Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-03-2011, n. 6001 Danni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Roma,in parziale riforma delle sentenze 11 giugno 1998 e 10 aprile 2002 del Tribunale ha condannato il comune di Roma al risarcimento del danno in favore di Ra.Te. e R.R. per l’avvenuta occupazione espropriativa verificatasi nel 1983 di alcuni terreni di loro proprietà compresi nel piano di zona 39 Grottaferrata, comparto Z 32 ed estesi complessivamente mq. 2.469,15 nella misura di Euro 63.585,77. Ha determinato l’indennità per l’occupazione temporanea dei medesimi fondi avvenuta per effetto del Decreto 26 dicembre 1978 in Euro 15.896,44 e quella per l’occupazione di altre superfici di terreno estese mq. 5029,33 e poi restituite alle proprietarie in Euro 110.088,40. Ha osservato al riguardo che il valore dei terreni aventi destinazione edificatoria andava determinato: a) recependo,per un verso,quello attribuito dal c.t.u. con riguardo all’anno 1987 (L. 95.000 mq.), riducendo, attraverso i parametri calcolati dall’ISTAT,quello accertato nell’anno 1999,e poi decurtandolo fino a raggiungere L. 90.000 mq. nell’anno 1983 perchè in quegli anni i valori della zona non avevano subito particolari modifiche;

b)applicando quindi i criteri riduttivi ci cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis; c) riducendo equitativamente del 15% l’ultima indennità poichè dalle risultanze istruttorie emergeva che una porzione di detti fondo era rimasta in possesso dei proprietari che avevano continuato a cederla in affitto ed a riscuotere il canone.

Per la cassazione della sentenza la R. e la Re. hanno proposto ricorso per 6 motivi; cui resiste il comune di Roma con controricorso con il quale ha formulato a sua volta ricorso incidentale per due motivi.
Motivi della decisione

2. I ricorsi vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., perchè proposti nei confronti della medesima sentenza.

Con il primo di quello principale, le ricorrenti, deducendo violazione della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, nonchè vizi di motivazione, censurano la sentenza impugnata per avere ridotto il valore dei beni occupati determinato in base alle risultanze della c.t.u. recepita dai primi giudici, in L. 116.000 mq. senza alcuna motivazione,estrapolando il riferimento del c.t.u. ad asserite trattative svolte nel 1987 che lo indicavano in L. 95.000 mq. e poi contraddittoriamente recependo quest’ultimo prezzo di mercato, e riducendolo arbitrariamente senza individuare alcun dato di comparazione.

Con il secondo motivo,deducendo altre violazioni della medesima normativa, si dolgono dell’accoglimento del motivo di impugnazione della controparte relativo alla non avvenuta occupazione dell’intera area di mq. 5029,33, e della illogica risoluzione della censura mantenendo invece la statuizione relativa all’occupazione medesima,ma riducendo del 15% il valore dei terreni onde compensare il comune della circostanza che parte di essi erano rimasti nella disponibilità delle proprietarie.

Con il terzo, quarto e quinto motivo ribadiscono dette censure evidenziando i vizi di insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione in cui è incorsa la Corte di appello nel ridurre i valori accertati dai primi giudici;

Per converso,il comune di Roma, deducendo violazione delle medesime disposizioni legislative, nonchè vizi di motivazione, si duole: a) che l’occupazione espropriativa non sia stata estesa anche alla superficie di mq. 5.029, o comunque alla porzione di questa utilizzata per la costruzione di opere di urbanizzazione attinenti al Piane di zona, costituente peraltro un’unitaria opera pubblica; della quale, invece illegittimamente era stata ordinata la restituzione ai proprietari; b) che sia stato condannato al pagamento degli indennizzi per l’occupazione dell’intera area estesa mq. 5039,33, malgrado la stessa Corte di appello avesse riconosciuto che almeno una porzione di essa era rimasta nel possesso materiale e giuridico dei proprietari che avevano continuata a darla in affitto ed a percepire il canone dai locatari.

3. Entrambi i ricorsi vanno accolti nei limiti appresso precisati.

Con riguardo all’area estesa mq. 5.029,33, infatti, difettavano i presupposti dell’occupazione espropriativa, la quale fin dalle iniziali pronunce delle Sezioni Unite che li hanno individuati (Cass. 1464/1983; 3940/1988), è necessariamente caratterizzata "quale suo indefettibile punto di partenza" da una dichiarazione di p.u. dell’opera e "quale suo indefettibile punto di arrivo" dalla realizzazione dell’opera pubblica medesima attraverso la irreversibile trasformazione del fondo appreso; che perciò perde consistenza ed identità, originarie per acquistare quella di componente indispensabile del nuovo ed inscindibile compendio suolo- opera pubblica:per tale ragione necessariamente sottoposto al regime dei beni pubblici – demaniali o patrimoniali indisponibili – che ne impedisce alla stessa amministrazione la dismissione e la restituzione del suolo all’originario proprietario (se non nei modi previsti dall’art. 822 cod. civ., e segg.).

Conseguentemente la giurisprudenza di legittimità, pur escludendo che la radicale trasformazione del suolo postuli l’esecuzione ed il completamente, dell’opera pubblica nella sua interezza,ha sistematicamente richiesto che l’immobile abbia subito una radicale trasformazione nel suo aspetto materiale,in modo da perdere la sua conformazione fisica originaria e da risultare stabilmente ed inscindibilmente incorporato, quale parte indistinta e non autonoma in un bene nuovo e diverso, incompatibile con l’autonoma sopravvivenza del suolo in essa incorporato;e nel contempo che l’opera, fisicamente emersa, abbia assunto la fisionomia prevista dal relativo progetto e si delinei nei suoi connotati definitivi (seppur minimi), sì da rendere oggettivamente valutabile l’effettiva entità dell’intervento ablatorio (Cass. 14050/2008; 1350/1999; 12041/1998;

12416/1995; sez. un. 319771991).

Nel caso, invece, sia la sentenza impugnata che le parti hanno dedotto che nessuna porzione di detta area era interessata da trasformazioni o costruzioni e che su parte di essa insisteva un capannone tale rimasto pur dopo l’occupazione; mentre le stesso comune ha assunto che una porzione di detta superficie era rimasta nel possesso materiale e giuridico dei proprietari. Per cui a nulla rileva che nella realizzazione degli edifici si sia tenuto conto dell’intera potenzialità edificatoria di detta parte dell’immobile o che nelle aree vicine siano state attuate opere di urbanizzazione serventi all’unico piano di zona e/o all’unica complessiva opera di interesse pubblico realizzata: in quanto rileva soltanto che la superficie-suddetta non fosse stata nè trasformata nè inserita nell’opera pubblica prevista dalla dichiarazione di p.u., perciò divenendo un bene pubblico, ma che abbia conservato struttura, qualità giuridiche e consistenza originarie: tanto da poter essere restituita unitamente alla parte di capannone rimasta ai proprietari.

4. Il Tribunale di Roma con la sentenza definitiva, poi, condannò l’amministrazione comunale al risarcimento del danno per l’avvenuta occupazione acquisitiva delle aree estese mq. 2469,15 nella misura di L. 286.954.736 (pari ad Euro 148.199,75) e ne "determinò" l’indennità per occupazione temporanea dal 1978 al 1983 in L..71.738.684 (pari ad Euro 37.029,93). Per gli altri terreni estesi mq. 5029,33, occupati dal comune, ma non trasformati, ordinò la restituzione alle proprietarie e determinò l’indennizzo per la detenzione legittima fino allo stesso periodo (1983) autorizzato dal decreto in L. 146.122.153 (pari ad Euro 75.465,74) e per quella successiva non più consentita in L. 438.366.461 (pari ad Euro 226.397,38); oltre agli accessori.

La decisione è stata impugnata dal solo Comune di Roma sia in ordine all’estensione dei fondi occupati nonchè di quelli irreversibilmente acquisiti, sia in ordine alla determinazione dei criteri utilizzati dal c.t.u. e recepiti dai primi giudici per accertarne il valore; e l’appello è stato accolto in parte dalla Corte di appello che ha ridotto sia il risarcimento del danno dovuto per l’occupazione espropriativa nonchè per l’occupazione temporanea della prima area, che gli indennizzi dovuti per i terreni estesi mq. 5029,33 di cui ha confermato l’ordine di restituzione alle proprietarie (ove non ancora eseguito).

Pur dando atto che quest’ultima superficie non era stata tutta occupata dal comune di Roma per aver accertato che una porzione di essa era rimasta in possesso delle ricorrenti principali che avevano continuato a percepire il canone di affitto dal conduttore di detti terreni,ha calcolato gli indennizzi sull’intera area detraendo per tale ragione dal loro importo una somma pari al 15% "in via sostanzialmente equitativa" onde compensare l’amministrazione espropriante per la maggiore estensione considerata.

4. Ma siffatto criterio "equitativo" non previsto da alcuna disposizione di legge relativa al calcolo degli indennizzi in questione, è in contrasto anzitutto con il principio ripetutamente affermato da questa Corte e tratto dalla L. n. 1 del 1978, art. 3, che l’estensione dell’area occupata deve essere desunta anzitutto (e soltanto) dal verbale di immissione in possesso facendo lo stesso presumere che la P.A., beneficiarla dell’occupazione stessa, si sia effettivamente impossessata dell’immobile e che il proprietario di questo subisca, durante l’occupazione, il duplice danno di aver perso la facoltà di godimento del bene e di vedersi limitata la facoltà di disporne. Con la conseguenza che la Corte di appello, per un verso doveva prendere in considerazione la sola superficie indicata dal verbale suddetto, tuttavia consentendo al comune, beneficiario del provvedimento di occupazione di dimostrarne la mancata esecuzione (in tutto o in parte) (Cass. 23505/2010; 790/2010; 8384/2008; 13582/2002;

2563/2002); e dall’altro che ove avesse ritenuto, come è avvenuto, raggiunta la prova che una porzione di detta area era in effetti rimasta in possesso delle proprietarie che avevano continuato a concederla in affitto ed a percepirne il canone,la sua estensione doveva essere detratta da quella indennizzabile; la quale, per converso, doveva comprendere la sola area residua nel cui possesso l’amministrazione si era effettivamente ammessa escludendo proprietarie ed affittuario, da indennizzare – trattandosi di terreni con destinazione edificatoria – con il criterio degli interessi legali annui sul suo valore venale accertato alla scadenza delle singole annualità, per ogni anno di occupazione (Cass. sez. un. 493/1998 e succ.): perciò senza alcuna detrazione del 15% arbitrariamente applicata dalla sentenza impugnata sia alla porzione effettivamente occupata, che doveva essere indennizzata per intero, sia a quella concessa in affitto, che non doveva essere indennizzata affatto.

5. Del tutto erroneo è pure il criterio utilizzato per stabilire il valore venale degli immobili onde liquidare sia il risarcimento per l’occupazione espropriativa, sia gli indennizzi, avendo la sentenza recepito quello prospettato dal c.t.u. che lo aveva determinato (sembra con il c.d. metodo sintetico-comparativo) nell’anno 1999 per poi devalutarlo "mediante il mero riferimento agli indici ISTAT" fino all’anno 1987, e quindi individuarlo in L. 95.000 mq.: con ulteriore riduzione a L. 90.000 nell’anno 1983, epoca della irreversibile trasformazione, "sulla base della considerazione che i valori immobiliari della zona non abbiano subito rilevanti modificazioni nel periodo tra il 1983 ed il 1987".

Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che non è consentito individuare il valore di un immobile ad una data antecedente o successiva a quello cui deve essere riferita la stima per poi rivalutare o devalutare l’importo ottenuto fino alla data suddetta in base agli indici calcolati dall’ISTAT per stabilire l’aumento del costo della vita o l’andamento dei prezzi al consumo:

in quanto il mercato immobiliare risente, invece, di variabili macroeconomiche diverse dalla fluttuazione della moneta nel tempo, anche se a questa parzialmente legate, e di condizioni microeconomiche dettate dallo sviluppo edilizio di una determinata zona, e queste sono completamente avulse dai valore della moneta.

L’andamento del mercato immobiliare, dunque, non può essere ricostruito in base alle modificazioni nei tempo del valore della moneta, ma richiede un’indagine specifica nel settore, anche perchè gli indici Istat riflettono le variazioni dei pressi al consumo, ma non tengono conto delle quotazioni di mercato degli immobili" (Cass. 14031/2000; 8706/2006, 24857/2006, 3189/2008).

D’altra parte, non sembra al Collegio che si possa sfuggire alla seguente alternativa: o gli elementi di comparazione utilizzati dal c.t.u. risultavano rappresentativi del mercato immobiliare dei terreni occupati pure nell’anno 1983;ed allora appare arbitraria la devalutazione operata, ed a maggior ragione l’ulteriore immotivata detrazione da L. 95.000 a L. 90.000 mq. per il periodo 1987-1983:

peraltro al lume di non controllabili ragioni relative al mercato immobiliare, che rendono la motivazione altresì illogica per avere,da un lato invocato il metodo sintetico-comparativo e poi finito per disattendere gli stessi elementi di comparazione sui quali era asseritamente fondato. Ovvero, gli elementi suddetti non erano rappresentativi del mercato immobiliare della zona nell’anno 1983, ed allora occorreva reperire dati ulteriori che ne documentassero l’andamento all’epoca della irreversibile trasformazione (e degli anni antecedenti e successivi per il calcolo degli indennizzi);

mentre, in mancanza di parametri di riferimento di una certa significatività e consistenza ai fini dell’applicazione del metodo sintetico comparativo, la sola soluzione praticabile era quella di adottare un diverso sistema, di tipo analitico – ricostruttivo, tramite l’accertamento del valore di trasformazione del suolo (Cass. 9178/2006; 8706/2006 cit.; 9207/1999).

6. Infine nelle more, del giudizio, la Corte Costituzionale con sentenza 349 del 2007; accogliendo il dubbio sollevato da questa Corte di Cassazione con l’ordinanza di rimessione 11887 del 2006, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 7 bis del menzionato art. 5 bis: perchè la norma, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117 Cost., comma 1. Analoga declaratoria è stata emessa dalla sentenza 348 del 2007 per i primi due commi dell’art. 5 bis con riferimento al calcolo dell’indennità di espropriazione: nel caso utilizzata da entrambi i giudici di merito per determinare l’indennizzo per l’occupazione temporanea dei terreni dal 1978 al 1983.

Pertanto a seguito di dette declaratorie di incostituzionalità dal giorno successivo alla pubblicazione della declaratoria di incostituzionalità ( art. 136 Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 3), non è più possibile applicare i meccanismi riduttivi suddetti; e sono stati ripristinati sia l’originario criterio di stima dell’indennizzo dovuto al proprietario che ha subito l’occupazione appropriativa, corrispondente al valore venale pieno dell’immobile espropriato ( L. n. 2359 del 1865, art. 39): si da raggiungere, secondo la Corte Costituzionale, "la sua massima estensione consentita" in luogo del "massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesse,la pubblica amministrazione può garantire all’espropriato" nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge. Sia il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione fondato sul parametro indicato dalla menzionata norma della legge fondamentale.

Per cui il giudice di rinvio nella determinazione di entrambe le poste – risarcitoria ed indennitaria – dovrà attenersi a questi ultimi criteri più non potendo applicare quelli riduttivi utilizzati dalla Corte di appello. E fermi restando i limiti di Euro 148.199,75 per il risarcimento del danno inerente alla superficie di mq.

2469,15; di Euro 37.029,93 per la relativa indennità per l’occupazione temporanea; nonchè quelli di Euro 75.465,74 per l’indennità di occupazione legittima ed Euro 226.397,36 per quella successiva in relazione alla ulteriore estensione di terreno di mq.

5029,33; che dovranno essere ulteriormente ridotti ove le porzioni di terreno effettivamente occupate risultassero di estensione inferiore a seguito dell’indagine devoluta al giudice di rinvio nel precedente par. 3.

Conclusivamente la sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte con rinvio alla stessa Corte di appello di Roma che in diversa composizione provvederà a nuova determinazione sia del risarcimento del danno che di tutti gli indennizzi attenendosi ai principi esposti, e provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte,riunisce i ricorsi,e li accoglie nei limiti di cui in motivazione,cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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