Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-03-2011, n. 5983 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con decreto del 24 novembre 2006, la Corte d’Appello di Roma ha accolto la domanda di equa riparazione proposta da B.E. nei confronti del Ministero della Giustizia per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio avente ad oggetto il pagamento degli interessi dovuti dall’INPS per il ritardo nella corresponsione del trattamento speciale di disoccupazione.

Premesso che il giudizio, promosso dinanzi al Tribunale di Nola nell’anno 2002, non era stato ancora definito, la Corte ne ha determinato la ragionevole durata in due anni e sei mesi, avuto riguardo al suo oggetto ed all’assenza di problemi giuridici di particolari difficoltà, e, tenuto conto della natura del giudizio, dell’importanza dei diritti coinvolti, del valore della controversia e della misura della partecipazione emotiva connessa alla materia trattata, ha liquidalo il danno non patrimoniale in Euro 1.200,00, corrispondenti ad Euro 900,00 per ciascun anno di ritardo.

2. – Avverso il predetto decreto il B. propone ricorso per cassazione, articolato in quindici motivi. Il Ministero non ha svolto difese.
Motivi della decisione

1. – Con il primo, il terzo ed il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, e dell’art. 6, par. 1, della CEDU, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, censurando il decreto impugnalo nella parte in cui ha riconosciuto l’indennizzo soltanto per i periodo di tempo eccedente la ragionevole durata del processo, anzichè per l’intera durata del giudizio presupposto, astenendosi dal disapplicare le norme interne contrastanti con la Convenzione e contravvenendo ai principi enunciati dalla Corte EDU. 1.1. – I motivi sono infondati.

Ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), infatti, l’indennizzo per la violazione del termine di ragionevole durata del processo non dev’essere correlato alla durata dell’intero processo, ma al solo segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole. Tale criterio di calcolo appare non solo conforme al principio enunciato dall’art. 111 Cost., il quale prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza, ma, come riconosciuto dalla stessa Corte EDU nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36811/97, non si pone neppure in contrasto con l’art. 6, par. 1, della CEDU, in quanto non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione (cfr. Cass. Sez. 1^, 23 novembre 2010, n. 23654:

14 febbraio 2008. n. 3716).

2. E’ parimenti infondato il secondo motivo, con cui il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, osservando che nella determinazione della durata ragionevole del processo la Corte d’Appello si è discostata dai criteri elaborati in riferimento alle controversie previdenziali, la cui durata, per il giudizio di primo grado, è stata quantificata dalla giurisprudenza di legittimità in due anni e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tre anni, avuto riguardo alla maggiore celerità imposta dall’esigenza di tutela dei soggetti più deboli.

2.1. – Nella determinazione della ragionevole durata del processo, la Corte d’Appello si è infatti attenuta ai criteri cronologici elaborali dalla Corte EDU, alle cui sentenze, riguardanti l’interpretazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU, deve peraltro riconoscersi, secondo l’orientamento ormai consolidato di questa Corte, soltanto il valore di precedente, non rinvenendosi nel quadro delle fonti dell’ordinamento interno meccanismi normativi che ne comportino la diretta vincolatività per il giudice italiano (cfr.

Cass. Sez. 1^, 19 novembre 2009, n. 24399: 11 luglio 2006, n. 15750).

La natura previdenziale della causa non è d’altronde sufficiente a giustificare l’applicazione di un termine ridotto di durata, in quanto la disciplina del processo del lavoro, applicabile a tali controversie, non comporta forme di organizzazione diverse, tali da differenziarne il corso in relazione all’oggetto del giudizio, e non impone quindi di fare riferimento a parametri diversi dagli standards comuni elaborati dalla Corte EDU e recepiti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, (cfr. Cass. Sez. 1^ 30 ottobre 2009, n. 23047: 24 settembre 2009, n. 20546).

3. – Sono altresì infondati il quinto, il sesto ed il settimo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 6, par. 1, della CEDU e dei principi enunciati dalla Corte EDU, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, censurando il decreto impugnato nella parte in cui non si è attenuto agli standards europei nella quantificazione del danno non patrimoniale.

3.1 – E’ pur vero, infatti, che, come ripetutamente affermato da questa Corte, il giudice nazionale, se da un lato non può ignorare, nella liquidazione del ristoro dovuto per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri applicati dalla Corte EDU, dall’altro può apportarvi le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli.

E’ stato tuttavia precisato che, ove non emergano elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa comporta, alla stregua della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che la quantificazione di tale pregiudizio dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente il periodo indicato comporta un evidente aggravamento del danno (cfr. Cass., Sez. 1, 30 luglio 2010, n. 17922: 14 ottobre 2009, n. 21840).

Tali parametri sono stati sostanzialmente rispettati dalla Corte d’appello, la quale, dato atto dello stress, del disagio e delle preoccupazioni ingiustamente patiti dal ricorrente per l’eccessiva durata del processo, superiore di sedici mesi rispetto a quella ritenuta ragionevole, ha liquidato il danno non patrimoniale in Euro 900,00 per ciascun anno di ritardo, avuto riguardo alla natura del giudizio, all’importanza dei diritti sostanziali nello stesso coinvolti ed al valore patrimoniale della controversia, nonchè alla misura della partecipazione emotiva che la materia della causa e la vicenda umana alla stessa sottesa avevano presumibilmente indotto nel B., in tal modo attribuendo a quest’ultimo un importo maggiorato rispetto a quello risultante dai criteri di base enunciati dalla Corte EDU. 4. – Con l’ottavo ed il nono motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, rilevando che la Corte d’Appello ha omesso di pronunciare in ordine alla domanda di riconoscimento del bonus di Euro 2.000,00 dovuto in relazione alla natura del giudizio presupposto, avente ad oggetto un credilo previdenziale.

4.1. La censura è infondata.

L’inclusione delle cause di lavoro e di quelle previdenziali nel novero di quelle per le quali la Corte EDU ha ritenuto che la violazione del termine di ragionevole durata possa giustificare il riconoscimento di un importo forfetario aggiuntivo, in ragione della particolare importanza della controversia, non significa infatti che dette cause debbano necessariamente considerarsi particolarmente importanti, con la conseguente automatica liquidazione del predetto maggior indennizzo. Ne consegue da un lato che il giudice di merito può tener conto della particolare incidenza del ritardo sulla situazione delle parti, che la natura giuslavoristica della controversia comporta, nell’ambito della valutazione concernente la liquidazione del danno, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione al riguardo, nel senso che il mancato riconoscimento del maggior indennizzo si traduce nell’implicita esclusione della particolare rilevanza della controversia (cfr. Cass. Sez. 1, 3 dicembre 2009, n. 25446: 29 luglio 2009, n. 17684): dall’altro che, ove sia stato negato il riconoscimento di tale pregiudizio, la critica della decisione sul punto non può fondarsi sulla mera affermazione che il bonus in questione spetta ratione materiae, era stato richiesto e la decisione negativa non è stata motivata, ma deve avere riguardo alle concrete allegazioni ed alle prove addotte nel giudizio di merito, che nella specie non sono state in alcun modo richiamate (cfr. Cass., Sez. 1^, 28 gennaio 2010, n. 1893: 28 ottobre 2009, n. 22869).

5. E’ altresì infondato il decimo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU, dell’art. 1 del relativo protocollo aggiuntivo, sostenendo che la Corte d’Appello ha liquidato le spese processuali in misura insufficiente rispetto agli standards europei.

5.1. Nei giudizi di equa riparazione promossi ai sensi della L. n. 89 del 2001, che si svolgono dinanzi al giudice italiano secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito, la liquidazione delle spese processuali deve essere infatti effettuata applicando le tariffe professionali vigenti nell’ordinamento italiano, e non già in base agli onorari liquidati dalla Corte EDU, i quali attengono esclusivamente al regime del procedimento che si svolge dinanzi alla Corte di Strasburgo, dal momento che la liquidazione del compenso per l’attività professionale prestata dinanzi ai giudici dello Stato deve aver luogo secondo le norme che disciplinano la professione legale davanti alle corti ed ai tribunali di quello Stato (cfr.

Cass., Sez. 1, 11 settembre 2008, n. 23397).

6. – Sono invece parzialmente fondati i motivi dall’undicesimo al quindicesimo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. e della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, sostenendo che la Corte d’Appello ha liquidato le spese processuali senza tener conto della natura contenziosa del procedimento, e comunque in misura non conforme alle tariffe professionali vigenti, discostandosi dalla nota specifica da lui depositata, senza fornire alcuna motivazione.

6.1. – Benvero, dalla motivazione del decreto impugnato non risulta in alcun modo che, come sostiene il ricorrerne, la liquidazione delle spese abbia avuto luogo secondo la tariffa vigente per i procedimenti in camera di consiglio, anzichè in base a quella relativa ai procedimenti contenziosi, la cui applicabilità discende dalla natura della controversia, riguardante contrapposte posizioni di diritto soggettivo e destinata a chiudersi con un provvedimento pronunziato nel pieno contraddittorio delle parti ed avente natura sostanziale di sentenza. Il ricorrente, inoltre, pur dolendosi del mancato riconoscimento delle prestazioni indicate nella nota specifica asseritamente depositata nel giudizio dinanzi alla Corte d’Appello, si è astenuto dal riportarne il contenuto nel ricorso, limitandosi ad includervi alcune tabelle estratte dalla tariffa professionale.

Nondimeno, occorre rilevare che l’importo liquidalo con il decreto impugnato Euro 300,00 per onorario, Euro 150,00 per diritti ed Euro 18,58 per esborsi) risulta inferiore a quello minimo derivante dall’applicazione delle tabelle A, par. 4^, e B, par. 1^, allegate al D.M. 8 aprile 2004, n. 127, con conseguente violazione del principio di inderogabilità degli onorari minimi e dei diritti stabiliti dalla tariffa professionale, sancito dalla L. n. 74 del 1942, art. 24, alla cui osservanza il giudice è tenuto anche in assenza di una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, attraverso l’indicazione del sistema di liquidazione adottato, non potendo limitarsi ad una determinazione globale dei compensi dovuti, senza precisazione delle voci non considerate o ridotte (cfr. Cass., Sez, 1^, 7 ottobre 2009, n. 21371).

7. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, limitatamente alla parte concernente la liquidazione delle spese processuali, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, mediante una nuova liquidazione delle spese, che segue come dal dispositivo, con attribuzione al procuratore dichiaratosi anticipatario.

8. – Il limitato accoglimento dell’impugnazione giustifica la parziale compensazione delle spese relative al giudizio di legittimità, che per il residuo vanno poste a carico del Ministero, e si liquidano per l’intero come dal dispositivo, con attribuzione al procuratore anticipatario.
P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia a corrispondere a B.E. le spese del giudizio di merito, che si liquidano in complessivi Euro 830,00, ivi compresi Euro 500,00 per onorario, Euro 280.00 per diritti ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’Avv. MARRA Alfonso Luigi, antistatario: condanna il Ministero della Giustizia al pagamento di un terzo delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano per l’intero in complessivi Euro 600,00, ivi compresi Euro 500,00 per onorario ed Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv. MARRA Alfonso Luigi, antistatario, dichiarando compensali tra le parti i residui due terzi.

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