento ex art. 1395 cod. civ. in via soltanto subordinata. Questo ordine di proposizione delle domande, che costituisce esplicazione del diritto di azione in giudizio ( art. 24 Cost.), conferisce evidentemente alla parte il diritto di insistere sull’accoglimento della domanda principale fino all’esaurimento di tutti i gradi di giudizio, senza che su detto interesse possa minimamente incidere l’avvenuto accoglimento della domanda proposta in via subordinata e la mancata proposizione contro di essa di impugnazione. In disparte poi il rilievo che la differenza degli effetti sostanziali riconducibili alla dichiarazione di nullità del contratto rispetto alla pronuncia di annullamento conferisce un interesse anche obiettivo alla parte di insistere sulla propria richiesta.

Tanto precisato, quanto al merito del motivo, si osserva che il giudice territoriale ha escluso nel caso di specie che i negozi posti in essere dalle parti volessero aggirare il divieto del patto commissorio per l’assenza del nesso di interdipendenza tra la dichiarazione di debito firmata dai V. e la procura a vendere, dal momento che quest’ultima "era destinata non già a realizzare il trasferimento della proprietà del bene in favore di G. stesso o di chi per lui, ma a realizzare una vendita effettiva e al reale valore di mercato del bene, tant’è che, stimando il bene di valore superiore all’ammontare del debito nei confronti di G., in caso di cessione dell’immobile si prevedeva che G. trattenesse per sè la somma capitale corrispondente al proprio credito, versando a V. la differenza".

Questo ragionamento non appare condivisibile, risultando del tutto inappagante l’indagine con cui il giudice territoriale ha escluso l’eventuale nesso di interdipendenza tra gli atti negoziali posti in essere dalle parti, nonchè la dedotta finalità degli stessi di realizzare il trasferimento del bene del debitore in caso di suo inadempimento.

In materia di violazione del divieto del patto commissorio, questa Corte ha già avuto modo di precisare come non sia possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità, occorrendo invece riconoscere che qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il contenuto, nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l’illecita coercizione del debitore al momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell’altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione.

Più volte, di conseguenza, è stata ritenuta la nullità, ex art. 1344 cod. civ., per frode alla legge, in quanto finalizzati alla violazione o elusionedel divieto del patto commissorio, di atti negoziali di per se astrattamente leciti ovvero di operazioni negoziali complesse che, pur in assenza di formale costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano rispondenti alla finalità di attribuire al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso di mancato pagamento da parte del debitore, così costretto a sottostare alla volontà della controparte (Cass. n. 5426 del 2010; Cass. n. 437 del 2009; Cass. n. 2285 del 2006). Nel caso in cui il debitore abbia accettato preventivamente – quindi al di fuori di una concordata datio in solutum successiva all’inadempimento – la possibilità di alienazione del proprio bene a seguito di inadempimento, viene infatti a mancare la causa tipica dello scambio a parità di condizioni, che connota il contratto di compravendita e si verte in ipotesi di causa illecita, che vizia e rende nullo il negozio o l’operazione negoziale conclusa.

In applicazione di questi principi, si è ritenuto quindi, per quanto qui specificatamente interessa, che anche una procura a vendere un immobile, rilasciata dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione de mutuo, comporti violazione del divieto del patto commissorio, qualora si accerti che essa sia funzionalmente connessa con il mutuo (Cass. n. 6112 del 1993) collegamento questo necessario dal momento che il patto commissorio è configurabile solo quando il debitore sia costretto al trasferimento di un bene a tacitazione della sua obbligazione e non anche ove tale trasferimento sia frutto di una scelta (Cass. n. 4064 del 1995; Cass. n. 4283 del 1990). La considerazione che il patto commissorio costituisce un vizio che attiene alla causa del contratto, che viene piegata all’interesse del creditore ad acquisire una garanzia reale diretta, autonoma ed atipica sul bene del debitore, con conseguente snaturamento della causa tipica del negozio di scambio, autorizza d’altra parte l’interprete a svolgere, ai fini di tale accertamento, un’indagine penetrante, che non si può fermare agli aspetti formali del negozio, ma deve inoltrarsi anche a verificarne la causa in concreto. In particolare, ciò richiede che, in caso di operazione complessa, i singoli atti vengano valutati alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale e che a tal fine venga apprezzata ogni circostanza di fatto relativa agli atti compiuti e, non ultimo, il risultato concreto (la funzione) che, al di là delle clausole negoziali ambigue o non vincolanti, l’operazione negoziale nel suo complesso era idonea a produrre ed ha in concreto prodotto (cfr.

Cass. n. 9466 del 2004).

Ora, se si legge la decisione impugnata alla luce di tali principi, non si sfugge alla conclusione che essa li abbia sostanzialmente disattesi. La Corte territoriale ha respinto la prospettazione dell’esistenza di un patto commissorio limitandosi ad osservare che non era ravvisabile un nesso di interdipendenza tra la dichiarazione di assunzione del debito sottoscritta da V. e il rilascio della procura al creditore a vendere il proprio immobile dal momento che quest’ultima era effettivamente diretta a vendere l’immobile al reale valore di mercato, tanfo che era prevista la consegna al rappresentato del prezzo di vendita per la parte eventualmente eccedente l’ammontare del suo debito. Si tratta di un’indagine e di una motivazione, come detto, inappaganti. In particolare, ciò che difetta è una lettura complessiva degli atti posti in essere dalle parti, che costituisce, come sopra si è evidenziato, nel caso di operazioni complesse, il momento centrale dell’indagine volta ad accertare la presunta violazione del divieto di patto commissario. La Corte territoriale ha omesso di svolgere un’interpretazione funzionale e complessiva del comportamento negoziale delle parti, di accertare che tipo di relazione o collegamento esse avesse inteso stabilire tra la dichiarazione di debito e la procura a vendere l’immobile ed il risultato concreto da esse voluto, mancando, a tal fine, di prendere in considerazione e valorizzare non solo i singoli atti negoziali, con le relative clausole, ma anche ogni elemento o circostanza di fatto, anche temporale, in presenza della quale erano stati posti in essere, nonchè del risultato con essi in concreto voluto, anche alla luce del comportamento successivo delle parti (risulta ad esempio trascurato il dato secondo cui la dichiarazione di debito e la procura a vendere risultano entrambe sottoscritte lo stesso giorno, il 14 maggio 1996, nonchè la circostanza che la procura a vendere ha avuto esecuzione, attraverso la stipulazione del rogito impugnato, circa due anni dopo, il 6 maggio 1998). Trattasi, per le ragioni sopra esposte, di accertamenti tutti necessari al fine di dare risposta al quesito se in realtà le parti con la procura a vendere l’immobile intendessero effettivamente trasferire a terzi l’immobile al fine di realizzare una provvista da destinare all’estinzione del debito ovvero, come ritenuto dal ricorrente, costituire un garanzia reale a favore del creditore tale da consentire allo stesso, in caso di mancata restituzione della somma dovuta, di acquisire la proprietà del bene o comunque il potere di disporne.

Il motivo va pertanto accolto.

Il secondo motivo di ricorso denunzia "violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 2733 c.c.; ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia; in relazione alla infondatezza della domanda riconvenzionale dei convenuti C. e G. "Con esso il ricorrente lamenta che la Corte di appello. Dell’accogliere la domanda riconvenzionale della controparte di restituzione della somma mutuata, non abbia correttamente valutato le prove documentali in atti, che dimostravano chiaramente che il prestito era stato dato ad interessi usurari e che la procura a vendere l’immobile del debitore era stata data nell’ambito di tale rapporto di mutuo ed al fine di costituire una garanzia del prestito, in tale senso depongono, ad avviso del ricorrente, le dichiarazioni rese dalle controparti dinanzi al pretore di Milano nel corso del giudizio possessorio da lui intentato e le stesse ammissioni fatte nella loro comparsa di risposta, cui va riconosciuto valore confessorio.

Il terzo motivo di ricorso denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione o falsa applicazione dell’art. 2724 cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per avere disatteso, con motivazione facente mero rinvio a quella dell’ordinanza di rigetto adottata dal giudice di primo grado, le istanze di prova orale articolate dall’attore al fine di opporsi alla domanda riconvenzionale di restituzione del debito, volte a dimostrare che esso era stato integralmente rimborsato, omettendo per di più di pronunciarsi sullo specifico motivo di appello che aveva contestato la legittimità e fondatezza della decisione di primo grado sulle istanze di prova.

I due motivi di ricorso, che possono esaminarsi congiuntamente in ragione della loro connessione oggettiva, sono entrambi infondati.

In questo senso spinge l’assorbente rilievo che le censure sollevate, che criticano la valutazione operata dal giudice di merito del materiale probatorio raccolto nel corso del giudizio e delle stesse istanze istruttorie della parte, si collegano ad eccezioni svolte dal V. nei confronti della domanda della controparte di restituzione della somma data a mutuo prive del necessario carattere di specificità e concretezza. La difesa del ricorrente appare infatti sul punto, per come riprodotta nel ricorso, eccessivamente generica; si assume, da un parte, che nella somma pretesa sarebbero stati computati interessi usurari e che comunque essa sarebbe stata restituita ne tempo, ma senza invero indicare l’esatto ammontare del prestito ricevuto, dato all’evidenza indispensabile al fine di verificare la sussistenza del tasso di interesse usurario, nè in quali momenti e con quali pagamenti si sarebbe verificata la dedotta restituzione del prestito; nè, merita aggiungere, tali indicazioni appaiono concretamente ricavabili dai capitoli di prova articolati dalla parte e non ammessi dal giudice di merito, che pure il ricorso riproduce. L’onere di provare tali fatti incombeva sicuramente sul ricorrente, ma sul punto è opportuno precisare che l’onere della prova implica anche il preventivo onere di specificare in modo preciso e puntuale i fatti che si ritengono idonei a paralizzare la pretesa della controparte. Ora, poichè le censure sollevate nel ricorso si riferiscono, come sottolineato, alla mancata valutazione ed ammissione delle prove, ne consegue che l’indeterminatezza dei fatti opposti dall’attore alla domanda della controparte si trasmette anche alle relative prove e porta a ritenere generiche e, quindi, inammissibili, le relative doglianze.

Il quarto motivo di ricorso, che denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 116 e 112 cod. proc. civ. e dell’art. 1283 cod. civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, lamenta che la sentenza impugnata, in accoglimento della domanda riconvenzionale, abbia condannato il ricorrente anche al pagamento degli interessi legali maturati e maturandi sulla somma da restituire, nonostante che la stessa fosse stata determinata dalle parti computando gli interessi usurari, in aperta violazione del divieto di anatocismo.

La Corte – prosegue il ricorrente – ha poi omesso di pronunciarsi sulla domanda formulata dall’appellante in estremo subordine di compensazione del credito vantato dalla controparte con gli interessi maturati sul prezzo di vendita dell’immobile, mai versato dal G., tra la data del contratto e l’adozione della pronuncia di annullamento di primo grado. Anche questo motivo è infondato.

La prima censura, con cui il ricorrente sostanzialmente lamenta di essere stato condannato anche al pagamento degli interessi usurari, non può essere accolta in quanto la parte, come affermato dal giudice di merito, non ha fornito alcuna prova della convenzione usuraria.

La seconda censura è invece infondata in quanto la richiesta di pagamento degli interessi sulla somma riscossa dal G. a titolo di prezzo sulla vendita dell’immobile si collegava chiaramente all’altra a domanda avanzata dal V. di restituzione del prezzo, domanda proposta in via subordinata e di fatto rimasta assorbita dalla pronuncia di annullamento della vendita, che ha altresì accertato la simulazione dell’atto di trasferimento posto in essere dal G.. Il quinto motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 91 ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata per avere omesso di prendere in considerazione il motivo di appello con cui l’attuale ricorrente assumeva che il giudice di primo grado non poteva limitarsi a rigettare la domanda avanzata nei confronti del notaio in ragione del sopravvenuto annullamento del contratto da questi rogato, ma avrebbe dovuto, sia pure al limitato fine della decisione sulle spese di causa, verificare se tale domanda era o meno fondata o comunque compensare tra le parti le spese di lite. Si assume inoltre che la Corte di appello, condannandolo alla rifusione delle spese pur in assenza di soccombenza sia reale che virtuale, ha violato l’art. 91 cod. proc. civ., adottando sul punto una motivazione contraddittoria, dal momento che, da un lato, ha rilevato che la domanda avanzata nei confronti del notaio era divenuta priva di interesse per effetto dell’annullamento del contratto, dall’altro ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato tale domanda. Il mezzo è infondato.

Il motivo censura la statuizione con cui l’appellante è stato condannato al pagamento delle spese di giudizio nei confronti del notaio Ch., ma non anche il capo della decisione che ha dichiarato la domanda di risarcimento avanzata contro quest’ultimo assorbita dalla pronuncia di annullamento del contratto per mezzo di questi stipulato. Occorre poi chiarire che la domanda di risarcimento era motivata non già perchè il notaio avesse rogato un atto nullo, ma perchè aveva dato corso alla vendita anche di un bene non compreso nella procura a vendere rilasciata dall’attore.

Tanto precisato, la regolamentazione delle spese adottata dal giudice di merito appare giuridicamente corretta, in quanto rispondente al principio di causalità che governa la materia. Questa conclusione si impone non solo perchè il notaio era stato chiamato in causa dall’attore, ma in quanto questi aveva chiesto in via principale che il contratto stipulato tramite il professionista fosse dichiarato nullo o annullato, accettando pertanto la possibilità che, a seguito dell’accoglimento di tali domande, il giudice di merito non si pronunciasse, ritenendola assorbita, sulla successiva domanda di risarcimento del danno. In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso e rigettati gli altri. La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Milano che, nel decidere, si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio.

Si rinvengono invece giusti motivi, tenuto conto delle ragioni della decisione, per compensare interamente le spese di giudizio tra il ricorrente ed il Ch..
P.Q.M.

accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese, ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Compensa le spese di lite tra il ricorrente ed il Ch..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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