Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 14-01-2011) 09-02-2011, n. 4703 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza deliberata in data 15 aprile 2010, depositata in cancelleria il 29 aprile 2010, la Corte di Assise di Appello di Catania, in parziale riforma della sentenza 23 marzo 2009 del Giudice della Udienza preliminare del Tribunale della medesima città, ritenute le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, ritenuta la continuazione con i reati di cui all’ordinanza della stessa Corte di Assise 4 febbraio 2003, considerato come più grave il delitto di omicidio ai danni di P. F., tenuto conto della diminuzione del rito abbreviato eletto, riduceva la pena per B.P., imputato in questo giudizio di tre episodi omicidiari (ai danni di G.S., S. G. e C.G.) aggravati tutti e tre dalla premeditazione e dai motivi abietti, ad anni sei e mesi otto di reclusione e, per l’effetto dell’art. 81 cpv. c.p., rideterminava la pena complessiva nei confronti dello stesso in anni diciassette e mesi uno di reclusione, confermando nel resto.

2. – Avverso tale decisione, tramite il proprio difensore avv. Sante Foresta, ha interposto tempestivo ricorso per cassazione B. P. chiedendone l’annullamento per i seguenti profili:

– inosservanza ed erronea applicazione della legge penale nonchè per mancanza, manifesta contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine al quantum di pena inflitta anche con riferimento al giudizio di equivalenza delle ritenute attenuanti generiche; aveva per vero errato il giudice, che ha ritenuto sussistenti le attenuanti generiche, ad applicarle con giudizio di mera equivalenza posto che, dopo che era già stata ritenuta dal primo giudice la diminuente di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203, equivalente alle contestate aggravanti e alla recidiva, non erano residuate altre aggravanti da bilanciare ai sensi dell’art. 69 c.p.; inoltre, poichè la sentenza di secondo grado ha ritenuto la diminuente di cui all’art. 8 citata prevalente sulle contestate aggravanti occorreva calcolarla da un terzo alla metà, cosa che invece non era stata fatta dal giudicante; inoltre non si comprende, per non essere stato esplicitato in sentenza, per quale motivo il giudice avesse ritenuto di dover punire l’omicidio G. a una pena doppia rispetto a quella degli altri due fatti di sangue esattamente identici.

Con motivi nuovi, ai sensi dell’art. 611 cp.p., depositati in cancelleria in data 23 novembre 2010, l’avv. Sante Foresta ha ripreso e approfondito le doglianze già espresse in ricorso, insistendo per l’accoglimento delle medesime.
Motivi della decisione

3. – Il ricorso è fondato e merita accoglimento: la sentenza impugnata va annullata con le determinazioni di cui in dispositivo.

3.1. – Da respingersi è la doglianza difensiva che attiene all’errato calcolo della diminuente di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art 8, posto che risulta anzi essere stata applicata "virtualmente" dal giudice in favore del B., sulla ritenuta pena base di anni ventiquattro di reclusione (parametro di per sè necessario per quantificare l’incidenza della stessa diminuente, visto che la pena in primo grado era stata stabilita in aumento di quella di cui all’ordinanza 4 febbraio 2003 della Corte di Assise di Appello di Catania) giungendo alla pena di otto anni di reclusione che non è infatti nè il terzo, nè la metà di ventiquattro anni, bensì i due terzi. Dunque il giudice ha applicato la diminuente per un importo superiore al consentito, atteso peraltro che una volta ottenuta la pena di anni cinque e mesi sei di reclusione, nonostante avesse ritenuto le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti e alla recidiva, ha poi ritenuto la pena base su cui applicare l’aumento per la continuazione dei due successivi omicidi, in anni cinque di reclusione.

3.2. – Nè può qui invocarsi alcun vincolo di giudicato derivante dal precedente giudizio di primo grado posto, che pendente il gravame del solo imputato (che è anche il motivo per il quale gli errori di cui al precedente paragrafo non sono in alcun modo emendabili visto che sono a favore dell’imputato), l’unico obbligo era quello di rispettare il principio del divieto di "reformatio in pejus" in carenza di una impugnativa da parte della pubblica accusa.

E’ infatti opinione di questa Suprema Corte che il divieto della riforma peggiorativa per il giudizio in grado di appello afferisce soltanto al risultato finale dell’operazione di computo della pena, "non anche ai criteri di determinazione della medesima e ai relativi calcoli (di pena base o intermedi)" (cfr. sul punto: Cass., Sez. 3, 24 marzo 2010, n. 25606, rv. 247739, Capolino e altro; Sez. 5, 14 marzo 1990, Mariani, rv. 184228; Sez. 4, 24 aprile 1990, Stankovic, rv. 184879; Sez. 3, 13 dicembre 1991, rv. 190740). Il principio è stato ribadito anche con la precisazione che il giudice nella sentenza impugnata può determinare taluni aumenti in modo anche diverso e meno favorevole per l’imputato, rispetto ai calcoli effettuati dal giudice di primo grado, non dando luogo ad alcuna violazione del principio di cui si discute "in quanto il detto divieto concerne la parte dispositiva della sentenza e non si estende alla motivazione nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti" (Cass., Sez. 5, 25 febbraio 2005, De Finis, rv.

231695).

3.3. – E il divieto nella fattispecie risulta essere stato rispettato in quanto, mentre infatti in primo grado è stata irrogata la pena di complessivi anni diciotto e mesi cinque di reclusione (anni otto di reclusione in aumento della pena di anni dieci e mesi cinque di reclusione di cui all’ordinanza 4 febbraio 2003 più sopra menzionata, calcolata in continuazione con la sentenza gravata) in secondo grado è stata irrogata la pena (minore) di anni diciassette e mesi uno di reclusione (anni sei e mesi otto di reclusione in aumento della pena di cui alla menzionata ordinanza).

3.4. – E non può qui neppure sostenersi, così come suggerisce il ricorrente, che, una volta applicata in primo grado la diminuente del più volte citato art. 8 sulla recidiva e le aggravanti contestate, non vi fossero altre aggravanti su cui operare in secondo grado la comparazione delle applicate attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p., posto che, una volta svincolata la diminuente detta dalla valutazione ex art. 69 c.p. con le aggravanti in contestazione, giusta per poterla applicare in modo autonomo in ottemperanza del recente decisum delle Sezioni Unite (Sez. U, 25 febbraio 2010, n. 10713, Contaldo, rv. 245930), le aggravanti in questione erano divenute nuovamente comparabili ai fini del giudizio. E’ infatti appena il caso di ricordare per chiarezza, circa la necessità di dover operare una diminuzione disgiunta, il richiamato principio di diritto espresso dal massimo consesso secondo cui, qualora sia riconosciuta la circostanza attenuante ad effetto speciale della cosiddetta "dissociazione attuosa", prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203 (provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa) e ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, soggette al giudizio di comparazione, va dapprima determinata la pena effettuando tale giudizio e successivamente, sul risultato che ne consegue, va applicata l’attenuante ad effetto speciale.

Sciolto che sia, dunque, il calcolo che aveva impegnato le componenti del trattamento sanzionatorio (si fa cioè riferimento alle aggravanti contestate da una parte e alla diminuente di cui all’art. 8 citato, applicata dall’altra) onde addivenire alla determinazione della pena più favorevole all’imputato, non può invocarsi nel contempo la non tangibilità di quella stessa determinazione (su cui invece si interviene) per affermare che le attenuanti generiche non hanno più materiale comparativo con cui confrontarsi, posto che, se la diminuente dell’art. 8 non è più utilizzata per la comparazione ex art. 69 c.p., le aggravanti prima impegnate in tal senso diventano libere di essere oggetto di una nuova quanto necessaria valutazione da parte del giudice posto che, in caso contrario, avremmo difatti delle aggravanti su cui il giudicante non ha deciso.

Non è ammissibile in altri termini, nell’ambito della stessa operazione aritmetica e logica, operare in favore dell’imputato senza dover tener conto di tutte le implicazioni, aritmetiche e logiche, che quella stessa operazione comporta, posto che, diversamente opinando, ritenendo cioè non più modificabile la comparizione effettuata dal primo giudice in sentenza, sarebbe come porre a favore del prefato per ben due volte la medesima diminuente della L. n. 203 del 1991, art. 8, in quanto una prima volta, in primo grado, viene applicata in via logica per abbattere le aggravanti contestate (e la recidiva) e una seconda volta, nel secondo grado di giudizio, vi si fa ricorso per calcolare in via aritmetica la diminuente stessa.

3.5. – Nè il giudice di merito ha errato nel ritenere le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti e alla recidiva (anzichè valutarle con giudizio di prevalenza) posto che, una volta che le stesse siano state riconosciute sussistenti non dovevano essere necessariamente conteggiate. Le attenuanti generiche, negate dal primo giudice, non impongono infatti al giudice d’appello, che le concede, di diminuire la pena precedentemente inflitta quando, nel procedere al giudizio di comparazione imposto dal concorso di circostanze di segno opposto, abbia espresso un giudizio di prevalenza delle già ritenute circostanze aggravanti (Cass., Sez. 5, 15 marzo 1991, n. 5161, rv. 187339, Piddin). Salvo per quanto sarà ulteriormente chiarito meglio al paragrafo 3.7, la doglianza non è meritevole quindi di accoglimento.

3.6. – Non fondata è altresì la censura difensiva relativa al diverso trattamento sanzionatorio operato dal giudice di merito in relazione all’omicidio G. (uno dei tre omicidi per cui è giudizio) posto che è stato chiaramente evidenziato, nella parte motivazionale della decisione impugnata, che la maggior severità doveva giustificarsi per il fatto che a tale delitto il B. aveva partecipato come esecutore materiale. Inoltre l’apparente minor pena per gli altri due omicidi è dovuta solo al fatto che il segmento di sanzione pari ad anni due e mesi sei di reclusione stabilito per ciascun ulteriore delitto è stato operato in continuazione sulla pena base di anni cinque di reclusione stabilita appunto per l’omicidio G..

3.7. – Meritevole è invece la censura difensiva secondo cui il giudice di secondo grado non ha dato contezza del fatto che, sebbene abbia ritenuto l’omicidio P. – uno dei fatti omicidiari decisi in altro giudizio – reato più grave tra quelli commessi dal B., ha applicato le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza, mentre nel relativo giudizio di condanna (del P.) erano state applicate con giudizio di prevalenza. E’ in questa contraddizione e nella relativa mancata motivazione che va ravvisato il vizio censurabile di legittimità, cui il giudice del rinvio dovrà porre rimedio.

4. – Ne consegue che deve adottarsi pronunzia ai sensi dell’art. 623 c.p.p. come da dispositivo.
P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Catania.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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