Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 13-01-2011) 09-02-2011, n. 4695 Attenuanti comuni provocazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 17 giugno 2009 la Corte d’appello di Catania riformava, limitatamente al trattamento sanzionatorio – che veniva ridotto ad anni quattro di reclusione – la sentenza del gup del locale Tribunale che il 16 aprile 2008, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato G.G.C. colpevole del delitto di tentato omicidio in danno di V.M.S. ed, esclusa la premeditazione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto della diminuente per il rito, lo aveva condannato alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione.

2. Da entrambe le sentenze di merito emergeva che il 17 aprile 2007 l’imputato, a bordo del proprio fuoristrada "Nissan Patrol", accelerando al massimo e mantenendo una velocità elevata, aveva tamponato violentemente per cinque volte l’auto "Fiat Panda" su cui viaggiava la parte offesa sì da distruggerla. Quindi, sceso dal mezzo, aveva reiteratamente colpito con un’arma da punta e da taglio in parti vitali del corpo la parte offesa, che nel frattempo era riuscita ad abbandonare l’auto, rimasto incastrata tra due veicoli in sosta. L’evento letale non si era verificato grazie al tempestivo intervento di alcuni passanti e del brigadiere dei Carabinieri C..

Gli accertamenti medico legali evidenziavano che l’imputato aveva colpito per otto volte in parti vitali del corpo V. che aveva riportato le seguenti lesioni: due ferite penetranti all’emitorace sinistro, all’altezza del quinto e del sesto spazio intercostale, una ferita penetrante all’emitorace sinistro posteriore, (quinto e sesto spazio intercostale), una ferita penetrante alla cavità peritoneale misograstrica, nonchè ferite da taglio alla mano sinistra e alla regione retro auricolare e nucale sinistra.

I giudici ritenevano provata la responsabilità dell’imputato sulla base delle immagini riprese dall’impianto di videosorveglianza installato all’esterno della caserma dei Carabinieri di Maniace, in prossimità della quale si era verificato il fatto, delle testimonianze di G.S. e P.V.S., delle risultanze della perizia medico legale.

L’attenuante della provocazione, invocata dall’imputato, veniva esclusa, atteso il considerevole lasso di tempo (circa un anno) trascorso tra l’uccisione del fratello di G. per mano di V. – costituente il movente del tentato omicidio – e la successiva reazione.

3. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, l’imputato, il quale formula le seguenti doglianze.

Innanzitutto deduce erronea interpretazione e applicazione della legge penale e vizio della motivazione con riferimento all’omessa derubricazione del reato di tentato omicidio in quello di lesioni volontarie, tenuto conto delle testimonianze acquisite, dell’assenza di elementi obiettivi in merito al possesso di un’arma da parte di G. e delle prospettazioni difensive circa l’inverosimiglianza della ricostruzione della dinamica dell’intero episodio operata dalla sentenza impugnata.

In secondo luogo lamenta violazione di legge e carenza della motivazione con riguardo al denegato riconoscimento dell’attenuante della provocazione.

Infine, prospetta violazione di legge e carenza della motivazione in merito alla determinazione della pena e alle statuizioni civili.
Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato.

1. In relazione alla prima censura la Corte osserva che nell’ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo – ove, come nel caso in esame, manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato – ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quegli elementi della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità semantica, sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Assume valore determinante, per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, perchè altrimenti l’azione, per non avere conseguito l’evento, sarebbe sempre inidonea nel delitto tentato. Il giudizio di idoneità consiste, quindi, in una prognosi formulata ex post con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare (Sez. 1, 15 marzo 2000, rv. 215511; Sez. 1, 7 giugno 1997, rv. 207824).

La sentenza impugnata, in conformità con i principi in precedenza illustrati, ha, con motivazione compiuta e logica, correttamente argomentato la sussistenza del dolo omicidiario sulla base della condotta complessivamente serbata dall’imputato che, in un primo momento, si lanciava a velocità sostenuta con il proprio potente fuoristrada contro la ben più fragile auto a bordo della quale si trovava V., colpendola reiteratamente, sì da distruggerla, e, quindi, aggrediva la parte offesa con uno strumento da punta e da taglio in parti vitali del corpo, cagionando ferite penetranti in sede toracica e addominale, senza peraltro riuscire nel suo intento solo grazie al pronto intervento di terze persone che impedivano a G. di proseguire nella sua azione.

2. Il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;

b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 6, 15 marzo 2006, n. 10951). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.

Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 6, 15 marzo 2006, n. 10951).

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha attentamente analizzato, con motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici, le risultanze probatorie disponibili e ha desunto la sussistenza, oltre ogni ragionevole dubbio, di prove di colpevolezza in ordine al delitto di tentato omicidio contestato al ricorrente in base al contenuto delle videoriprese dell’impianto installato all’esterno della caserma dei Carabinieri di Maniace (in prossimità della quale si verificava il fatto), delle dichiarazioni dei testi oculari ( G.S. e P.V.S.), delle risultanze della perizia medico legale.

Ha, inoltre, argomentato, pure alla luce delle deduzioni difensive, il consapevole e volontario comportamento serbato dal ricorrente, essendo indubbio che l’imputato, lanciandosi più volte a grande velocità con il fuoristrada contro l’utilitaria della parte offesa e colpendo ripetutamente V. con un coltello in parti vitali del corpo, quali le regioni toracica e addominale, era ben conscio di porre in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di V., che non si verificò solo grazie al pronto intervento di terzi che riuscirono a bloccare l’imputato, il quale, armato, voleva continuare a infierire sulla parte offesa.

3. Parimenti priva di pregio è la seconda censura.

Ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono: a) lo "stato d’ira", costituito da una situazione psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile, che determina la perdita dei poteri di autocontrollo, generando un forte turbamento connotato da impulsi aggressivi; b) il "fatto ingiusto altrui", costituito non solo da un comportamento antigiuridico in senso stretto, ma anche dall’inosservanza di norme sociali o di costume regolanti l’ordinaria, civile convivenza; c) un rapporto di causalità psicologica tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse (Sez. 1, 8 aprile 2008, n. 16790).

Tanto premesso, la Corte osserva che, pur essendo incontestabile che il movente del tentato omicidio è da ricercare nella pregressa condotta della parte offesa, resasi in passato responsabile dell’uccisione del fratello dell’imputato, la provocazione cosiddetta per "accumulo", per potere essere riconosciuta, necessita, in ogni caso, della prova dell’esistenza di un fattore scatenante, che giustifichi l’esplosione, in relazione e in occasione ad un ultimo episodio, anche apparentemente minore, della carica di dolore o sofferenza che si assume sedimentata nel tempo (cfr. Sez. 1, 22 settembre 2004, n. 40550). Anche in presenza di questa peculiare forma di "provocazione", occorre, comunque, lo "stato d’ira" che ispira l’azione offensiva, e rappresenta la ragione giustificatrice del riconoscimento di una minore gravità del fatto. In altri termini, come evidenziato dai lavori preparatori dell’art. 62 c.p., n. 2, è sempre necessario che l’azione dell’imputato costituisca una reazione e che la stessa sia posta in essere mentre permane lo "stato d’ira"; anche se la norma non richiama espressamente il requisito della simultaneità, della immediatezza, ciò che conta è che il colpevole, provocato, reagisca in stato d’ira (Sez. 1, 2 marzo 2010, n. 13921 del 02/03/2010; Sez. 1, 6 novembre 2008, n. 1214; Sez. 5, 2 marzo 2004, n. 24693; Sez. 1, 3 novembre 1997, n. 701; Sez. 1, 15 novembre 1993; Sez. 1, 24 settembre 1992, n. 10330).

Alla luce dei principi sin qui illustrati, la sentenza impugnata è esente dai vizi denunziati, laddove, muovendo dalla netta distinzione tra sentimenti di odio e di rancore a lungo maturati e "stato d’ira" idoneo a configurare il fatto ingiusto, ha escluso che la scarcerazione della parte offesa, resasi in passato responsabile dell’uccisione di un prossimo congiunto dell’imputato, potesse costituire l’episodio ultimo, idoneo a determinare una condizione di intensa eccitazione e di perdita di controllo, a scatenare una reazione sotto ogni profilo eccessiva, nonchè a configurare un ragionevole nesso causale tra l’offesa, sia pure potenziata "per accumulo", e la successiva reazione.

4. Infondata è anche l’ultima doglianza. La dosimetria della pena è stata correttamente motivata, in conformità con i principi costantemente enunciati da questa Corte, sulla base della gravità del fatto e della negativa personalità dell’imputato.

5. Parimenti prive di pregio sono le censure concernenti le statuizioni civili, avendo la sentenza impugnata correttamente motivato la conferma delle stesse sulla base del comprovato danno subito dalla parte offesa.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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