Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 14-01-2011) 09-02-2011, n. 4758 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con ordinanza deliberata in data 17 giugno 2010, depositata in cancelleria il 22 giugno 2010, il Tribunale di Sorveglianza di Ancona dichiarava inammissibile l’istanza di detenzione domiciliare avanzata nell’interesse di K.W., mentre rigettava quella di affidamento terapeutico.

2. – Avverso il citato provvedimento, tramite il proprio difensore, ha interposto tempestivo ricorso per cassazione il K. chiedendone l’annullamento per motivazione contraddittoria e illogica. Contrariamente a quanto assunto dal giudice la tossicomania dell’odierno ricorrente non è affatto grave, bensì lieve, in relazione al quale il programma terapeutico per lui redatto si profila quindi adeguato e idoneo. Inoltre i precedenti penali del datore di lavoro presso cui il ricorrente esercita attività lavorativa afferiscono o a fatti lievissimi o a fatti per i quali è intervenuta archiviazione.
Motivi della decisione

3. – Il ricorso è fondato e merita accoglimento: l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Ancona per nuovo esame.

3.1 – In tema di accesso alla misura ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 94, questa Corte si è più volta espressa ribadendo il principio che la pericolosità rende inidonea la misura invocata. Il legislatore, con la L. n. 49 del 2006, proprio in riferimento all’istituto dell’affidamento terapeutico, disciplinato dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 94, prevede infatti al comma quarto che tale programma debba assicurare la prevenzione dei reati, così uniformandosi alla giurisprudenza di questa Corte, che più volte aveva segnalato come il giudice, ben lungi dall’accettare supinamente il programma stesso, dovesse valutare la pericolosità del condannato, la sua attitudine a intraprendere positivamente un trattamento, al fine di garantire un effettivo reinserimento nel consorzio civile (cfr. Cass., Sez. 1^, 4 aprile 2001, Di Pasqua; Sez. 1^, 10 maggio 2006, n. 18517). Questa condizione negativa rende sufficiente il diniego della richiesta in parola e corrobora la motivazione indicata dal giudice di merito.

Inoltre va osservato che il testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti ( D.P.R. n. 309 del 1990, art. 94), nelle più recente versione offerta dal D.L. 30 dicembre 2006, n. 272, convertito con modificazioni nella L. 21 febbraio 2006, n. 49, ha sottoposto la concessione dell’affidamento in prova in casi particolari a condizioni sicuramente più rigide rispetto al passato e tali da impedire un ricorso strumentale all’istituto al fine di ottenere benefici altrimenti non concedibili, specie in relazione a scadenze di pena che non consentono la concessione di altre misure alternative.

Ferma restando la natura discrezionale del provvedimento, l’art. 94 citato richiede, ai fini dell’ammissione al beneficio, oltre al fatto che la domanda provenga da un condannato tossicodipendente o alcooldipendente, anche che questi abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottacersi e che alla domanda sia allegata una certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da una struttura privata accreditata attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza, la procedura con la quale è stato accertato l’uso abituale di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche, l’andamento del programma concordato eventualmente in corso e la sua idoneità ai fini del recupero del condannato (comma primo).

E’ altresì del resto giurisprudenza consolidata di questa Corte (Cass., Sez. 1^, 24 Maggio 1996, Bartolomeo) ritenere che l’istituto persegua l’obbiettivo non tanto di creare una nuova figura di misura alternativa, quanto piuttosto di ampliare e parzialmente modificare l’ambito applicativo della ordinaria misura dell’affidamento in prova di cui alla L. n. 354 del 1975, art. 47.

La Corte Costituzionale, con sentenza 5 dicembre 1997, n. 377, nel rigettare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 32 Cost., della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 67, in relazione alla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47 bis, e successive modificazioni, nonchè al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 94, ha chiarito che la rado dell’affidamento "terapeutico" di persona tossicodipendente o alcooldipendente, è quella appunto di perseguire la cura del reo, per cui il programma di recupero assume un ruolo di centralità nella applicazione della misura vista sempre nell’ottica di un affrancamento del soggetto vuoi dalla droga e/o dall’alcool vuoi dal mondo della devianza. Ne consegue che, a fronte di un valutazione a priori di pericolosità del condannato, il programma terapeutico diviene di per sè inidoneo ad arginare, per sua natura, le attitudini criminose del soggetto, posto che la riuscita del progetto di recupero dipende dalla collaborazione del medesimo interessato, negata in radice dalla sua stessa condizione di persona pericolosa.

3.2. – Alla luce di questi principi il Tribunale di Sorveglianza, con motivazione carente e superficiale in relazione alle doglianze difensive, ha valutato in modo negativo, ma senza adeguata e sufficiente motivazione, i documenti resisi disponibili in giudizio non mettendo correttamente a fuoco l’attuale condizione di tossicodipendenza del condannato quale emergente dagli stessi, passo necessario e indefettibile per esaminare nella giusta ottica l’idoneità e serietà del programma terapeutico proposto.

Anche la valutazione (generica e) negativa circa la frequentazione di soggetti pregiudicati da parte del K. (limitata per la verità al datore di lavoro che per contro risulterebbe attinto da modestissime censure risalenti nel tempo, in relazione alle quali il giudice non motiva in che misura tali pregiudizi potrebbero essere di nocumento per il recupero del ricorrente) non si profila logica ed esaustiva sicchè, sotto tale specifico profilo, si dimostra viziata di legittimità. E’ appena il caso infatti di rilevare che un soggetto che abbia inteso reinserirsi nella società avviando una attività lecita (dando così dimostrazione del successo del trattamento rieducativo operato nei suoi confronti) non può costituire di per sè solo motivo di disvalore e ragione per reputare l’ambiente di lavoro da lui stesso creato sconsigliabile a chi, suo dipendente, è mosso dalle stesse motivazioni di recupero.

4. – Ne consegue che deve adottarsi pronunzia ai sensi dell’art. 623 c.p.p., come da dispositivo.
P.Q.M.

annulla con rinvio l’ordinanza impugnata e dispone trasmettersi gli atti per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Ancona.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *