Cass. civ. Sez. II, Sent., 16-03-2011, n. 6170 Risoluzione del contratto per inadempimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

A.= Con atto di citazione, del 25 maggio 1992 R.S. conveniva, davanti al Tribunale di Roma, F.F. perchè venisse dichiarato risolto, per fatto e colpa del convenuto, il contratto d’opera intervenuto tra gli stessi il 14 gennaio 1991 e lo stesso convenuto venisse condannato alla restituzione del compenso versatogli e al risarcimento dei danni identificati in L. centomilioni. A sostegno della domanda proposta, R.S. esponeva di aver incaricato F.F. di progettare e seguire come direttore dei lavori la ristrutturazione dell’appartamento di via (OMISSIS). Di aver pattuito un compenso di L. trentacinquemilioni da corrispondere quanto a L. cinquemilioni al conferimento dell’incarico e quanto al resto in rate mensili di tremilioni. Malgrado il puntuale e integrale versamento del compenso la progettazione e la direzione dei lavori era stata effettuata in maniera tardiva, discontinua e negligente. E, di più, nel gennaio 1992 malgrado i lavori non fossero ultimati, F. F. aveva interrotto le sue prestazioni, costringendo il committente ad incaricare altro professionista. Instauratosi il contraddittorio, il convenuto contestava la fondatezza della domanda proposta e proponeva domanda riconvenzionale in ordine al pagamento di prestazioni fuori contratto e dell’Iva relativa a fatture già emesse.. Opponeva di aver adempiuto diligentemente alle proprie prestazioni e che la dilatazione dei tempi di esecuzione delle opere era dipesa dai continui ripensamenti del committente. Precisava di non aver potuto seguire ulteriormente il cantiere a causa di ulteriori sopravvenuti impegni professionali. Reclamava il pagamento dell’IVA maturata sulle fatture che dichiarava di aver emesso a fronte dei pagamenti ricevuti.

Con sentenza n. 35399 del 2001, il Tribunale di Roma riteneva: che l’incarico fosse stato diligentemente eseguito ma in modo incompleto, che il recesso del professionista non aveva recato danni al committente, che al momento dell’interruzione la prestazione doveva valutarsi eseguita per il 70%, che l’IVA non era dovuta non risultando emessa fattura, che, a F., non era dovuto alcun pagamento per prestazioni fuori contratto per difetto assoluto di prova. Provvedeva a dichiarare la risoluzione del contratto d’opera per colpa del F., condannava lo stesso alla restituzione al R. della somma di L. diecimilioni e cinquecentomila oltre interessi dal gennaio 1992. Condannava il F. al pagamento in favore del R. delle spese di causa.

B.= Avverso detta sentenza, proponevano appello, davanti alla Corte di Appello di Roma, entrambe le parti.

Il F. criticava la valutazione che la prestazione fosse stata eseguita solo al 70% Tuttavia evidenziava che la quantificazione della somma da restituire al committente era errata anche nell’ipotesi in cui fosse corretta la determinazione della percentuale di opera eseguita. Essendo rimasta inadempiuta solo parte dell’attività di direzione dei lavori che incideva tabellarmente in misura del 25% del totale, la somma da restituire avrebbe dovuto al più essere determinata con riguardo al solo compenso dovuto per la direzione dei lavori rispondente nella somma di L. 2.625.000 anzichè nella somma di L. 10.500.000. Reiterava il pagamento dell’IVA, disattesa in prime cure.

Il R. lamentava che l’opera del professionista fosse stata considerata diligente ed eseguita fino al limite del 70% dell’incarico e che non fossero stati ritenuti provati i danni cagionati: con la dilatazione dei tempi di esecuzione, con la disposizione di opere non autorizzate dal committente, per il compenso pagato all’architetto subentrato nell’incarico.

Riuniti i gravami la Corte di Appello di Roma con sentenza n. 2165 del 2004 depositata il 6 maggio 2004, accogliendo parzialmente l’appello di F.F. condannava lo stesso a restituire al R. la somma di Euro 1.335,70 (pari a L. 2.625.000) con gli interessi legali dal gennaio 1992 e compensava interamente le spese del doppio grado.

C.= Per la cassazione di tale sentenza ricorre R.S. per un motivo affidato ad un atto di ricorso notificato il 21 giugno 2005 e F.F., per due motivi che affida ad un atto di ricorso incidentale notificato il 15 settembre 2005. F. F., a sua volta, resiste anche con controricorso.
Motivi della decisione

1.= Preliminarmente, il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., essendo tutte le impugnazioni proposte contro la medesima sentenza.

2= Con il primo motivo di cui al ricorso principale, Stefano R. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e 2237 cod. civ. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. A) La Corte territoriale, secondo i ricorrente, avrebbe evitato accuratamente di qualificare la condotta dei F., nonostante questo profilo fosse il "tema centrale" del giudizio. In particolare, il ricorrente evidenzia che, mentre, il Tribunale, ritenuto che il F. aveva errato nel non aver comunicato nelle dovute forme la sua rinunzia all’incarico, qualificando – a dire dal ricorrente – tale condotta, cioè, la condotta del professionista, come un inadempimento tale da giustificare la risoluzione del rapporto per colpa, aveva dichiarato la risoluzione del contratto d’opera in oggetto per colpa del F.. La Corte di appello territoriale non riforma espressamente tale statuizione, tuttavìa, esprime una motivazione non pienamente comprensibile e coerente con la statuizione appena indicata, laddove afferma "Rispondendo all’interrogatorio egli (il signor R.) ha del resto ammesso di avere proposto la risoluzione consensuale del rapporto "poichè i lavori nel loro insieme andavano avanti molto lentamente, proposi all’architetto di interrompere la prestazione e farmi sapere in quanta parte riteneva di avere assolto all’obbligazione assunta" e ciò contraddice la domanda di risoluzione per inadempimento del contratto d’opera e la conseguente pretesa risarcitola". Sicchè – ritiene ancora il ricorrente – "Se come sembra, la Corte, che le parti avevano posto di fronte al bivio recesso – risoluzione per inadempimento, ha optato per una "terza via" lo ha fatto in maniera semiclandestina, illogica e immotivata". B) La Corte territoriale, sempre secondo il ricorrente, avrebbe male applicato l’art. 2237 cod. civ. nell’ipotesi in cui abbia ritenuto legittimo il recesso del F. giacchè l’art. 2237 cod. civ. subordina la legittimità del recesso del prestatore d’opera alla esistenza di una giusta causa.

C) Illegittima – lamenta ancora il ricorrente – sarebbe la determinazione del compenso maturato dal F. per l’attività svolta in quanto questo deve essere compiuto con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente e non alla quantità di opera eseguita dal prestatore.

2.1.= La doglianza non ha pregio non sussistendo alcuno dei vizi denunciati. Essa non merita di essere accolta posto che la sentenza della Corte di Appello di Roma: a) confermando la sentenza del Tribunale, richiamata nella parte espositiva delle fasi del giudizio, ha sufficientemente, e con chiarezza, qualificato la rinunzia del professionista alla continuazione dell’incarico, quale recesso; b) ha individuato la giusta causa del recesso del F. nelle "incertezze e nei ripensamenti del committente" nel consentire l’espletamento dell’incarico da parte del professionista, c) l’intera struttura motivazionale della decisione evidenzia che, l’affermazione della sentenza impugnata secondo la quale l’asserita proposta del R. di risoluzione consensuale del rapporto sarebbe incompatibile con la convinzione del R. stesso in ordine all’inadempimento del F., ammesso pure che si possa ritenere errata in fatto e dal punto di vista logico, è, ragionevolmente, diretta, contro una argomentazione, ad abundantiam, d) del tutto generica è altresì la doglianza secondo la quale il corrispettivo andava determinato non in base alla quantità dell’attività svolta ma al risultato utile per il cliente considerato che risulta accertato che l’opera del F. era stata completata in ordine all’attività di progettazione, mentre non era stata prestata l’intera attività di direzione dei lavori la cui parte mancante poteva essere calcolata nella misura del 25% rispetto all’intera attività di direzione dei lavori, e) a sua volta, e a contrario, la stessa critica del R. in ordine alla quantità dei lavori svolti è basata sui documenti di parte cioè sulla relazione del professionista che è subentrato al F..

2.2.= Va, in verità, osservato che al contratto d’opera, va riferita, in via preferenziale ed essenziale, la normativa di cui all’art. 2230 cod. civ. e segg. che per taluni aspetti deroga anche la normativa di cui all’art. 1453 cod. civ. in tema di risoluzione per inadempimento. In particolare e per quel che qui interessa, l’art. 2237 cod. civ., comma 2 prevede l’ipotesi in cui il prestare d’opera possa, legittimamente, recedere dal contratto stabilendo che il professionista può recedere dal contratto soltanto per giusta causa. Tuttavia, ove la giusta causa di recesso non fosse sussistente, non potendosi certamente imporre coattivamente l’esercizio dell’attività professionale, la manifestazione della volontà di recesso produce egualmente l’effetto estintivo del rapporto, e, dunque, la risoluzione o lo scioglimento del contratto d’opera. Con la specificazione che nell’ipotesi di recesso per giusta causa i professionista che recede dal contratto e chiede il compenso per le sue prestazioni, ai sensi dell’art. 2237 c.c., comma 2, ha l’onere di dimostrare l’esistenza del credito, quindi anche il risultato utile derivato al cliente dallo svolgimento della sua opera. Mentre il recesso del professionista, senza giusta causa, comporterà il diritto del cliente ad ottenere il risarcimento del danno subito, sempre che l’esistenza di un danno risarcibile sia provata.

2.2.3.= La sentenza della Corte di Appello di Roma, nonchè l’impianto motivazionale della stessa non presenta, dunque, vizi logici e sia pure nella sua brevità e mediante il rinvio alla sentenza del Tribunale di Roma, offre una chiara indicazione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, dato che il dispositivo della stessa sentenza impugnata consegue alla convinzione dichiarata che il F. ha espletato diligentemente l’incarico assunto ma in modo parziale e incompleto e che il recesso del professionista non ha comportato alcun danno a carico del R..

3= Con il primo motivo, di cui al ricorso incidentale, F. F. lamenta l’omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Ritiene il ricorrente che la Corte di Appello non abbia tenuto conto delle risultanze istruttorie dalle quali risultava provata la volontà delle parti di definire un rapporto a tempo determinato con un compenso mensile predeterminato e forfettario e che lo stesso aveva assolto puntualmente le obbligazioni assunte. In particolare il ricorrente specifica che la Corte di Appello non ha tenuto conto: che la durata dell’incarico era prevista per dieci mesi; che era stato stabilito un compenso mensile di lire tremilioni a partire dal mese di febbraio 1991; che ha svolto le sue prestazioni per più dei dieci mesi previsti (dal dicembre 1990 al gennaio 1992).

3.1.= La censura non merita di essere accolta. La sentenza della Corte di Appello di Roma oggetto del presente ricorso, contiene ripetuti riferimenti alle risultanze istruttorie, sia pure considerate nel suo complesso e in più occasioni ha confermato l’accertamento effettuato dal Giudice di prima istanza secondo il quale il F. aveva svolto l’incarico diligentemente ma in modo incompleto. Sicchè se la valutazione effettuata dal giudice di merito non risponde ad un personale convincimento del ricorrente è evenienza che non può essere assecondata dal Giudice di legittimità. Se poi, il ricorrente, abbia inteso sostenere che l’incarico aveva la durata di dieci mesi ed era stato adempiuto e pertanto aveva diritto al pagamento dell’intero compenso, la censura sarebbe infondata perchè integrerebbe gli estremi di una nuova e diversa impostazione della difesa e/o una diversa prospettazione del rapporto intercorso tra R. e F. estranei ai giudizi di merito e dunque non proponibile nel giudizio di Cassazione.

3.2.= Va osservato che questa Corte in diverse occasioni (da ultimo con sent. n. 7394 del 26/03/2010) ha avuto modo di affermare il principio secondo il quale "è inammissibile il motivo di ricorso per vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora il ricorrente (direttamente o indirettamente) intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice ad un suo diverso convincimento soggettivo e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, perchè tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. Se così non fosse il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.

4.= Con il secondo motivo il F. lamenta l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. (Le spese di lite) Il ricorrente ritiene che l’affermazione della Corte territoriale secondo la quale "l’esito del giudizio giustifica la compensazione fra le parti delle spese del doppio grado di giudizio" sia erronea e illogica se si confrontano le domande proposte dal R. ed i provvedimenti assunti nei due precedenti gradi di giudizio.

4.1 .= La censura non merita di essere accolta.

4.2.= Valgono anche per questa censura le stesse considerazioni già precedentemente esposte in ordine al primo motivo.

4.3= Va, altresì, evidenziato – come affermato da questa Corte in più occasioni (ex multis Cass. n. 31218 del 11/02/2008) che con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, giusta la disposizione di cui all’art. 91 c.p.c. con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi. E giusto nel caso in esame, la compensazione delle spese è giustificata dalla soccombenza reciproca.

In definitiva, il ricorso principale e il ricorso incidentale non possono essere accolti perchè infondati. Le spese vanno compensate.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso principale e incidentale, compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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