Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 14-01-2011) 09-02-2011, n. 4754 Trattamento penitenziario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con ordinanza deliberata in data 8 giugno 2010, depositata in cancelleria il 10 giugno 2010, il Tribunale di Sorveglianza di Torino, in costanza della richiesta di proroga della ordinanza che aveva disposto per mesi sei il differimento dell’esecuzione della pena avendo ritenuto l’incompatibilità delle condizioni cliniche del richiedente con il regime carcerario (la perizia psichiatrica d’ufficio aveva diagnosticato un disturbo depressivo maggiore con episodi ricorrenti) rigettava la proroga del differimento della pena nella forma della detenzione domiciliare avanzata L. 26 luglio 1975, n. 354, ex art. 47 ter, comma 1 bis, nell’interesse di A. C..

Il giudice decideva in esito alla valutazione degli accertamenti disposti sia durante il periodo semestrale che al termine dello stesso (onde testare le condizioni cliniche del soggetto, in rapporto alla compatibilità del regime intramurario) in particolare venivano esaminate le relazioni della psicoterapeuta che aveva seguito l’ A. e della direzione sanitaria della Casa di cura neuropsichiatrica "(OMISSIS)". Sulla considerazione dei progressi dimostrati in campo terapeutico e delle riconquistate relazioni sociali – che avevano permesso all’odierno ricorrente non solo lo svolgimento di attività lavorativa, ma anche l’avvio di un ciclo di studi – era stato dal Tribunale di Sorveglianza escluso che il prefato versasse in uno stato di malattia tale da legittimare la prosecuzione del richiesto beneficio considerata la sua elevata pericolosità sociale.

2. – Avverso il citato provvedimento, tramite il proprio difensore, ha interposto tempestivo ricorso per cassazione A.C. chiedendone l’annullamento per apparente motivazione. Il provvedimento gravato aveva confuso gli strumenti della terapia (l’attività lavorativa e gli intrapresi studi universitari) con il risultato della terapia stessa fuorviandone il significato che non poteva essere assunto come prova della piena salute dell’ A..
Motivi della decisione

3. – Il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.

3.1. – Giova premettere che il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito per ritenere giustificata la proroga, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (Sez. Un. 28 maggio 2003, Pellegrino, rv. 224611; Sez. 1^, 9 novembre 2004, Santapaola, rv. 230203). Nessun profilo di illegittimità sotto questo profilo (di mancanza o apparenza di motivazione, come denunciato dal ricorrente) è osservabile nel provvedimento gravato.

3.2. – Per quanto più specificatamente riguarda la concessione della proroga del rinvio dell’esecuzione della pena detentiva per grave infermità fisica, il giudice deve infatti valutare, non se il soggetto sia guarito definitivamente, ma, stante la necessità di applicare il principio immanente della indefettibilità della pena e della sottostante necessità di tutelare il bene anch’esso primario della tutela dell’ordine pubblico minacciata dalla non eliminata elevata pericolosità sociale dell’ A., se le condizioni di salute del condannato permangano incompatibili con le finalità rieducative della pena e con le possibilità concrete di reinserimento sociale conseguenti alla rieducazione; la prosecuzione del differimento dell’esecuzione deve infatti essere disposta solo quando, tenuto conto della natura dell’infermità e di un’eventuale prognosi infausta "quoad vitam" a breve scadenza, l’espiazione si ponga in contrasto col senso d’umanità per le eccessive sofferenze da essa derivanti (cfr. Cass., Sez. 1^, 14 novembre 2007 n. 45758;

Sez. 1^, 30 marzo 2004 n. 17947) e non quando il trattamento detentivo divenga nuovamente "accettabile" in esito al bilanciamento degli interesse contrapposti (diritto alla vita e alla salute da un lato, interesse pubblico alla espiazione della pena e all’ordine pubblico dall’altro).

In altre parole perchè il condannato possa sottrarsi (temporaneamente e definitivamente) alla pena espianda occorre un livello molto alta di gravità della malattia, che sia tale cioè o da ritenere inutile la permanenza in carcere del detenuto non più in grado di rendersi conto delle finalità rieducative della stessa carcerazione ovvero che la restrizione non consenta in assoluto un trattamento adeguato a contrastare la patologia sofferta, cura senza la quale il condannato non sarebbe destinato (con ragionevole certezza) alla sopravvivenza ovvero si tratti di uno stato morboso o di scadimento fisico capace di determinare una situazione di esistenza al di sotto di una soglia di dignità da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria (Cass., Sez. 1^, 8 maggio 2009, n. 22373, Aquino, rv. 244132).

La giurisprudenza di questa Corte ritiene infatti che, anche in presenza di patologie sicuramente gravi, come quelle accertate nei confronti dell’odierno ricorrente, il giudice non è tenuto automaticamente a concedere la misura alternativa della detenzione domiciliare in casa di cura, dovendo invece verificare se la situazione patologica sia congruamente fronteggiabile in ambiente carcerario, essendo unicamente richiesto che ciò non contrasti con il basilare senso di umanità, al quale deve ritenersi improntata l’esecuzione delle pene e che la situazione patologica accertata non sia tale da impedire il normale regime trattamentale (cfr. Cass., Sez. 1^, 24 giugno 2008 n. 27313, rv. 240877).

3.3. – Alla luce di questi principi è da ritenere che l’ordinanza gravata sia sorretta da motivazione congrua, immune da illogicità di sorta, sicuramente contenuta entro i confini della plausibile opinabilità di apprezzamento e valutazione (v. per tutte: Cass., Sez. 1^, 5 maggio 1967, n. 624, Maruzzella, rv. 105775 e, da ultimo, Sez. 4, 2 dicembre 2003, n. 4842, Elia, rv. 229369) e men che meno affetta da motivazione apparente.

Si osserva al contrario che il Tribunale di Sorveglianza di Torino ha motivato in modo completo ed esaustivo in ordine alla compatibilità delle condizioni di salute attuali del ricorrente col regime carcerario e alla possibilità che le pur gravi patologie da cui è affetto, e più sopra indicate, possano essere ora adeguatamente fronteggiate in 4 ambito carcerario.

Il giudice, dopo aver adeguatamente accertato la situazione clinica del ricorrente, alla luce della documentazione raccolta durante il suo monitoraggio, ha ritenuto infatti in modo del tutto logico che il condannato avrebbe potuto ricevere, presso un centro clinico all’interno di un carcere, le cure necessarie ulteriori, attesi i miglioramenti ottenuti in un periodo contenuto di tempo che gli avevano consentito di gestire in modo del tutto soddisfacente la propria pur grave patologia e i deficit interpersonali in precedenza osservati.

Non si tratta quindi di confondere terapia con il risultato della terapia, come lamenta il ricorrente ricorrendo a una espressione suggestiva, ma di constatare come sia bastato un breve trattamento terapeutico per attenuare in modo più che apprezzabile le condizioni cliniche in precedenza diagnosticate (finendo per scendere sensibilmente sotto quella soglia di stallo tra gli interessi contrapposti, cui prima si faceva riferimento) sicchè, come evidenziato dal Tribunale di Sorveglianza, ben può fondatamente residuare il dubbio, anche a seguito del giudizio dubitativo formulato dal direttore sanitario della Casa di Cura "Villa Patrizia" nella sua relazione clinica del 25 maggio 2010 in atti, che larga parte del disturbo lamentato dall’ A. fosse in realtà connesso con il suo stato detentivo, mentre è principio consolidato di questa Corte di legittimità ritenere che la restrizione intramuraria non costituisce per contro, nè può costituire di per sè solo, fattore di aggravamento e di rischio per l’integrità fisica del malato, in quanto la detenzione in sè, a prescindere dalle conseguenze fisio – psicologiche tipiche della privazione della libertà, non è ragione di deterioramento dello stato di salute dell’individuo.

4. – Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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