Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 26-01-2011) 09-02-2011, n. 4617

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

F.E. ricorre per Cassazione a mezzo del suo difensore contro la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di Appello di Perugia confermava la decisione in data 18/9/2008 del Tribunale di Terni in composizione monocratica che lo aveva dichiarato colpevole del reato di calunnia ex art. 368 c.p., e condannato alla pena di giustizia oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, per avere con denuncia querela alla Procura della Repubblica incolpato B.I. del delitto di appropriazione indebita di quadri e gioielli, di cui aveva la disponibilità, quale esecutrice testamentaria, nonchè di diffamazione nei confronti del F. E., pur sapendolo innocente.

La vicenda processuale traeva origine da una divisione ereditaria, conseguente al decesso di L.O., che nel disporre dei suoi beni aveva lasciato alla vedova C.L. solo l’usufrutto, mentre devolveva la nuda proprietà ad alcuni nipoti tra i quali l’imputato e all’avv. B.I., nominata esecutore testamentario. Nella denuncia, ritenuta calunniosa, il F. dichiarava che nell’avviare un procedimento per interdizione della zia, a suo dire funzionale alla necessità di amministrare le sue entrate e di regolarizzare le due badanti, che assistevano la donna, aveva rilevato la presenza nel fascicolo relativo all’interdizione di una istanza della B. dal contenuto diffamatorio nei suoi confronti e che si era accorto durante le frequenti visite alla zia che da quando l’avv. B. era entrata in possesso dell’asse ereditario erano spariti dalla villa molti quadri e tutti i gioielli, rilevando che non risultava che l’esecutrice testamentaria avesse ottemperato all’obbligo di inventario prima dell’immissione in possesso o avesse reso un rendiconto della sua gestione.

Il procedimento penale a carico della B. in ordine al reato di cui agli artt. 595 e 61 c.p. si concludeva con provvedimento di archiviazione del G.I.P. in data 5/6/06 e quanto alla sparizione dei gioielli si riteneva in entrambe le sentenze di primo e secondo grado che il reato di appropriazione indebita, oggetto di calunnia era procedibile di ufficio, essendo stata contestata l’aggravante dell’abuso della relazione di ufficio ex art. 61 c.p., n. 11, che a nulla rilevava il precedente provvedimento di archiviazione in ordine al reato di diffamazione, che non era l’unico ravvisabile nella denuncia dell’imputato, richiamata la natura di reato di pericolo della calunnia, che le dichiarazioni contenute nella denuncia ed in particolare l’uso di un verbo intransitivo, quale "sono spariti" non si prestassero ad alcuna diversa interpretazione e che il F. era perfettamente a conoscenza che quanto meno i preziosi o parte di essi erano stati in precedenza donati a L.A., nipote del de cuius, convivente con la coppia L. – C., conoscenza che lo stesso F. aveva finito con l’ammettere, che infine non si poteva dubitare della sussistenza dell’elemento psicologico del reato, caratterizzato dal dolo, inteso come coscienza e volontà di accusare taluno di un fatto costituente reato nella consapevolezza della sua innocenza.

A sostegno della richiesta di annullamento dell’impugnata decisione il ricorrente denuncia in una lunga e articolata memoria la violazione di legge, il vizio di motivazione e l’erronea valutazione del compendio probatorio e il travisamento del contenuto della denuncia-querela, nella quale il denunciante non aveva mai inteso accusare l’avv. B., ma piuttosto agire al fine di tutelare la propria posizione di erede, Ad avviso della difesa la B. non era mai stata indagata per il reato di appropriazione indebita, ma solo per il reato di diffamazione, l’unica condotta ascrivibile, per la quale era intervenuto decreto di archiviazione, e solo a procedimento archiviato la donna si era determinata a sporgere denuncia per il reato di calunnia per i fatti della presunta appropriazione, dopo la mancata opposizione del F. all’archiviazione e quando erano ormai decorsi i termini per la proposizione della querela, trattandosi di reato perseguibile a querela di parte.. L’intero giudizio sia in primo che in secondo grado, incalza la difesa, aveva avuto ad oggetto un’ipotesi di calunnia, relativa ad un’accusa, che il F. non aveva mai inteso rivolgere all’avv. B. e comunque improcedibile per decorrenza dei termini per la presentazione della querela, e per giunta riferibile ad un’attività di indagine svoltasi per un altro reato.

Esaminando nel dettaglio i contenuti della denuncia-querela, il difensore adduce che l’imputato con riferimento ai gioielli e ai quadri aveva utilizzato un verbo intransitivo "sono spariti", proprio per dare atto di una scomparsa misteriosa, come tale riferibile a qualcuno non individuabile e non certo alla B. e che il riferimento a costei aveva semplicemente la finalità di collocarne nel tempo la sparizione in un contesto nel quale peraltro la stessa B. aveva segnalato che vi era necessità di custodire i quadri della casa, dato che la C. conviveva con badanti di non sicura affidabilità.

Il ricorso è inammissibile.

Osserva infatti il collegio che le censure proposte difettano di specificità, siccome speculari a quelle poste a sostegno del gravame, già esaminate e congruamente respinte dalla Corte territoriale.

Tali censure peraltro esorbitano dal catalogo dei casi di ricorso, disciplinati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, profilandosi come doglianze non consentite ai sensi del cit.art., comma 3, volte, come esse appaiono ad introdurre come "thema decidendum" una rivisitazione del "meritum causae", preclusa, come tale, in questa sede.

Va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente analizzato e descritto le coordinate e i limiti entro cui deve svolgersi il controllo sulla motivazione dei provvedimenti giudiziari (ex multis Cass.Sez.Un.23/6/2000 n.12; 2/7/1997 n.6402; 29/1/1996 n. 930).

In particolare è stato più volte chiarito che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato è rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia sorretta nei suoi punti essenziali da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica, non fondate su dati contrastanti con il "senso della realtà" degli appartenenti alla collettività ed infine esenti da vistose e insormontabili incongruenze tra di loro.

In altri termini e in linea con la previsione normativa il controllo di legittimità si appunta esclusivamente sulla coerenza strutturale "’interna" della decisione, di cui saggia la oggettiva "tenuta" sotto il profilo logico-argomentativo e tramite questo controllo anche l’accettabilità del provvedimento da parte di un pubblico composto da lettori razionali e da osservatori disinteressati alla vicenda processuale.

Al giudice di legittimità è invece preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati del giudice del merito, perchè ritenuti maggiormente o plausibili o dotati di una maggiore capacità esplicativa).

Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Ciò posto e considerato che nel caso in esame la Corte distrettuale ha dato conto con puntuale e adeguato apparato argomentativo sia in fatto che in diritto, cui si è fatto cenno, delle ragioni della conferma del giudizio di colpevolezza, enunciando analiticamente gli elementi e le circostanze di fatto convergenti e rilevanti a tal fine e non mancando di rispondere a tutte le censure, sottoposte al suo esame, le stesse riversate nel ricorso, la motivazione non appare sindacabile in sede di controllo di legittimità della sentenza impugnata, soprattutto quando il ricorrente si limiti sostanzialmente, come nella fattispecie, a sollecitare un non consentito riesame del merito attraverso la rilettura del materiale probatorio.

Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 c.p.p., di Euro 1.000,00, oltre alla rifusione alla parte civile delle spese del grado, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, nonchè a rifondere le spese processuali sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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