Cass. civ. Sez. V, Sent., 11-03-2011, n. 5836 Atti e contratti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con rogito registrato in data 19.3.1993 Ma. e B. M. vendettero alla società F.lli Calvisi s.n.c. e ad P. A., pro indiviso, la proprietà di un lotto di terreno posto nel comune di (OMISSIS), di mq. 1911, per il corrispettivo dichiarato di L. 57.000.000, pari a L. 30.000 al mq.

L’ufficio del registro di Nuoro rettificò il valore finale in base alle risultanze di una stima dell’Ute, che aveva indicato il valore in lire 123.000 al mq.

Avverso l’accertamento, la società Calvisi, sul rilievo della congruità dei valori dichiarati, propose ricorso alla commissione tributaria provinciale di Nuoro, la quale lo accolse con sentenza n. 581/03/98.

Questa sentenza, appellata dall’amministrazione finanziaria, fu confermata dalla commissione tributaria regionale della Sardegna, sez. dist. di Sassari, con la decisione n. 84/8/05 in data 10.6.2005, previa riunione con l’impugnazione relativa ad altra sentenza (la n. 477/03/98) coinvolgente avviso di accertamento e avviso di liquidazione su una parallela vicenda negoziale, avente per oggetto un distinto lotto di terreno ancora sito in comune di (OMISSIS), alienato -questa volta – dalle B. alla società Habitat 91 s.r.l. Per la cassazione della mentovata sentenza d’appello ha proposto ricorso l’agenzia delle entrate in data 25.7.2006, previa articolazione di un motivo.

L’intimata Calvisi s.n.c. si è costituita notificando controricorso.
Motivi della decisione

1. – Preliminarmente deve la Corte affrontare la questione posta dalla controricorrente società Calvisi a mezzo della eccezione di inammissibilità del ricorso.

Tale eccezione si basa sull’asserita violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, per avere l’amministrazione ricorrente omesso di riportare nel ricorso i fatti di causa, e surrogato una simile esposizione con l’inserimento, ancora nel ricorso, di una copia della sentenza impugnata.

A questo riguardo, nonostante il contrario avviso recentemente espresso da sez. 1^ 2009/4823, devesi dare continuità al prevalente indirizzo giurisprudenziale, sostenuto da questa sezione con le sent.

2003/14001 e 2008/423 e condiviso anche da sez. 3^ 2003/11195, stando al quale l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, (tanto nel testo che qui rileva ratione temporis, quanto nel testo attuale, conseguente al D.Lgs. n. 40 del 2006) può ritenersi osservato quando una copia della sentenza impugnata sia "incorporata" nel ricorso in modo da costituirne parte integrante, dovendo in tal caso ritenersi realizzato lo scopo della norma, di permettere la conoscenza della vicenda processuale mediante la lettura del ricorso, senza necessità di avvalersi di ulteriori elementi.

Giova sottolineare che l’essenziale periodo motivante, reso dalla contraria sentenza per prima evocata (sez. 1^ 2009/4823), è nel senso della apparente massima valorizzazione del principio di autosufficienza: "se scopo dell’esposizione sommaria del fatto in ricorso, richiesta dall’art. 366 c.p.c, comma 1, n. 2 rectius, n. 3, è permettere alla Corte l’immediata percezione delle censure sollevate senza necessità di ricorrere ad altri atti del processo o comunque ad altre fonti, ivi compresa la sentenza impugnata, pare evidente che, posto che tale ultimo atto deve essere depositato insieme al ricorso a pena d’improcedibilità giusta il disposto dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, è necessario che la descrizione del fatto faccia parte del corpo del ricorso, eventualmente anche mediante la trascrizione di parte della sentenza impugnata, ma non possa risultare da atto diverso, sia pur allegato al ricorso stesso".

Ma può obiettarsi che trattasi di rilievo attestato in una petizione di principio, che invero riduce la funzione propria del ripetuto principio di autosufficienza a quella di un mero formalismo.

Viceversa è affermazione consolidata di questa Corte, condivisa anche in dottrina, che il disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, non risponde a esigenze formalistiche, sebbene alla necessità di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, al fine di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato; tanto che pacificamente la prescrizione si ritiene osservata quando nel ricorso sia stata integralmente riportata l’esposizione dei fatti di causa contenuta nella sentenza impugnata (così invero, per tutte, sez. un. 2003/2602).

Consegue che va condivisa la deduzione svolta nella sent. di questa sezione 2003/14001 cit., secondo cui "inevitabile appare l’equivalenza fra la "trascrizione" della (parte espositiva della) sentenza impugnata e la "spillatura" del provvedimento stesso (a maggior ragione se in fotocopia integrale), trattandosi, in tutta evidenza, di un divario che attiene unicamente al "segno grafico" utilizzato – solo più elegantemente sostituibile con un sistema di riproduzione computerizzata. Onde, mentre non è dato ipotizzare (..) la necessità di leggere la "sentenza", quale atto separato dal ricorso, del cui tessuto è ormai entrata a far parte, si tratterà unicamente, ai fini della ammissibilità, di verificare se la esposizione dei fatti di causa, nel documento così riprodotto, sia idonea ad assolvere, in rapporto alle censure formulate, alla funzione di adeguata conoscibilità dei fatti". Nella fattispecie che qui viene in esame, una simile indagine agevolmente si risolve – anche alla stregua del contenuto della parte motiva del ricorso – in senso positivo per l’amministrazione ricorrente.

L’eccezione di inammissibilità va quindi disattesa e può la Corte procedere a esaminare il merito delle censure svolte col ricorso.

2. – A tal fine è da osservare che la sentenza impugnata ha motivato il rigetto del gravame dell’agenzia delle entrate, avverso la sentenza che qui rileva (quella contraddistinta dal n. 581/03/98), sulla scorta di considerazioni così decifrabili:

– con riguardo a terreno ricadente in centro abitato, con indice di edificabilità fondiaria di 1,50 mc/mq, l’accertamento era stato effettuato ai sensi del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52 sulla base dei valori venali in comune commercio ricostruiti in forza di stima dell’Ute; tanto sulla scorta di duplice metodo: (1) "diretto", con aliquota variabile tra il 12 e il 30% del valore di mercato del fabbricato edificabile; e (2) "indiretto – analitico", con capitalizzazione della differenza tra costo di costruzione e profitto al tasso di rendimento del 7% in due anni;

– peraltro il prezzo dell’edificando fabbricato, di L. 1.500.000 al mq., indicato dall’Ute e attualizzato al coefficiente di rivalutazione di comune impiego, avrebbe comportato, in ragione del volume del prodotto, pari a mq 970, una risultante di circa L. 2 mld (sebbene nella stima indicata in L. 1,455 mld.), valore da ritenersi "fuori misura";

il metodo di stima, definito dall’Ute e preso in considerazione ai fini dell’accertamento, si era sostanziato su base teorica, in ragione di ipotesi di redditività incongrue rispetto allo scopo di definire un valore impositivo sul quale esercitare il diritto di difesa; così come confermato dal fatto che, in base al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 54, comma 2 (rectius, comma 4), il calcolo automatico del valore del bene non si applica ai terreni per i quali gli strumenti urbanistici prevedono la destinazione edificatoria;

pur tuttavia, volendosi adottare il coefficiente di edificabilità fondiaria anzidetto, e applicandosi la percentuale minima del 12% ("secondo le indicazioni dell’Ute di cui alle note in atti e fornite dall’ufficio a seguito di ordinanza"), ne sarebbe derivato, per il lotto de quo, un valore finale di L. 61.000 al mq.

A codeste considerazioni, l’impugnata sentenza, richiamando la sentenza di questa Corte n. 18150 del 2004, ha aggiunto il rilievo che la definizione della base imponibile in virtù del valore venale in comune commercio deve indurre a ritenere imprescindibile il prezzo indicato nel contratto, in quanto appunto rappresentativo del suddetto valore venale, atteso che "il valore venale (..) non è altro che quanto può ricavarsi dalla vendita". E, nel concreto, non ha apprezzato l’esistenza di elementi particolari contrastanti la riferita equazione.

3. – L’amministrazione ricorrente, in unico articolato motivo, censura la sentenza a norma dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 43, 51 e 52, nonchè per insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su punti decisivi. Innanzi tutto la critica investe l’ultima surriportata affermazione, siccome tratta da una giurisprudenza dettata in fattispecie del tutto diversa.

Viene quindi associata la censura, propriamente motivazionale, che il giudice d’appello: (1) non ha tenuto conto del metodo indiretto di stima, pur avendolo enunciato come parimenti fondante la eseguita rettifica del valore;

(2) ha apoditticamente disatteso – sul mero immotivato riferimento al fatto di essere "fuori misura" – i risultati dell’adottato metodo di stima diretto"; (3) non ha spiegato la ragione dell’ipotizzata assunzione della percentuale minima del 12% a criterio eventuale di calcolo, contraddicendo la stessa allegazione di cui al ricorso avverso l’atto impositivo, stando alla quale, per terreni analoghi, la parte venditrice aveva concordato un valore di L. 85.000 al mq.;

(4) illogicamente, infine, pur indicando l’ipotetico conseguente valore di L. 61.000 al mq., ha annullato interamente l’avviso considerando congruo il dichiarato di L. 30.000 al mq.

4. – La critica complessivamente consegnata al motivo di ricorso non merita consenso.

Senza dubbio non è colta, dalla commissione regionale, la specificità del principio di diritto enunciato dalla richiamata Cass. 2004/18150. L’insegnamento della quale è nel senso che, in tema di imposta di registro, e con riguardo alla determinazione della base imponibile nei contratti a titolo oneroso aventi per oggetto beni immobili o diritti reali immobiliari, l’accertamento del valore venale in comune commercio (di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 51, comma 2) non può prescindere dal prezzo effettivo pattuito tra le parti, ove dichiarato in atto. Trattasi di principio che, invero, non direttamente giova nel caso di specie, essendo stato formulato in funzione della conclusione, nella sentenza puntualmente esposta, di non potersi riconoscere alle parti il potere di indicare un diverso valore del bene compravenduto ai soli fini fiscali, a prescindere, cioè, dal prezzo. Tale valore non costituisce la base imponibile, quanto piuttosto il limite del potere accertativo dell’ufficio finanziario, alle specifiche condizioni peraltro stabilite dal D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52, comma 4, ai fini della c.d. valutazione automatica (e v. conf. Cass. 2008/20689).

Sennonchè l’errato richiamo giurisprudenziale non ha inciso sulla decisione in concreto adottata, la quale si è attestata su una valutazione di pieno merito a proposito della non ricorrenza di specifici dati di fatto dai quali dedursi, nel caso concreto, il superamento della presunzione di conformità tra il valore del bene e il prezzo pattuito ( D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 43 e art. 51, comma 1). Il che costituiva giustappunto il tema di decisione, stante che, alla luce dei motivi di ricorso avverso l’avviso di accertamento, il giudice tributario era chiamato a stabilire se il lotto di terreno oggetto del contratto avesse o meno un valore venale superiore a quello indicato dal corrispettivo pattuito per la vendita, in base alla rettifica eseguita dall’amministrazione finanziaria ai sensi del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 51 e 52.

In sostanza la motivazione a mezzo della quale la commissione tributaria regionale ha ritenuto di confermare il pronunciato annullamento dell’avviso di rettifica si compendia nell’affermazione di non ricorrenza, finanche alla stregua delle indicazioni fornite dall’Ute nel contesto degli impiegati metodi di stima, di specifici elementi consentanei alla determinazione di un valore venale del bene superiore a quello desumibile dal prezzo.

Il controllo di logicità di siffatta motivazione è qui sollecitato dall’amministrazione ricorrente sulla scorta di censure astratte.

Tali si rivelano essere quelle formulate con riferimento ai canoni di insufficienza e di contraddittorietà.

Al di là dell’esser rinvenibili, nell’impugnata sentenza, considerazioni di dubbio spessore logico – espositivo, quali quelle in concreto denunciate dalla ricorrente, resta la circostanza che la decisione è stata infine pur sempre sostenuta dall’affermazione di non ricorrenza di ipotesi particolari cui associare la determinazione di un valore venale superiore a quello normalmente rappresentato dal prezzo di vendita. E l’agenzia delle entrate ha omesso, nel suo ricorso, di indicare quali sarebbero – o quali avrebbero dovuto essere – nello specifico i fatti controversi decisivi che, in tal guisa, la sentenza avrebbe insufficientemente o contraddittoriamente valutato a monte del riferito apprezzamento di merito. Questa mancanza mina il fondamento della complessa censura, al punto da determinarne il rigetto. Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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