Cass. civ. Sez. II, Sent., 16-03-2011, n. 6181 Difformità e vizi dell’opera Responsabilità dell’appaltatore

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 7 gennaio 1992 F. P. evocava, dinanzi al Tribunale di Taranto, L.R. esponendo che nel giugno 1991 il convenuto gli aveva affidato l’esecuzione di alcuni lavori di ristrutturazione del fabbricato di sua proprietà, sito in (OMISSIS), pattuendo il prezzo complessivo di L. 17.150.000, versato acconto per L. 7.000.000, ma nonostante egli avesse completato le opere, il committente non provvedeva al saldo del prezzo ed anzi sollevava contestazioni sull’esecuzione de contratto. Ciò posto, chiedeva la condanna del convenuto al pagamento di L. 10.150.000, oltre accessori.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del committente che, oltre a contestare le pretese di controparte (il prezzo pattuito sarebbe ammontato a L. 7.000.000, oltre ad ulteriori L. 1.000.000 per il maggior costo del materiale di rivestimento delle scale), spiegava domanda riconvenzionale per ottenere il completamento delle opere non eseguite, la eliminazione dei vizi ed il risarcimento dei danni, all’esito dell’istruzione della causa, il Tribunale adito rigettava la domanda attorea ed in accoglimento della riconvenzionale, condannava il F. al risarcimento dei danni quantificati in Euro 1.945,43, oltre al pagamento delle spese di lite.

In virtù di rituale appello interposto dal F., con il quale si doleva che il giudice di prime cure non avesse disposto consulenza tecnica d’ufficio per stabilire l’importo del corrispettivo delle opere commissionate, non aumentato il corrispettivo di L. 1.000.000 per i maggiori costi relativi al rivestimento della scala, oltre a non avere tenuto conto delle opere aggiuntive realizzate ed accolta la domanda riconvenzionale in violazione dei limiti di cui all’art. 112 c.p.c., la Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto, nella resistenza dell’appellato, che proponeva appello incidentale per non avere il giudice di primo grado accolta la riconvenzionale spiegata per il risarcimento dei danni, rigettava l’appello principale e in accoglimento di quello incidentale, riformava parzialmente la sentenza impugnata, condannando l’appellante alla corresponsione della svalutazione monetaria sulla somma liquidata.

A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale evidenziava che nella specie correttamente il giudice di prime cure aveva ritenuto provato il prezzo pattuito fra le parti per l’appalto sulla base delle prove testimoniali, non contestate dall’appaltatore; del pari non andava computato l’ulteriore importo di L. 1.000.000 a fronte dell’inadempimento dello stesso appaltatore. Aggiungeva, inoltre, che la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni era stata accolta in quanto il giudice di prime cure aveva ritenuto la domanda di riduzione del prezzo formulata in via alternativa e comunque, riconosciuto il risarcimento, non vi fosse più spazio per la riduzione del prezzo.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto ha proposto ricorso per cassazione il F., che risulta articolato su tre motivi, al quale ha resistito il L. con controricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1460 c.c. in relazione a quanto disposto dall’art. 1655 c.c. oltre ad avere la corte di merito riservato una motivazione insufficiente e tautologica circa un punto decisivo della controversia. In particolare, il ricorrente assume che i giudice di secondo grado sarebbe incorso in palese illogicità affermando che il saldo del corrispettivo, pari a L. 1.000.000 (pari ad Euro 516,46), nonchè le opere rimaste estranee alla originaria convenzione ed ordinate successivamente, non erano dovute per essersi l’appaltatore reso inadempiente, per cui "il contratto si è risolto", dal momento che il committente aveva formulato la diversa richiesta di riduzione del prezzo e di risarcimento dei danni.

Per principio pacifico nella giurisprudenza di questa corte, nei contratti a prestazioni corrispettive, la retroattività ( art. 1458 c.c., comma 1) della pronuncia costitutiva di risoluzione per inadempimento, collegata al venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite, comporta l’insorgenza a carico di ciascun contraente, ed indipendentemente dalle inadempienze a lui eventualmente imputabili, dell’obbligo a restituire la prestazione ricevuta: la sentenza che pronuncia la risoluzione del contratto per inadempimento produce, infatti, un effetto liberatorio ex nunc, rispetto alle prestazioni da eseguire, ed un effetto recuperatorio ex tunc, rispetto alle prestazioni eseguite. Una volta pronunciata la risoluzione del contratto, in forza della operatività retroattiva di essa, stabilita dall’art. 1458 c.c. si verifica per ciascuno dei contraenti ed in modo avulso dall’imputabilità dell’inadempienza, rilevante ad altri fini, una totale "restitutio in integrum" e, pertanto, tutti gli effetti del contratto vengono meno e con essi tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi. L’obbligazione restitutoria non ha, quindi, natura risarcitoria, derivando dal venire meno, per effetto della pronuncia costitutiva di risoluzione, della causa delle reciproche obbligazioni (nei sensi suddetti, tra le tante: Cass. 19 maggio 2003 n. 7829; Cass. 11 marzo 2003 n. 3555; Cass. 14 gennaio 2002 n. 341;

Cass. 4 giugno 2001 n. 7470). Ne consegue che nei contratti con prestazioni corrispettive, come quello di appalto, l’eccezione inadempienti non est adimplendum (consentita dall’art. 1460 c.c.) può paralizzare la richiesta della controprestazione, relativa alla prestazione già eseguita, ma non quella relativa alla parte della prestazione già eseguita che non sia sta restituita nè offerta in restituzione. Ciò precisato, questa corte ritiene, condividendo un consolidato orientamento, che nel caso di risoluzione del contratto di appalto, sebbene pronunciato per colpa dell’appaltatore, non osta a che questi, in detrazione alle ragioni di danno spettanti al committente, abbia diritto al riconoscimento di compenso per le opere già effettuate, e delle quali comunque il committente stesso si sia giovato (v. Cass. 13 dicembre 1977 n. 5444).

E’ dunque fondata la censura relativa al denunciato vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento al ricorrente della restituzione della somma di L. 1.000.000 che lo stesso aveva sostenuto per maggiori costi del materiale di rivestimento della scala, circostanza questa non contestata dal committente. In proposito va, infatti, rilevato che dalla lettura della sentenza impugnata risulta che effettivamente la corte di appello non ha tenuto conto di detto importo, nè ha considerato che trattavasi di importo pacificamente esborsato per una migliore rifinitura della scala realizzata, come richiesto dallo stesso committente, ed anzi ha giustificato il mancato computo della voce con la pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore.

Di converso, non possono ritenersi sussistenti i vizi di motivazione denunciati con riferimento alla restante domanda di restituzione per "le opere rimaste estranee alla originaria convenzione ed ordinate successivamente", in quanto non esposti nella loro consistenza dal ricorrente, nè in appello nè in sede di legittimità.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione ed erronea applicazione dell’art. 345 c.p.c. per omessa applicazione degli artt. 1657 e 1655 c.c., nonchè motivazione contraddittoria, insufficiente ed incongrua fondata su una lettura distorta e travisata degli atti processuali. Per il ricorrente il giudice distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto formulata per la prima volta la domanda di corresponsione del prezzo per le opere aggiuntive realizzare nel corso dell’appalto.

Al riguardo è appena il caso di osservare che come risulta dalle lettura degli atti processuali – attività consentita in questa sede di legittimità, attesa la natura (in procedendo) del vizio denunciato – l’appaltatore sin dal primo grado ha chiesto la condanna del committente al pagamento dei lavori aggiuntivi, concordati in epoca successiva alla stipula del contratto di appalto, opere però che a fronte di una lunga elencazione (che lo stesso ricorrente assume di avere fatto nell’atto introduttivo), non sono mai state oggetto di puntuale individuazione, come già detto, neanche in sede di articolazione ed assunzione delle prove (testimoniali ed interrogatorio formale), a chiarimento di quali, fra quelle realizzate, fossero da riferire all’originaria pattuizione o agli accordi in corso d’opera; nè il ricorrente ha specificato ciascuna voce nel corso del giudizio di gravame ovvero di legittimità ove ha continuato a riferire di avere "realizzato svariate opere estranee alla pattuizione del corrispettivo" (v. pag. 17 del ricorso). Con ciò rimane assorbita e superata anche la ulteriore denuncia circa la mancata liquidazione di detti lavori a norma dell’art. 1657 c.c., precisandosi che si tratta di previsione che opera solo in ipotesi di mancata pattuizione del prezzo.

La sentenza impugnata, pertanto, si sottrae alle critiche di cui è stato oggetto con le censure in esame.

Con il terzo ed ultimo motivo parte ricorrente lamenta la violazione ed omessa applicazione dell’art. 1668 c.c., nonchè dell’art. 1453 c.c. in relazione all’art. 112 c.p.c. per avere in sede di gravame – andando di contrario avviso rispetto al Tribunale – ritenuto che il committente non aveva fatto eseguire le opere da terzi per eliminare i vizi, per cui il risarcimento dei danni, pure richiesto, avrebbe dovuto essere accolto unicamente per i pregiudizi non eliminabili direttamente attraverso il diretto intervento dell’appaltatore.

Neppure questo motivo può essere accolto.

Nel contratto di appalto il committente che lamenti difformità o difetti dell’opera può richiedere, a norma dell’art. 1668 c.c., comma 1, che le difformità o i difetti siano eliminati a spese dell’appaltatore mediante condanna da eseguirsi nelle forme previste dall’art. 2931 c.c. oppure che il prezzo sia ridotto e, in aggiunta o in alternativa, che gli venga risarcito il danno derivante dalle difformità o dai vizi. Infatti la prima, che postula la colpa dell’appaltatore, è utilizzabile per il ristoro del pregiudizio che non sia eliminabile mediante un nuovo intervento dell’appaltatore, come nel caso di danni a persone o cose o di spese di rifacimento che il committente abbia provveduto a fare eseguire direttamente; la seconda, che prescinde dalla colpa dell’appaltatore comunque tenuto alla garanzia, tende a conseguire un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica, della quale rappresenta il sostitutivo legale mediante la prestazione della "eadem res debita", sicchè deve ritenersi ricompresa, anche se non esplicitata, nella domanda di eliminazione delle difformità o dei vizi (v. Cass. 13 gennaio 1999 n. 289; Cass. 1 marzo 1995 n. 2346).

Ne consegue che l’accoglimento da parte del giudice di merito della domanda riconvenzionale nei termini esposti dal ricorrente non contrasta nè con l’art. 1668 c.c., comma 1, nè con il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, avendo il L. richiesto anche il risarcimento del danno.

Un’ultima annotazione riguardo alla censura: la stessa corte di merito ha precisato che nella sostanza la condanna del giudice di prime cure, con l’accoglimento dell’appello incidentale, sul punto veniva mutata solo quanto al titolo, perchè nella sostanza il regolamento economico fra le parti non mutava, con conferma dell’iter argomentativo seguito.

Da quanto sopra esposto deriva che il ricorso va accolto per quanto di ragione limitatamente a parte del primo motivo e la sentenza va cassata in relazione a detta censura, mentre per il resto il ricorso va rigettato alla stregua delle precedenti considerazioni.

L’accertamento che ha comportato la cassazione della sentenza impugnata non determina però automaticamente il suo rinvio ad altro giudice. Nella giurisprudenza della corte, a seguito della modifica dell’art. 384 c.p.c. avvenuta già con la riforma di cui alla L. n. 353 del 1990 e della costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo, si è osservato che è configurabile il potere di decidere nel merito la causa, senza disporre conseguentemente il rinvio, fermi restando i limiti della non necessità di indagini di fatto e del rispetto del principio dispositivo.

Orbene nel caso di specie, essendo stata affermata l’erronea applicazione di un principio, al quale è conseguito il mancato computo della somma di Euro 516,46 (pari a L. 1.000.000), pattuita per il maggiore costo del materiale di rivestimento della scala realizzata dall’appaltatore, va condannato il committente al pagamento di detta cifra in favore del ricorrente, su cui vanno computati agli interessi legali dal di della domanda, trattandosi di debito di valuta.

Infine, ai sensi dell’art. 385 c.p.c. si deve provvedere sulle spese dell’intero giudizio, che possono essere regolate negli stessi termini in cui le avevano regolate entrambi i giudici di merito (quindi, quanto al primo ed al secondo grado), giacchè la domanda relativa al computo di detta somma è da ritenere marginale rispetto allo svolgimento dell’intera vicenda. Infine, vanno interamente compensate fra le parti per quanto attiene al giudizio di cassazione in considerazione dell’esito del giudizio.
P.Q.M.

LA CORTE accoglie il primo motivo del ricorso e rigetta gli altri motivi;

cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, condanna il resistente al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 516,46 (pari a L. 1.000.000), oltre ad interessi legali dalla domanda.

Dichiara interamente compensante fra le parti le spese del giudizio di cassazione, confermate le pronunzie in ordine alle spese di lite di primo e di secondo grado.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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